venerdì 25 maggio 2012

AKIRA KUROSAWA, UN MAESTRO DEL NOVECENTO





 Adesso che il Novecento è alle nostre spalle già da qualche anno e cominciamo a guardare ad esso con distacco, possiamo individuare con una certa sicurezza i grandi maestri che questo secolo travagliato ci ha lasciato, pur foriero com’è stato di ideologie criminali e di germi di follia autodistruttiva delle cui scorie non riusciamo ancora a liberarci; perché, indubbiamente, anche in questo secolo feroce sono comparse le grandi personalità capaci di assumere il ruolo di figure guida, creando opere durature nelle varie discipline in cui si esercita il genio dell’uomo, dalla filosofia al diritto, dalla politica all’arte. Per questo li chiamiamo maestri (anzi, buoni maestri per distinguerli dai cattivi maestri, dei quali il secolo scorso ha sfornato una quantità ingente), perché la loro opera costituisce un sicuro riferimento di ricerca del vero, del giusto e del bello per chi viene dopo di essi. Nel dominio delle arti, in questo caso del cinema, un posto di rilievo spetta senza dubbio ad Akira Kurosava, un giapponese, certo, un uomo apparentemente molto lontano dalla nostra mentalità e dalla nostra cultura, ma un cineasta che, oltre a produrre una serie di capolavori cinematografici, è stato anche capace  di compiere, nella sua opera, il miracolo di fondere temi e linguaggi occidentali con quelli orientali, configurandosi quindi come uno straordinario artista universale. Il linguaggio cinematografico nasce dalla sintesi o dalla fusione delle altre arti, in particolare della letteratura e della pittura. Kurosawa trova la propria ispirazione da fonti letterarie che vanno dal teatro No ai grandi testi dell’antica letteratura giapponese, ma anche da autori come Shakespeare, Tolstoj, Dostoevskij e Pirandello. Nelle arti figurative è influenzato certamente da pittori giapponesi come Hiroshige, ma anche da artisti come Van Gogh per la drammatica carica visionaria dei quadri del pittore olandese ch’egli sa trasferire in tante sue sequenze, e soprattutto dal nostro Paolo Uccello, a cui non smette di guardare per comporre le sue straordinarie scene di guerra, dove riesce a far muovere grandi masse di comparse secondo disegni precisi che mirano, pur nella concitazione degli eventi, a raggiungere un effetto d’armonia che richiama immediatamente l’equilibrio compositivo del grande pittore  italiano. Poi vi sono gli influssi più diretti ricevuti da altri autori cinematografici: dal giapponese Satsuo Yamamoto, suo mentore e maestro nel muovere i primi passi come cineasta, ma anche dall’americano John Ford, il primo in Occidente a capire la genialità del giovane regista giapponese e a trasmettergli il gusto di passare, nelle scene di battaglia, dall’affresco corale al dettaglio di taluni duellanti, un accorgimento che nasce con l’epica di Omero e che si trasfonde in Tolstoj, non a caso un autore, quest’ultimo, a cui guardarono con molta attenzione i registi che si cimentarono nelle grandi scene di battaglia, il capostipite dei quali si può individuare senz’altro in Sergej Ejzenstejn (basti pensare a film come Alexander NevskijIvan il Terribile).



Come tutti i grandi artisti, Kurosawa è un testimone puntuale dei drammi e della violenza che ha caratterizzato il secolo in cui è vissuto. Il suo cinema descrive la fine di un’epoca e dei suoi valori comunitari e del vuoto esistenziale che si accompagna all’avvento di un mondo nuovo, più cosmopolita e assai più spietato. Non a caso tra le sue fonti citiamo Pirandello, l’autore di Uno nessuno e centomila e cantore della relatività e dell’indeterminatezza dell’esistenza nel secolo che è dietro le nostre spalle. Rashomon, storia d’una donna strappata da un bandito al legittimo consorte, rappresenta il dramma del relativismo che sfocia nella negazione nichilistica del valore della verità, dove i vari testimoni che raccontano ciascuno a suo modo la vicenda non fanno altro che deformare i fatti per proprio tornaconto, svelando così un egoismo esasperato che preferisce la menzogna all’affermazione della giustizia. Così in Kagemusha, la controfigura che viene sostituita dai dignitari all’imperatore defunto per evitare lacerazioni e conflitti al clan della dinastia regnante, rigidamente legata al senso dell’onore e al rispetto delle tradizioni, finisce per identificarsi nell’uomo di cui ha assunto la parte e di scegliere di morire come sarebbe morto l’imperatore allorché, scoperta da tutti la sua finzione e cacciato in malo modo dai dignitari che l’avevano scelto, il clan di cui ormai ritiene di far parte viene assalito e distrutto da un clan rivale che ha già scelto la modernità e che muove in battaglia dotandosi di armi da fuoco, mentre il clan tradizionalista si affida ancora all’arma bianca. Memorabile, in questo film, la carica suicida dell’esercito armato di sole lance e spade e il carnaio di uomini e cavalli giacente al suolo sul quale corre il Kagemusha per  essere immolato a sua volta dalla fucileria che ha falciato il suo esercito. Da tutti i film di Kurosawa si ricava una lezione amara e crudele: che il mondo è sordido e dominato dal male e che, come dice un personaggio di Ran, uno dei suoi film più importanti: “Gli uomini sono pazzi, preferiscono la sofferenza alla gioia”. La filmografia del regista giapponese è molto ricca. Mi limito a citare solo i titoli più noti: L’angelo ubriaco, I sette samurai, Trono di sangue, I bassifondi, Dersu Uzala, Rapsodia d’agosto e, soprattutto, il già citato Ran, un film meraviglioso, questo, uno di quei capolavori assoluti che ti fanno capire come il cinema possa essere un veicolo straordinario di grandi emozioni, angoscia,  orrore, pietà, di quel pathos potente e coinvolgente, insomma, che ti inchioda davanti allo schermo e ti lascia una profonda impressione che non dimenticherai più.


Ran in giapponese richiama i termini occidentali di “caos”, “disordine”, "sconvolgimento” e si riferisce ad un mondo senza più leggi né pietà: quello delle guerre feudali giapponesi del XVI secolo in cui si svolge la vicenda del film, ma soprattutto è un’immagine cupa e terribile del mondo contemporaneo. La vicenda è modellata sul Re Lear di Shakespeare ed è la storia di un signore della guerra che ha trascorso la vita a sottomettere i clan rivali e che, all’età di settant’anni, decide di abbandonare il potere e di dividere terre e castelli tra i tre figli. E’ la tragedia testamentaria della decadenza fisica, del distacco dal potere e dalle cose del mondo, ma anche il terribile bilancio esistenziale di un uomo e di un genitore che ha dedicato la vita alla violenza e al sopruso offrendo ai figli quell’unico modello di ferocia che essi si affretteranno a ripercorrere scagliandosi l’uno contro l’altro e contro lo stesso genitore non appena vengono affrancati dalla sua tutela. C’è un unico figlio, il più giovane, capace ancora di nutrire un certo affetto per il padre, ma lo nasconde sotto un’ironia mordace contro la decisione paterna quando gli manifesta la sua contrarietà alla divisione del regno con l’esempio delle tre frecce disunite che si possono spezzare con  facilità. Ma il vecchio scambia la sua franchezza per avversione contro di lui e lo bandisce dal regno. Solo quando i due fratelli si sono divorati tra loro e hanno costretto il padre a vagare ramingo e ormai privo di ragione con la sola compagnia del suo buffone, il giovane, alleatosi con un altro signore di cui ha sposato la figlia, torna per rimettere ordine nel caos provocato dai fratelli, ma nel corso della battaglia finale, mentre ritrova e riabbraccia il vecchio genitore (ormai consapevole che solo questo figlio lo ha amato), muore colpito da un proiettile vagante, e il dolore del  padre è così violento da averne il cuore stroncato. Il messaggio di questo film così cupo è però molto chiaro: la guerra in cui alla fine tutti muoiono e tutto si distrugge è solo frutto della sete smodata di potere che sconfina nell’insensatezza.



Dionisio

giovedì 17 maggio 2012

I luoghi del genio

Il lungo viale dei cipressi a Bolgheri
Quante volte abbiamo attraversato luoghi che ci sono cari, luoghi dove sembra albergare un qualche spiritello benefico che ci fa sentire gioiosi e ritemprati. Una sorta di risarcimento dalle fatiche quotidiane. I luoghi sono spicchi sottili del nostro tempo ritrovato, capaci di ricomporre la nostra esistenza. In letteratura non è raro che siano proprio i luoghi a dare il titolo ad una poesia, ad una raccolta di opere o ad un romanzo. Impossibile, ad esempio non pensare a Procida per "L'isola d'Arturo" della Morante. La nostra è letteratura  che affonda le sue radici nelle più varie provincie, potremmo perfino aggiungere una letteratura "provinciale" , detta nel senso alto del termine. Impossibile non pensare a Pavese o a Fenoglio senza collocarli nelle Langhe, o a Parise senza il Veneto o il panico, morboso e lacustre Fogazzaro dei laghi lombardi. Per non citare   Verga, Pirandello, Sciascia e Brancati senza collegarli direttamente alla Sicilia.
Ma voglio soffermarmi  sul vezzo "poetico" di dedicare proprio ai luoghi amati una poesia. Penso che a ciascuno di noi sarà capitato di essere curiosi di visitare un posto nominato da qualche famoso poeta o scrittore. Ricordo la mia voglia di recarmi a Bolgheri e a S. Guido, fin dalla lontana scuola elementare ("I cipressi che a Bolgheri alti e schietti, van da S. Guido in duplice filar/ quasi in corsa giganti giovinetti mi balzarono incontro e mi guardar) dopo la carducciana poesia. Mi pareva una crudeltà, avermi obbligato a mandarla tutta a memoria, dato che  era assai lunga; ma posso dire che oggi in fondo sono grata ai severi educatori di un tempo. Intanto perché esercitare la memoria non è in sé, cosa disprezzabile; poi perché transitare per Bolgheri e Castagneto Carducci (località indimenticabili dove torno sempre volentieri) senza conoscere la poesia mi sembrerebbe di fare solo la turista senza potermi  immergere nello spirito del luogo.
E poiché siamo in un periodo dell'anno dove trionfa la luce e i vari cromatismi della natura,  periodo particolarmente propizio per passeggiate, gite, incontri, visite ed escursioni vorrei qui creare un piccolo "parco letterario ideale", per qualche suggestivo itinerario, non convenzionale e non banale.

L'attuale ingresso de Il Meleto di Aglié
Per cominciare Aglié,  luogo del buen retiro di Guido Gozzano, uno dei nostri nobili provinciali della poesia e la sua dimora avita Il Meleto. Ho sempre amato Gozzano, la sua grazia e levità di dandy un po' fané, la sua ironia e il suo culto di "rigattiere" di lusso per "le buone cose di pessimo gusto" tutto il suo bric à brac del quotidiano E quando mi sono ritrovata davanti al cancello della sua dimora, non ho potuto fare a meno di ricordare il piccolino che dalle anse di ferro battuto scopre che cos'è una coquotte. E cioè "una cattiva signorina" alla quale non bisognava parlare.
La casa "Il Meleto" di Aglié con la madre di Gozzano e le amiche
"Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto...

"Piccolino, che fai solo soletto?"
"Sto giocando al Diluvio Universale"
Accennai gli strumenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d'un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia.


Altre sue ville del Canavese citate nelle sue opere sono Villa Amarena che si ritrova in La signorina Felicita o della felicità
(Vill’Amarena! Dolce la tua casa
20in quella grande pace settembrina!)
Eugenio Montale, il laconico e asciutto poeta del "mal di vivere" è sempre in cerca della luce. E non è affatto un caso che a Monterosso al mare abbia stabilito la sua residenza. Chi scende nella stazioncina di Monterosso, ornata di oleandri rosa, non può non sentire immediato, il caldo abbraccio di una luce trionfante col mare che respira e scintilla proprio lì sotto ai trenini. Così chiusa e serrata tra monti, cielo e mare aperto, il poeta è lì che ebbe a  curare le sue inquietudini ed ubbìe. Il giallo e l'azzurro sono i suoi colori d'elezione. Il giallo dei limoni (cupole di fogliame da cui sprizza una polifonia di limoni e di arance...), il giallo dei girasoli....
La casa di Montale a Monterosso


Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire...

E questo impazzimento di luci e di colori lo si ritrova in altre poesie, quasi in un modulo contrappuntistico con ombre e pallidi "meriggi" di cui è pure cantore. A ovest del paese, c'è la sua dimora avita tra palmizi secolari, ricordata soltanto da un umile targa di coccio con la scritta.
La casa delle mie estati lontane
ti era accanto, lo sai,

là nel paese dove cuoce il sole
e annuvolano l'aria le zanzare

Il litorale di Monterosso
Chi, appena fuori dalla stazione e sulla passeggiata a mare, volesse salire al Convento dei Cappuccini (la costruzione chiara visibile in alto sul promontorio) che fu costruito tra il 1619 e il 1622 con la vicina cappelletta di S.Francesco ove tra le opere pittoriche vi è la tela di una crocifissione attribuita al celebre pittore fiammingo Antoon Van Dyck, troverà con sorpresa i versetti delle sue poesie incastonati su targhe di marmo sul muretto a secco che accompagna la salita ad un luogo magico, carico di spirtualità, calma e bellezza.
Passiamo ad un altro poeta di cui quest'anno ricorre il centenario della morte che nessuno delle nostre troglodite autorità politiche istituzionLI celebrerà per "mancanza di denaro" (quello che trafugano dalle nostre tasche per finire chissà dove): Giovanni Pascoli. La Garfagnana è una terra scoscesa. disuguale, non ha l'opulenza e la ricchezza della Maremma coi suoi campi dorati e le sue pievi attorniate da verdi e svettanti cipressi. Eppure ha un suo fascino selvaggio, attraversata com'è dal fiume Serchio. Prima di recarvi a Castelvecchio, dove c'è la casa colonica di Pascoli che è ormai museo, località che ha dato il nome alla famosa raccolta poetica di Canti di Castelvecchio vale la pena di visitare (o rivisitare) Barga, un affascinante borgo della Lucchesia spalancato sulla vallata del Serchio. Il Duomo , edificio religioso più importante di Barga, è stato costruita in tempi diversi. La primitiva costruzione risale a prima dell'anno 1000 d. C. Negli ampliamenti successivi si evidenziano elementi architettonici e decorativi di suggestiva bellezza che vanno dal romanico al gotico. L'ora di Barga scocca con un suono solenne, quasi metafisico che echeggia per la vallata :
Al mio cantuccio, donde non sento
se non le reste brusir del grano,
il suon dell'ore viene col vento
dal non veduto borgo montano:
suono che uguale, che blando cade,
come una voce che persuade.
Tu dici, E` l'ora; tu dici, E` tardi
,
Terrazza della casa Pascoli
Lo studio del Poeta romagnolo
A Castelvecchio dove si scorge la Casa Museo Pascoli, costruita alla metà del '700 dalla famiglia Cardosi Carrara come villa di campagna, divenne abitazione di Giovanni Pascoli dal 1895 al 1912. L'edificio conserva la struttura, gli arredi, la disposizione degli spazi che aveva al momento della morte del poeta. Anche l'orologio è fermo nell'ora della sua dipartita. Nello studio al primo piano sono conservati i suoi libri, al piano terreno i suoi manoscritti, le sue molteplici note.
Annessa alla villa sorge la cappella dove Pascoli è sepolto. Nel giardino, di struttura settecentesca, si trovano diversi alberi: cipressi, messi a dimora dallo stesso poeta, oltre a tassi, glicini, gelsomini, alberi da frutto e vitigni. Qui nel giardino della Casa Pascoli, è stato sepolto pure il cagnolino amorevolmente accudito dal poeta e dalla sorella Mariù.

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari...




Il percorso dei luoghi d'elezione di poeti, letterati ed artisti, può continuare ad libitum e io qui in questo spazio, mi sono limitata a fornire solo quattro esempi, da me visitati.

Da ultimo, una domanda che sorge spontanea. Sono stati i luoghi a ispirare i poeti o sono i poeti che scelgono  i luoghi più adatti al loro spirito? Forse c'è una terza opzione: sono  i luoghi che  li catturano e  che in fondo li scelgono.  E se fosse che questi artisti sono stati i prescelti dal genius loci, entità naturale e sopranaturale che sceglie chi si abbandona alla sua bellezza? Come dire che i luoghi sono già un destino.
Parchi letterari  d'Italia da consultare:
http://www.turismo.it/viaggi/un-libro-di-biografie-che-possono-essere-visitate/ a cura di Stanislao Nievo, grande ideatore e  promotore di parchi letterari.


mercoledì 9 maggio 2012

Andrew Wyeth, pittore del silenzio




Andrew Wyeth, morto nel 2009 all'età di 91 anni, artista vissuto durante gli anni in cui in America infuriava l’espressionismo astratto e la pop art, è stato snobbato per molto tempo dalla critica ufficiale come un eccentrico e solitario pittore retrò, afflitto da un sentimentale attaccamento al mondo rurale della Pennsylvania e del Maine, regioni dove ha trascorso gran parte della sua esistenza, riproducendone con meticoloso realismo i paesaggi, le case, gli interni e i suoi abitanti, gli uomini e le donne che incontrava e che gli  ispirarono una galleria di ritratti notevoli per la resa psicologica dei soggetti accanto ad un rispetto umano che non veniva mai meno, accompagnandosi talvolta a un pizzico d’affettuoso umorismo, altre volte a una scabra pietà. E’ stato bollato come un esponente del gusto americano più popolare e nostalgico, ma in realtà i suoi dipinti non sono mai documenti d’una tendenza arcadica o elegiaca, bensì rappresentazioni d’un ambiente e d’una esistenza asciutte e severe, in cui si annida un silenzio profondo, un silenzio che è nell’aria, nella vita solitaria d’ogni giorno e che avvolge ogni cosa d’un senso di separatezza più stoica che dolente. Nei suoi quadri l’atmosfera è austera, essenziale, ma è veramente magistrale la sua capacità di restituire, tra i campi vuoti le colline brulle e  le case isolate, la solitudine delle figure, quasi schiacciate dall’asprezza dell’ambiente.




 I suoi nudi femminili, quelli ch’egli dedicò solo a Helga Testorf, sua modella e probabile amante per oltre quindici anni, denotano più un piacere estetico nell’accarezzare con lo sguardo la bellezza del corpo ritratto con grande accuratezza e precisione che un coinvolgimento romantico o erotico; cosa che ha indotto taluni critici a paragonare quei nudi al suo modo di ritrarre il paesaggio, con la stessa severa asciuttezza, mentre è probabile si debba interpretare il suo pudore come una specie di blocco causato dal timore di svelare l’attrazione provata verso la donna che ritraeva all’insaputa della legittima consorte, e che tuttavia non impedì a quest’ultima, quando i dipinti vennero alla luce, di pensare a una relazione intima tra il pittore e la modella, anche se Wyeth non l’ammise mai.


 
Benché la critica d’avanguardia abbia considerato ostinatamente Wyeth un pittore non all’altezza dei tempi, tacciando il suo lavoro di regionalismo passatista,  il pubblico americano non ha mancato di apprezzarlo. I suoi quadri venivano acquistati da molti collezionisti e nel 1955 ricevette un dottorato honoris causa ad Harvard per i suoi meriti artistici. Nel 1963, poi, comparve la sua foto nella copertina della rivista Time, dopo che l’allora presidente degli USA, Lyndon Johnson, gli aveva conferito la più alta onorificenza civile americana, la Medal of Freedom. Nel 1970 il Presidente Nixon lo invitò addirittura a esporre alcuni suoi dipinti alla Casa Bianca, parlando di lui come “dell’uomo che ha catturato il cuore dell’America”. Al di là di questi riconoscimenti ufficiali, possiamo comunque affermare che Andrew Wyeth è stato un eccellente pittore, da inserire nella tradizione realista di altri artisti come Edward Hopper o Winslow Homer, ma dimostrando a mio avviso, rispetto a questi colleghi, una maggiore forza emotiva, apparentemente più contenuta, ma forse proprio per questo più sottile, più insinuante e coinvolgente.


Dionisio



giovedì 3 maggio 2012

Biblioteca Vaticana e Bodleiana: preziosi testi presto online


Un blog culturale non può non porre attenzione a una notizia anche troppo negletta dell'ultimo periodo, che può essere fondamentale per studiosi, specialisti, religiosi e uomini di cultura in genere.
Apprendiamo dalla Stampa, di preciso QUI,
del progetto, dal costo di due milioni e mezzo di euro, della durata presunta di 4 anni, di digitalizzazione di manoscritti di pregio.


(Sifra)

In seguito ad un lascito (circa 2 milioni di sterline) della Fondazione Polonsky, la Biblioteca Apostolica Vaticana (prima foto, in alto) e la Biblioteca Bodleiana dell'Università di Oxford (sotto) avvieranno un progetto di digitalizzazione di manoscritti rari, incunaboli medievali (le quattrocentine, tra i primi libri stampati), testi sacri e non, compresa la digitalizzazione di manoscritti ebraici, greci e latini.  Una mole di materiale preziosissimo...che non si ha sottomano certo tutti i giorni, presto sarà disponibile alla libera consultazione online di tutti.


 (Bodleian Library, Oxford)

Si tratta di un milione e mezzo di pagine, che verranno rese disponibili su internet a tutti.
Due terzi del materiale proviene dalla Biblioteca Vaticana (2500 libri), il restante da Oxford.
La Biblioteca Vaticana possiede 8900 incunaboli, ne verranno digitalizzati 800, tra cui
"De Europa" di Pio II Piccolomini, stampato da Albrecht Kunne a Memmingen prima del 1491, e
la famosa Bibbia latina delle 42 linee (così detta per via di esser stampata in caratteri gotici, divisi in 2 colonne di 42 righe, per pagina) di Johann Gutenberg (Johannes Gensfleisch), primo libro andato a stampa con caratteri mobili tra 1454 e 1455.


(immagine dalla Bibbia di Gutenberg)

La Collezione Bodleiana di Oxford è la quinta al mondo per ampiezza, e tra le maggiori collezioni universitarie. Da quest'ultima saranno selezionati principalmente incunaboli italiani del 1400 da loro posseduti in quantità. Dai manoscritti greci verranno digitalizzati Omero, Sofocle, Platone, Ippocrate, i codici del Nuovo Testamento, i Padri della Chiesa. Ovvero le opere fondamentali della nostra cultura. Oltre al pregio testuale, alla testimonianza storica, e alla logica della diffusione dei testi di valore formativo, i testi ..saranno uno spettacolo, perchè riccamente decorati con miniature.

(pagina miniata dall'Iliade, XV secolo, cod. Vaticano Greco 1626)

La Collezione Vaticana non è la maggiore al mondo per ampiezza, ma comunque vastissima, e di valore pressochè inestimabile. Presenti anche manoscritti ebraici datati tra il nono e il quindicesimo secolo. Presente anche il più antico codice ebraico esistente, il Sifra, tra la fine del nono e l'inizio del decimo secolo a.C. (più in alto), poi una copia integrale della Bibbia, commentari, testi vari, comprese scienze, medicina.
Non è comunque nuova all'esperienza digitalizzazione la Biblioteca Vaticana, dal momento che è in atto da un po' di tempo a questa parte la messa a punto della versione web dei manoscritti Palatini latini in collaborazione con l'Università di Heidelberg.

Josh

P.s.: in attesa che il ciclopico lavoro sia online, approfitto per segnalare portali e siti per la lettura e la documentazione, di testi completi di pregio disponibili e biblioteche complete (leggibili e spesso scaricabili gratuitamente):

Bibbia ebraico e greco
Bibbia varie traduzioni italiane  (con concordanza e chiave biblica)
Intratext testi vari, canonici, deuterocanonici e apocrifi
Denzinger online
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Aggiornamento:
primo link attivo della digitalizzazione testi della Bodleiana, già consultabile:

http://bav.bodleian.ox.ac.uk/