martedì 24 gennaio 2012

La crisi economica raccontata in 4 film



 La crisi del ’29 trova un suo celebre cantore in John Ford, regista di Furore (Grapes of Wrath, letteralmente "I frutti dell'ira", in riferimento alla Bibbia) , film del 1940 che attinge a piene mani al possente romanzo omonimo di  John Steinbeck, il cui protagonista Tom Joad in fuga disperata dalle tempeste di sabbia dell’Oklahoma insieme alla sua famiglia,  si fa interprete del suo disorientamento e sradicamento, allorché viene espropriato della sua terra dalle banche ed è costretto ad attraversare, un’America ostile e crudele in cerca di lavoro e di cibo per sé e per i suoi familiari. Perfino un bicchiere d'acqua bisognava pagarlo. Un’odissea epica e commovente a bordo di uno sgangherato camioncino che perde pezzi strada facendo, con la famiglia patriarcale  dei Joad che si assottiglia sempre più (gli anziani muoiono di stenti e di dispiacere durante il viaggio),  nel cui andamento filmico si ritrovano le strutture narrative del western fordiano, pur essendo un classico di denuncia sociale. Memorabile la scena dell'esproprio delle fattorie e dei terreni da parte dei crudeli giannizzeri delle banche (qui nel video, reperita solo nella versione inglese, purtroppo). Suscettibile di grandi riflessioni, il fatto che questi poveri mezzadri durante l'esodo da una costa all'altra,  non potevano portare con sé nemmeno una piantina né sementi della loro terra, poiché bisognava ricomprarle in loco, negli stati ospitanti. Un film da rivedere.



Fango sulle stelle (Wild River) di Elia Kazan (1960) narra  del New Deal rooseveltiano degli anni ‘30 e delle grandi opere,  in reazione alla Grande Depressione. Opere di modernizzazione idrauliche guardate con diffidenza da vecchie generazioni di proprietari fondiari ancorate al passato, volte a salvaguardare quella terra che amano e che si illudono rimanga  immutabile nel tempo coi valori nei quali sono cresciuti. La figura di Ella Garth (Jo Van Fleet), un’ anziana proprietaria terriera che teme il "progresso"  con tutte le incognite ch’esso comporta, è lo specchio della vecchia America rude e onesta, ancorata ai valori patriarcali che se ne va. Lee Remick nel ruolo della nipote Carol e Montgomery Clift nel ruolo dell’ingegnere della TVA (Tennesse Valley Authority, l'autorità preposta da Roosevelt per le dighe sul fiume) , completano un cast d’eccezione. Il senso del fluire del tempo, filmato con uno stile calmo e maestoso è dato dallo scorrere del fiume Tennessee che attraversa la grande vallata dell’omonimo stato. Tutto cambia, tutto fluisce anche se non lo vogliamo, è il messaggio del film.




Morte di un commesso viaggiatore (1985) tratto dal dramma di Arthur Miller del 1945, qui nella versione più moderna di Volker Schloendorf prodotta dallo stesso Miller,  con Dustin Hoffman e un giovane ma già straordinario John Malkovic, è una critica spietata al darwinismo sociale di una società americana il cui “diritto alla felicità” e a perseguirla (the Pursuit of Happiness) sancito dalla Costituzione, diventa quasi un obbligo-dovere. Un’ossessione tale da trasformare il sogno in un’allucinazione. Il piccolo commesso viaggiatore dal sorriso facile scopre il disinganno e le frustrazioni del suo anonimo mestiere. E cade vittima di una società implacabile nella quale l’individualismo, lungi dall’ essere arma di difesa, crea  fragilità e vulnerabilità. Fino a spingere al suicidio il poveretto, che pensa di valere più da morto che da vivo. Se non altro perchè i suoi familiari potranno incassare l’indennità di assicurazione sulla sua vita. Film crudele e amaro sulla frantumazione del "sogno americano".

Da ultimo “Wall Street” di Oliver Stone del 1987 ci anticipa da vicino quel che stiamo attraversando: la crisi finanziaria dei mercati globali, la dismissione dei valori etici, il consumismo sfrenato, l’avidità e il cinismo, tutti elementi riscontrabili nelle fulminanti e corrosive battute di Gordon Gekko (Michael Douglas), uomo-simbolo dello yuppismo sorto da quella  Reaganomics già in affanno per le sue incipienti bolle speculative nonché trader senza scrupoli fin troppo emulato da rampanti speculatori delle generazioni successive. Personaggio sulfureo di “cattivo maestro” che cerca di corrompere Bud Fox,  un giovane broker di Borsa, instillandogli facili miti di ricchezza conquistata con rapidità ("Avidità è bello"),  Gekko è demone insonne e cocainomane  alla ricerca perenne di denaro da far girare. Celebre la sua battuta “money never sleeps” (il denaro non dorme mai), che darà poi il titolo anche al sequel dello stesso Stone, il quale sequel seppur accettabile non è all'altezza del primo film.  Gekko è parte integrante  di quel mondo élitario per adepti simile a un santuario dove tutto si crea,  tutto si distrugge e tutto si brucia su quel falò delle vanità che è Wall Street. Quattro films, per riflettere su un controverso Paese che ci trascina nella sua orbita satelitare, che ci parla dei suoi sogni impossibili, dei suoi dogmi capitalistici, delle sue illusioni e delusioni; dei suoi voli  e delle sue cadute.


 I film di John Ford,  di Elia Kazan, di Schloendorf,  di Oliver Stone, non diminuiranno certamente il numero dei nuovi disoccupati e diseredatii del terzo millennio che già stanno soffrendo in massa in Usa come in tutti gli altri stati d'Occidente, ma ci inducono, se non altro,  a riflettere sul tormentato motore del mondo e della Storia i cui ingranaggi sembrano incepparsi ieri come oggi trascinando con sé moltitudini di folle inermi e indifese.




Hesperia

martedì 17 gennaio 2012

Rodgers & Hart

E' un piacere poter parlare in breve di questo piccolo "team" di Autori.

Dietro a questa apparente 'sigla',
si cela un duo di geniali compositori dell'era del jazz, ovvero
Richard Rodgers (1902 - 1979), compositore, e Lorenz Hart (1895 - 1943), il paroliere.


La premiata squadra è coautrice di uno dei più riusciti songbooks di standards molto noti nel jazz e nella musica internazionale di classe, con alcuni punti ricorrenti.
Le indimenticabili melodie di Rodgers sono spesso sentimentali, ariose, ma particolarmente intense, con una qualità introspettiva molto moderna per l'epoca, famose e continuamente reinterpretate anche in versione solo strumentale.
Le parole di Hart (formazione letteraria, giornalista, accademie d'arte, di discendenza dal poeta Heinrich Heine), nella loro apparente semplicità, sono piccoli brani poetici:
alla loro comparsa sembravano il primo alfabeto dei sentimenti e di un differente modo di narrare in questo genere musicale, più dei brani pur ottimi dei Gershwin o di Irving Berlin o di Cole Porter.
Hart era in fondo un poeta della disillusione della (sua stessa) generazione USA,
la sua attività va dal 1919 fino agli anni '40, che comprendeva la (così attuale anche per noi oggi) crisi del '29;
sensibilità personale e circostanze contingenti ne fanno un abile ritrattista dello smarrimento esistenziale, della solitudine sentimentale, della caduta delle illusioni per la vita "moderna" e spersonalizzata nelle gelide metropoli, grazie alla creazione di immagini verbali interiorizzate e inedite.

Il lavoro di Rodgers-Hart si concretizzò al principio in ben 28 musicals (anche se i brani loro più famosi nei decenni successivi appartengono ad una dimensione di rilettura intimistica e non tipicamente Broadway), e più di 500 brani musicali, di cui ricorderemo solo alcuni, illuminati e fatti vivere da grandi interpreti degli strumenti o della voce nel tempo. La pregnanza del loro connubio tra musica e parole uscirà dal genere musicale originario (saranno riletti decenni dopo anche nel pop e nel rock), anche se Rodgers-Hart possono essere considerati tra i capostipiti di una qualità di scrittura musicale che mira all'interpretazione emotiva dei loro pezzi, dalla tensione estrema che pulsa tra le note e quasi liberatoria.

La cifra più personale (sia nella musica sia nelle parole) che li pone tra i maggiori del Novecento in questo ambito, ricorrente nei loro lavori più riusciti, è la capacità di inscenare una sorta di oscillazione dell'emozione tra poli differenti, un'ambivalenza dei significati dei fatti dell'esistenza, una gioia di vivere su cui incombe spesso un risvolto drammatico,
da cui scaturisce il loro tono poetico:
vittoria/sconfitta, slancio del desiderio/utopia e disillusione,
poesia/brutalità, fantasia/realtà, ideale/ caduta....dipinte in brevi efficaci tratti.

_Dal loro primo musical, la classicissima "Manhattan", in origine da "The Garrick Gaieties" 1925, qui nella versione di Dinah Washington e l'insolita Blossom Dearie

_"I didn't know what time it was" in origine da "Too many Girls" (musical del 1939), qui nella splendida versione di Sarah Vaughan,
o qui anche nella versione di Charlie Parker + strings.

_La famosissima "My funny Valentine" da "Babes in Arms" (1937) da cui divennero noti anche "Where Or When", "The Lady is a Tramp"...
qui nelle storiche versioni di Miles Davis e di Sarah Vaughan


_"Blue Moon" da "Manhattan Melodrama" (1934) qui nella versione di Tony Bennett

_"Little Girl Blue" da "Jumbo" (1935) nelle versioni, diversissime,
di Nina Simone tra pianismo classico e blues, e l'intensa versione soul-rock di Janis Joplin

_ "Spring is Here" da Nina Simone, e qui, strumentale da Bill Evans

"Glad to be unhappy" da "Lady in Satin" di Billie Holiday

"Wait 'til You see her" (1942 da Jupiter) di cui si ricorda una celestiale versione di Ella Fitzgerald (assente in toto dal web), qui presente ma remixata in una recente compilation Verve,
qui invece nella versione classica Miles Davis e Gil Evans.

Buon ascolto


JoshInserisci link

lunedì 9 gennaio 2012

La Vigna di Leonardo


Il volume, di 47 pagine, contiene la storia della Vigna posseduta a Milano da Leonardo da Vinci. L'opera integrale è consultabile al seguente link: Biblioteca Digitale Fermi. Qui cerco solo di creare un interesse per quello che - nonostante il continuo avvicendarsi di vicende belliche in quell'epoca - fu un altro grande secolo per Milano. Il ripensare a quel tempo, fatto di continui alti e bassi, servirà da incoraggiamento per il periodo purtroppo poco roseo che ci aspetta.

Quando, nel gennaio 1920 Luca Beltrami, celebre architetto milanese di quel periodo (nonchè politico e direttore del Corriere per alcuni mesi del 1896, al quale si deve, tra le tante opere di architettura, la ristrutturazione del Castello Sforzesco con ricostruzione quasi integrale della Torre del Filarete, fatta su disegni originali del XVI secolo) seppe delle intenzioni di lottizzare i terreni agricoli di Corso Magenta, si recò sul posto, munito di attrezzatura fotografica, per verificare con i propri occhi - se mai esistesse ancora - lo stato di conservazione della vigna che fu di Leonardo da Vinci, nel periodo in cui visse a Milano. Con immenso stupore la trovò ancora integra, e prima di accomiatarsi dai proprietari, chiese loro il permesso di fotografarla; tre di quelle foto, una è qui di seguito, sono pubblicate nel saggio (le altre due foto sono visibili dal sito Luca Maroni). La vigna era appena stata potata, ma da quell'anno non avrebbe più prodotto alcunchè perchè, alcuni giorni dopo quella visita, i tralci furono sradicati per dar corso alla lottizzazione del terreno. Era una vigna stretta e lunga, di complessive pertiche 15 e 3/4 (8320 metri quadri), come risulta dalle misurazioni e calcoli fatti a più riprese dallo stesso Leonardo, conservati nelle pagine del Codice Atlantico. La vigna era dislocata a metà strada tra la Fossa Interna e Porta Vercellina, proprio di fianco alla Basilica di Santa Maria delle Grazie, dalla quale distava di pochi metri, aldilà del Corso, che da strada in terreno battuto era stata pavimentata da pochi anni, dopo il 1470, per volere di Galeazzo Maria Sforza, fratello maggiore di Ludovico il Moro, il mecenate di Leonardo da Vinci.


Col senno di poi possiamo affermare senza ombra di dubbio, che chi permise lo sradicamento di quelle viti fù un imprevidente, aveva scarsa passione per la storia, e non sapeva vedere oltre il proprio naso. Quelle viti produrrebbero ancor oggi ottima uva da vino dei tipi Pignolo e Nebbiolo. Provate allora ad immaginate cosa sarebbe stato per Milano avere a ridosso del suo monumento più universalmente conosciuto, il Duomo, un vigneto creato oltre mezzo millennio fa da uno dei massimi geni dell'Umanità. Nei mesi estivi, Leonardo, tra una pausa e l'altra del suo Cenacolo, andava sicuramente a rinfrancarsi sotto il pergolato che vediamo nella foto; nel frattempo, possiamo benissimo supporre pensasse alle modalità con cui portare a termine l'opera, visto che gli si presentarono diverse difficoltà ed è altrettanto facile immaginare meditasse anche su alcune di quelle che furono le sue numerose invenzioni. Le intuizioni a cui si dedicava non avevano ancora nulla di supporto, perchè c'era ancora quasi tutto da inventare. Pensate quindi alle elaborazioni scientifiche che avvennero sotto quel pergolato. Se, quindi, esistesse ancora, non sarebbe forse degno di essere annoverato nel patrimonio mondiale dell'Umanità? Pensando, invece, alla questione in termini strettamente venali, immaginate quanto renderebbe molto di più al Comune di Milano quella vigna, che non l'ICI che ora incassa dai proprietari delle case costruite là dove un tempo c'era la Vigna di Leonardo!


Nata a due passi dal Duomo di Milano, al tempo degli Sforza, la Vigna era giunta intatta e fruttifera fin quasi ai nostri giorni di 92 anni fa; e questo è stato uno dei pregi che l'avevano resa unica e irripetibile. Altra unicità e irripetibilità è che sorgeva a due passi dal monumento più rappresentativo della città in cui si trovava: nel nostro caso il Duomo di Milano.
Il fatto che era nata oltre 500 anni fa, a due passi dal Duomo, e che sia stata proprietà di uno dei più grandi geni dell'Umanità, avrebbe dato una unicità a Milano. In quale altra grande città del mondo potremmo infatti trovare qualcosa del genere? Da notare, poi, che, nel momento in cui la vigna fu estirpata, era ancora perfettamente sana.
Per concludere, Leonardo lasciò poi metà di quella vigna in eredità al suo fido garzone e servitore Gian Giacomo Caprotti da Oreno di Vimercate, già ricordato nel post precedente.

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Ed ora, una ghiotta curiosità per gli amanti di libri e di...panettoni. Nel 2002 in corso Magenta 65 ha aperto la Libreria degli Atellani. I proprietari, certamente appassionati di storia, han voluto aprire lì il loro negozio, perchè quella, nel Quattrocento, era stata la casa di Giacomotto della Tela, scudiero di Ludovico il Moro, dove dimorò Leonardo da Vinci mentre lavorava alla realizzazione dell'Ultima Cena. Ad una famiglia degli Atellani di Corso Magenta è poi legata la storia/leggenda dell'invenzione del Pan de Toni, ovvero il Panettone. Qui, nella versione di Hesperia, un'altra storia legata a quell'invenzione. Versione che però conduce anch'essa a Ludovico il Moro.

Foto in basso: Corso Magenta all'altezza di Santa Maria delle Grazie - da Google Maps  (si noti la pavimentazione della strada: ancora quella dei tempi di Leonardo da Vinci).