domenica 31 maggio 2009

Sogno di un Giardino di mezza estate

(foto presso Tellaro)






In attesa dell'Esperide Aretusa, che si trova in montagna a rilassarsi, pubblico queste foto che rappresentano un momento di giusta pausa preestiva. Anche i giardini di maggio e giugno (oltre che quelli di battistiani) si vestono di nuovi colori, nella luce trionfante del solstizio che avanza. Buon ponte della Repubblica e Arrivederci a presto.
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(foto del parco di Nervi a destra)
( foto piccola : terrazza sul mare dal parco di Nervi)

venerdì 22 maggio 2009

Art Déco, arte dimenticata


Il termine consta dell'abbreviazione di Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes, tenutasi a Parigi nel 1925.
Indica una categoria eccentrica dell'arte e del gusto che copre un periodo di 20 anni circa, riguarda architettura, arredi di pregio ed ebanisteria, moda, dipinti e arti visive.

In effetti, lo stile non nacque con la famosa Expo, che fu fondamentalmente una rassegna di oggetti e preziosi che già da tempo si andavano affermando. Una particolarità del 'movimento' (alquanto diversificato e scoordinato, in realtà) è il fatto d'esser la prima idea di modernità lussuosa realizzata, unita all'ultima incarnazione del classico: Modernità d'arte e avanguardia e Classicità quindi, al culmine della reciproca compenetrazione, alto artigianato d'arte, spesso 'firmato', unito alla prima produzione industriale.

Se la Parigi degli anni 10 era già déco, gli Usa registrano un'adesione allo stile negli anni '30: lo si ravvisa nell'architettura, nelle scenografie dei film, nelle case 'a nave' fino allo streamline modern (oggi l'attento recupero del Miami Art Deco District).

Quello americano è un déco più moderno e asettico, più rutilante, più aerodinamico e forse un po' artificioso, meno legato alla vecchia tradizione europea, da Paul Manship al Chrysler Building.

Parigi ebbe i mobili lucidissimi e sinuosi di Jacques Emile Ruhlmann tuttora quotati, l'azienda di Süe et Mare , gli originali pannelli di Eileen Gray stupefacente ferro battuto di Edgar Brand , le lacche di Jean Dunand (e i gioielli di Lalique e Cartier) che non hanno bisogno di presentazioni nemmeno per l'antiquariato recente. (in alto al centro: Alberto Martini, ritratto di Wally Toscanini, 1925 - pastello - 135 x 205 cm)
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qui a destra: Galileo Chini - "la Primavera che perennemente si rinnova"




Nel Déco in generale, anche in quello italiano, possiamo trovare, come fonti, indistintamente, le arti primitive (motivi e forme di animali: raffigurazioni di tigri, di pantere dai volumi sinuosi, le antilopi, i cerbiatti, i levrieri; rappresentano il trionfo della forma e del movimento),
la scultura e i vasi dell'antica Grecia, il geometrismo del cubismo e del futurismo, le campiture cromatiche accese dei Fauves, la severità Neoclassica quanto una sclerotizzazione del Biedermeier, cristalli, motivi vegetali,
o di raggi solari e getti d'acqua (la fontana della vita è un simbolo vitalistico ricorrente anche nel déco italiano che si ritrova fino nei cristalli delle credenze, intagliato o in serigrafie), forme femminili agili per una sorta di déco femminile (come nelle preziose statuine di ballerine o Diana) e un déco maschile forzuto-geometrico e monumentale-severo (con un qualcosa di atletico e marziale, negli arcieri).


L'Art Déco è caratterizzata dall'uso di materiali industriali e artigianali-preziosi insieme: alluminio, acciaio inossidabile, bachelite, ma uniti a lacca tradizionalmente lavorata, legni anche rarissimi intarsiati in radiche preziose (mogano, ebano, bois de rose, macassar), poi incurvati in forme oggi spesso improbabili, uso di pergamena, pelle di squalo o di zebra.

L'uso massiccio di forme zigzaganti, di curve larghe e volute, motivi acuti e radianti simboleggiano le novità della modernità, come l'energia elettrica, la vita veloce, la caratteristica 'uraniana' della prima fase del Novecento per un'elevazione estetica della vita moderna, un linguaggio eclettico e un delirio formale un po' strabordante ma di grande fascino per l'alta borghesia italiana.

L'Art Déco fu perciò una sintesi ardita di classicità e modernità quanto di acciaio e legno sbalzato, dai volumi generosi, dinamici, uno stile sempre opulento e lussuoso.

Divenne poi popolare anche per gli interni dei cinema e dei transatlantici, se ne hanno declinazioni alte e basse, anche d'uso quotidiano.

Alcuni considerano l'Art Déco come una vulgata del Modernismo in architettura. Il Razionalismo italiano ne utilizzò elementi misti a strutture più severe, soprattutto nelle città di fondazione in epoca fascista in Italia e nelle colonie (Libia, Eritrea, Etiopia) con agganci alla tradizione locale e al gusto esotico.
In ottica déco-razionalista Sabaudia ne ha esempi in alcuni edifici, ma troviamo scorci architettonici del genere in tutta Italia. Una volta diffusosi nella produzione di massa, il déco iniziò a essere svalutato perché considerato kitsch.
Al di là di Ertè e di Tamara de Lempicka, conosciuti ormai universalmente, oltre Marcello Dudovich e magari qualche imagerie nostalgica legata ad un cinema calligrafico stile Caterina Boratto in citazioni Belle Epoque, oltre l'arte 'termale' che tutti abbiamo presente, la Mostra si propone coraggiosamente di evidenziare la personalità e l'individualità uniche del déco italiano.


Lo svolgersi del Déco in Italia è stato suddiviso in 11 sezioni.
- Inflessioni decorative- Verso nuove sintesi- Orizzonti esotici- Da Venezia a Bisanzio: il Déco di Vittorio Zecchin tra vetri e dipinti-
Il Pochoir: mode tra oriente e settecento- Divagazioni futuriste- Donne del futuro- La severità del Déco- Il sogno dell’antico- Giò Ponti: conversazioni classiche alla Richard-Ginori- Déco scolpito.

Sono presenti, a garantire l'artisticità e l'ispirazione alta della selezione, soprattutto opere pittoriche che devono essere rivalutate, a grandi linee: i lavori ancora vici
ni al liberty di Galileo Chini , Umberto Brunelleschi, Duilio Cambellotti, Giulio Aristide Sartorio, Alberto Martini. Le opere degli anni 20 di Felice Casorati, Guido Cadorin e Piero Marussig, Moses Levy.




(Felice Casorati, 1924, Concerto)

Ancora i futuristi Giacomo Balla, Prampolini, Fortunato Depero, Diulgheroff, Fillia, gli orizzonti esotici del déco: Thayaht, le opere successive di Felice Casorati, Mario Sironi e Massimo Campigli.

La mostra intende offrire al pubblico un esempio della produzione pittorica, senza tralasciare la scultura alla quale è stata riservata un’apposita sezione.

A Giò Ponti è dedicata una sezione speciale nella Palladiana Villa Badoera a Fratta Polesine, mentre a Palazzo Roverella sarà presente una raffinata serie di sue ceramiche realizzate per la Richard Ginori. Famose di Giò Ponti anche le sue realizzazioni di mobili completi in radica, la decorazione dell'Università di Padova, e naturalmente tutta l'attività successiva come designer o meglio artista totale, non solo limitato all'art déco e all'estetica anni '30.










Giò Ponti, decorazione Università di Padova con figure dei letterati italiani: percorrendo i gradini si ha la sensazione di trovarsi faccia a faccia ora con uno ora con l'altro dei nostri Autori grazie alla disposizione strategica delle figure. Contro le famose tesi di Adolf Loos, si può tranquillamente affermare che per il déco l'ornamento non è "un delitto", anzi è una necessità irrinunciabile.


Sede: Palazzo Roverella - Via Giuseppe Laurenti, 8/10, Rovigo.
Periodo: 31 gennaio - 28 giugno 2009
Orari: 9.30-19.00 (tutti i giorni), 9.00-21.00 (sabato), 9.00-20.00 (festivi), lunedì chiuso
Ingresso: €9,00 intero - €7,00 ridottoTel: 0425460093 - 3483964685 (infos e prenotazioni)
Note: la sezione Giò Ponti sarà visitabile presso Villa Badoer, in via Tasso, 1 - Fratta Polesine (RO) con orari 10.00-13.00; 14.00-18.00 (feriali) e 10.00-13.00; 14.00-19.00 (sabato e festivi).
Autore: Josh

venerdì 15 maggio 2009

La regina Teodolinda tra storia e mito



Una nuova provincia s'affaccia ai nastri di partenza, fissata per il 6 e 7 giugno prossimi. Cinquantacinque comuni della provincia di Milano si sono uniti per dar vita alla provincia di Monza e Brianza. Questo post è dedicato a lei.

Il 15 maggio 589, a Verona, nell'accampamento dei Longobardi, di fronte ai cavalieri addobbati e schierati per il grande evento, venivano officiate le nozze fiabesche tra il loro re Autari e la giovane fidanzatina Teodolinda; da quel giorno Teodolinda sarebbe entrata a pieno merito nella storia e nella leggenda. Storia e leggenda di alti e bassi. Bassi, come quado Dante la ignorò o dimenticò di citarla nella Divina Commedia. Colpa non tutta sua, forse, perchè i Longobardi, come prima di loro i Celti, tramandavano solo oralmente le loro storie, e può darsi che a Dante, dopo circa 600 anni dalla morte di Teodolinda, delle storie di lei non fosse pervenuto nulla; altrimenti l'avrebbe sicuramente cantata nel Paradiso, creando per lei versi intuitivamente entusiastici e di facile ispirazione. E' singolare la storia della regina Teodolinda: acclamata, protetta, benvoluta dal suo popolo, ma anche da popolazioni italiche, conquistate con la forza dall'esercito dei longobardi invasori, e sottomesse alla mercè del loro arbitrio. La popolazione italica che più di tutte è stata avvinta dal carisma di Teodolinda, è stata quella brianzola, e in particolare Monza, che in particolari momenti della sua storia, aveva pensato perfino ad una sua santificazione.






Teodolinda, figlia di Garibaldo, duca di Baviera, re dei Bavari, entra nelle cronache alto medioevali, tanto spesso tragiche e sanguinose, nei panni di una principessa da favola. Già quando Paolo Diacono, ascoltando la poesia orale del suo popolo, trascrisse sulla pergamena tradizioni e leggende, sottolineò come la regina, con il suo operato, fosse benvoluta sia dal popolo sia dai grandi di quell'epoca.






Il merito di Teodolinda fu quello di spianare la strada all'integrazione fra Longobardi e Romani, poichè attraverso coraggiose scelte di carattere religioso, portò pace e benessere alle terre da lei governate. La pace tra Longobardi e l'Impero Romano fu un impegno costante che venne benevolmente accolto anche attraverso contatti epistolari con Gregorio Magno. La sua collaborazione con il Papa non si svolse solo sul piano religioso, ma anche su quello politico. I loro sforzi congiunti favorirono un accordo che garantì una pace decennale nel VII secolo. Gregorio serbò riconoscenza alla regina per il suo impegno sociale e politico, e le inviò numerosi doni per suggellare il rispetto e l'amicizia.






Il popolo, colpito dalla straordinaria figura della regina, celebrò attraverso racconti e leggende la potenza e la bellezza di questa affascinante sovrana Longobarda.
Eccellente cavallerizza, era giunta a Verona col suo sfarzoso seguito e il 15 maggio 589, e nel campo di Sardi, presso Verona, dov'era schierato l'esercito longobardo, avvennero le nozze tra Teodolinda e il re longobardo Autari.






A Pavia, conquistata anni prima da Alboino, e scelta quale capitale del Regno Longobardo, giunse Teodolinda, forse nella stessa estate di quell'anno 589. Ma essendo abituata al clima più fresco e temperato della sua Baviera, si trovò forse impacciata al clima estivo di Pavia, caratterizzato da elevata umidità, essendo Pavia nel basso della Pianura Padana lombarda e proprio a ridosso del fiume Ticino.






All: http://untourperpavia.blogspot.com/)Fu forse per la torridezza del suo clima estivo, che, durante il suo periodo di reggenza, Teodolinda fece spostare la capitale da Pavia a Milano, creando poi a Monza la residenza estiva, dove il clima è indubbiamente ancora migliore.






E al nome moderno della città di Monza (Modicia per gli antichi Romani) è legata una delle leggende più diffuse, create intorno la figura di Teodolinda. Ne circolano di varie versioni, che si differenziano solo per la località di partenza da cui Teodolinda iniziò la famosa passeggiata a cavallo, che poi la stancò, facendola assopire e quindi sognare.






Già il fatto che il luogo di partenza della passeggiata a cavallo sia diverso tra le varie versioni, la dice lunga sul valore storico delle leggende, ma insegna anche che la Regina aveva saputo circondarsi di un tale affetto dalle sue popolazioni che andava spesso a visitare in groppa al suo cavallo, tanto da diventare poi per loro un mito. Si può pertanto affermare che ogni borgo, ogni paese della Brianza abbia una leggenda che la lega inestricabilmente al suo mito.La leggenda del nome dato a Monza, narra che





Teodolinda si era da poco convertita al cattolicesimo e una notte, in sogno, le apparve il Salvatore che le disse di costruire una chiesa nel luogo dove le sarebbe apparsa una colomba. Teodolinda si svegliò e decise che avrebbe seguito il consiglio avuto nella notte. Un giorno, uscendo dal castello di Pavia, andò a caccia nel territorio di Monza e, mentre cavalcava nella foresta, stanca, si fermò a riposare lungo le rive del Lambro, all'ombra di un albero. Appena addormentata, in sogno, le apparve la bianca colomba che si fermò poco lontano da lei, indicandole dove avrebbe dovuto costruire l'edificio religioso.





Nella cappella all'interno del Duomo di Monza (nella foto a destra), sono affrescate quarantacinque scene della vita della regina Teodolinda e tra queste vi è quella riguardante questo sogno. Il pittore, descrivendo questa scena, ha realizzato la figura della regina e l'immagine della colomba con le parole che vennero pronunciate dai rispettivi personaggi che sono: Modo (qui) ed Etiam (si). Dalle due parole pronunciate dalla colomba e dalla regina si formò il nome di Modoetia (Monza)." (*)Il personale interessamento alla figura della regina Teodolinda, risale al tempo della mia giovinezza, quando sentivo raccontare ciò che ancora rimaneva delle antiche leggende sulla chiesetta romanica-medievale di Sant'Eusebio, a Cinisello Balsamo, incentrate tutte intorno la figura della mitica regina longobarda. L'interesse si è riacceso più tardi quando, nella Storia di Nova Milanese, mi sono imbattuto in due leggende: quella più conosciuta, riguardante la "Strada della Regina" (**), che passa per Nova, e, quella meno nota, sulla chiesetta dell'Assunta, di Grugnotorto, frazione di Nova Milanese, che la leggenda vuole sia stata voluta dalla regina Teodolinda (**).










Bibliografia: In Brianza sulle tracce di Celti e Romani (Donatella Mazza); Teodolinda regina dei Longobardi (Antonello Marieni) (*); Teodolinda la Longobarda (Alberto Magnani - Yolanda Godoy); Storia di Nova (Massimo Banfi - Angelo Baldo) (**). A dimostrazione del fatto che a Monza e Brianza l'interesse per la regina Teodolinda è più vivo che mai, domani, 16 maggio, in occasione della kermesse annuale regionale "Fai il pieno di cultura", a Palazzo Borromeo di Cesano Maderno verrà presentato un nuovo libro dall'emblematrico titolo: "Teodolinda il senso della meraviglia".












Autore: Mario (Marsh)

domenica 10 maggio 2009

Il mistero della bella Simonetta



Ci sono dipinti che incutono la cosiddetta sindrome di Stendhal. E pare che tra i primi ad esercitare questa sorta di rapimento estetico accompagnato da tachicardia, ci siano proprio quelli di Sandro Botticelli, che guarda caso, fu perseguitato dal Savonarola e dai suoi Piagnoni (una sorta di frati simili ai Talebani di oggi) i quali distrussero un buon numero di sue pregiate tele. Se le belle immagini vengono perseguitate dall'iconoclastia è segno evidente che detengono un potere pressoché magico. Non tutti sanno però che tra le muse ispiratrici dei suoi dipinti e di quelli di Piero di Cosimo ci fu una stupenda fanciulla morta in giovanissima età: Simonetta Cattaneo in Vespucci, la cui breve vita è avvolta da un'aura di mistero. Chi muore giovane viene baciato dagli dei. E forse solo in questo sta in parte la spiegazione dell'immortalità postuma di Simonetta che ha esportato per il mondo la sua bellezza elevandola a modello universalmente riconosciuto. Parla di lei il poeta Angelo Poliziano. Parla di lei il D'Annnunzio (la bella Vespuccia ne l'Alcyone).






Era la più bella di Firenze. E infedele, si dice pure.
La immortalarono Piero di Cosimo, in veste di Cleopatra (la ritrae, altera, con un'aspide al collo, quasi volesse dire noli me tangere, sullo sfondo di un placido paesaggio fluviale) e Sandro Botticelli, nella sua celeberrima Nascita di Venere. Anche ne La Primavera è incerto se è stata raffigurata nelle vesti della ninfa Clori (ramoscello in bocca rapita da Zefiro) o in una delle Tre Grazie, poste a sinistra del misterioso dipinto. E' sempre Simonetta in Venere e Marte accanto a Marco Vespucci, suo consorte (immagine in alto al centro), dipinto di grande valore simbolico-allegorico come del resto tutte le opere botticelliane, in cui posa signorilmente vestita (Botticelli fu abile disegnatore di tessuti), mentre Marco Vespucci (Marte) è spogliato e in stato di sonnolento abbandono: entrambi attorniati da giocosi faunetti che si trastullano con le armi del dio della guerra.



Poi Venere (cioè lei), si fa anche Minerva che doma il centauro, sempre in un famoso dipinto botticelliano (in basso a sinistra) quasi a dimostrare che la Bellezza e la Saggezza dominano l'animalità. E naturalmente è sempre la Simonetta che ha dato un volto a numerose Madonne col Bambin Gesù.
La cantarono il Poliziano e Lorenzo il Magnifico, che fu, tra l'altro, anche poeta in proprio. E, in tempi più recenti, pure Gabriele d'Annunzio.
Furono in molti ad amarla: Marco Vespucci suo marito, figlio di Piero, alto dignitario della Corte dei Medici nonché cugino di Amerigo Vespucci, il famoso navigatore e scopritore. E il citato Lorenzo de' Medici, suo fratello minore Giuliano, che morirà nella congiura dei Pazzi durante il famigerato assassinio nel Duomo di Santa Maria del Fiore. E ancora Alfonso d'Aragona, prima di diventare re di Napoli. Lo stesso Botticelli, sempre sensibile alla sua bellezza, dopo averla tanto dipinta, volle essere sepolto ai suoi piedi nella chiesa d'Ognissanti.
Simonetta, la bella Simonetta, la senza paragoni, nasce nella distinta e facoltosa famiglia Cattaneo nel 1453. Non si sa bene se a Genova o a Fezzano di Portovenere, un tempo sicuro avamposto della stessa Repubblica Marinara genovese. C'è chi, alimentando la leggenda, afferma che Portovenere prenda il nome da lei, la Venere vivente. E per curiosa coincidenza, proprio colà fu eretto nel periodo romano, un tempio pagano in onore di Venere, trasformatosi poi nel corso dei secoli, nella caratteristica chiesetta di S. Pietro in gotico genovese, a picco sul promontorio prospiciente il mare.
Si sa, però, che si sposa nel 1468 giovanissima e con una ricca dote – a quindici anni – con Marco Vespucci e si trasferisce a Firenze, dove ha successo alla Corte dei Medici, in un fastoso e splendente periodo nel quale le donne ottenevano più omaggi che diritti (oggi avviene il contrario).
Muore il 26 aprile 1476, a ventitrè anni. Si dice di tisi, ma la vulgata fiorentina parlò anche di un avvelenamento. E Lorenzo versa il suo dolore in un sonetto che inizia così: "O chiara stella che co' raggi tuoi…".
La sua vita, con risposte attendibili alle domande di sempre, la troviamo narrata in "Simonetta Vespucci. La nascita della Venere fiorentina" di Giovanna Lazzi e Paola Ventrone. Il giornalista Claudio Angelini ha scritto in tempi recenti "Il mistero di Simonetta", romanzo ispirato alla sua squisita bellezza. Altro di lei non saprei narrare, se non che il suo ideale di bellezza neoplatonica rinascimentale recava già in nuce la dolcezza e la placida sensualità di quello stile tutto italiano che ci è universalmente riconosciuto. "Cosa bella e mortal passa e non dura, diceva il Poliziano. Lei, invece, perdura fino ai nostri giorni.



Autore : Hesperia
















































sabato 2 maggio 2009

Monet al tempo delle ninfee-In mostra a Milano

"Il giardinaggio è un'attività che ho imparato nella mia giovinezza quando ero infelice. Forse devo ai fiori l'essere diventato un pittore"

Claude Monet nel 1890 acquistò a Giverny, lungo la Senna, una casa con un terreno, che trasformò in un giardino acquatico giapponese. La proprietà consisteva in tre aree distinte: il giardino dei fiori, detto Clos Normand, di fronte alla facciata della casa, il giardino acquatico al di là della ferrovia, e l'orto-frutteto, coltivato in una proprietà separata, la Casa Blu. Dopo aver trascorso dieci anni a inventare le Clos Normand, e a ritrarre su tela le sue abbondanti fioriture, Monet rivolse la sua attenzione al terreno paludoso che si trovava in fondo alla proprietà, oltre la ferrovia. Comperò questa terra intrisa d'umidità e decise di creare un giardino acquatico, la parte principale era costituita da uno stagno, circondato da cotogni, felci, salici, rododendri e azalee, dove il grande pittore mise a dimora le più diverse specie di ninfee, diventando il suo giardino giapponese, oggi il più visitato al mondo (una bellissima fotogallery)
All’epoca Monet aveva cinquant’anni ed era già l’esponente più rappresentativo dell’Impressionismo, visse nella casa di Giverny per il resto della sua vita, cercando senza sosta di realizzare quella che considerò l’opera d’arte in assoluto più importante: il suo giardino.


Una magnifica ossessione che, come dirà lo stesso Monet “è una cosa che va al di là delle mie forze di vecchio”, catturandolo in una irrinunciabile sfida nel “riuscire a rendere ciò che sento”.
La vita intorno a questo specchio d’acqua e soprattutto i giochi di luce che le ninfee determinavano furono l’ispirazione dei circa 200 quadri che Monet dipinse fino alla morte con quel suo particolarissimo stile di rarefazione, di evanescenza, quasi una progressiva dissoluzione della visione che caratterizzò la sua pittura nella parte finale della vita.
Quegli anni furono per Monet il tempo delle ninfee, e sono il tema della mostra allestita nelle sale di Palazzo Reale a Milano, ideata e curata da Claudia Zevi con il contributo di Jacques Taddei, Hélène Bayou, Michel Draguet, Marco Fagioli e Delfina Rattazzi.
Venti grandi tele, che Monet dipinse tra il 1900 e il 1923, provenienti dal Museo Marmottan di Parigi (che in questa occasione ha effettuato il più numeroso prestito della sua storia) verranno esposte dal 29 aprile al 27 settembre.
Accanto ad esse saranno in mostra anche immagini fotografiche coeve del giardino e, a rotazione (perché la delicatezza delle opere non consente un'esposizione alla luce per così tanti mesi consecutivi), 60 stampe di Hokusai e Hiroshige provenienti dal Museo Guimet di Parigi, a testimonianza del forte richiamo all'arte giapponese che ebbe un ruolo determinante nell'ultima stagione della vita del maestro impressionista. Monet non fu il solo pittore ad essere influenzato dalle produzioni giapponesi, ma è stato sicuramente il maggiore collezionista con 276 stampe nella tradizione ukiyo-e. Il suo maggiore interesse è la lettura del paesaggio e della natura attraverso un loro frammento e la serialità delle vedute, in particolare quelle del Monte Fuji e dei fiori di Hokusai, così come le serie delle acque e dei ponti di Hiroshige. Il confronto tra l’idea di paesaggio nell’arte giapponese e le opere di Monet è infine completato dall’esposizione di una serie di preziose fotografie dell’Ottocento, dipinte a mano, di giardini giapponesi.
Informazioni sulla mostra: “Monet e il Giappone. Il tempo delle Ninfee”, dal 29 aprile al 27 settembre 2009, PALAZZO REALE, Piazza Del Duomo 12 Milano; orario: lunedì 14.30 – 19.30; martedì – domenica 9.30 – 19.30; giovedì 9.30 – 22.30.
La biglietteria chiude un’ora prima. Info. tel.+39 02875672