domenica 5 agosto 2012

Perdere la lingua materna grazie all'Inglese




L'identità di una nazione (parola che deriva dal verbo nascere)  e di un popolo, scaturisce per l'appunto dalla sua Lingua, che non a caso si dice materna, in quanto è quella che riceviamo dalla nascita e che cresce, si sviluppa, si espande e si arricchisce con noi. Poi da altre componenti che possono essere sintetizzate nelle categorie manzoniane: d'arme di lingua, d'altare,  di sangue, e di suolo. Tutte componenti che creano unità e coesione nazionale.  La lingua materna o lingua madre, ha pure una forte valenza socio-affettiva. Un esule dalla sua Patria può adattarsi al diverso cibo, alle diverse usanze e tradizioni,  al cambiamento climatico ecc. ma non alla perdita  totale della propria lingua. Molte sono le testimonianze di illustri esuli in proposito. 
 Sempre più atenei universitari invece cercano di "differenziarsi" includendo insegnamenti e corsi in lingua inglese considerata la lingua veicolare nel mondo. Per disgrazia, simili progetti non appartengono solo alle università che verranno assoggettate al "rating" (valutazione)  come si fa con gli stati per farli fallire prima.   Ovvio, che avranno  più alte valutazioni quelle che si adegueranno a questo progetto. Ma si stanno discutendo pure progetti didattici per gli insegnamenti   dei curricula disciplinari veicolati  direttamente in Lingua Inglese, fin  nei licei. Questa si chiama "vietnamizzazione" dell'Italia. Insorge (e con giusta ragione) Claudio Magris con un articolo comparso sul Corriere  della Sera del tutto condivisibile, dal titolo "L'università in Inglese pericolo per l'Italiano".


Alberto Sordi redivivo smette di fare l'attore e diventa rettore universitario, sottosegretario o ministro dell'Istruzione o qualcosa del genere, sempre comunque nell'ambito dell'insegnamento superiore e della cultura. Del suo glorioso passato di attore conserva soltanto una parte, quella memorabile del romano de Roma che, nel film di Steno Un americano a Roma , cerca - ma invano - di sostituire spaghetti e vini dei Castelli con hamburger e Coca-Cola.
L'idea di fare, nell'università italiana, dell'inglese la lingua unica e obbligatoria dell'insegnamento è una gag come quella scenetta di Sordi e ignora il monito della canzone di Carosone «Ma si nato in Italy».
È uno dei tanti episodi che dimostrano la tendenza odierna - vittoriosa in quasi tutti i campi - a stravolgere involontariamente problemi reali nella loro parodia. Che la conoscenza - una vera, reale conoscenza - della lingua inglese sia indispensabile per dedicarsi a qualsiasi tipo di studi e anche a quasi ogni lavoro è una realtà indiscutibile, chiara a tutti e non solo a quel nostro ex presidente del Consiglio che esortava a coltivare le tre I, Inglese Impresa Internet, dimenticandone peraltro una quarta, Italia. La scarsa conoscenza delle lingue straniere, soprattutto, ma non solo, della lingua parlata, è un antico e ancora non superato deficit della cultura italiana (molti anni fa Wolf Giusti mi raccontava come Benedetto Croce, che non aveva difficoltà a leggere e a tradurre Hegel o Goethe, se la cavasse piuttosto male se doveva ordinarsi un caffè). Questo grave deficit va assolutamente sanato ed è paradossale che misure ministeriali abbiano agito in senso contrario, come quando, durante il precedente governo italiano, furono aboliti i lettori di lingua straniera, indispensabili e insostituibili, per gli studenti, nell'apprendimento delle rispettive lingue.
Una lezione di Information Technology in università (Corbis)
È dunque necessario che scuole e università creino strutture atte a insegnare realmente le lingue straniere e in particolare ovviamente l'inglese, investendo in tale iniziativa buona parte delle loro energie e dei loro fondi, anziché considerare l'insegnamento e la conoscenza delle lingue straniere, com'è accaduto quasi sempre nelle facoltà umanistiche, materia di terza classe. È necessario richiedere, per il conseguimento di qualsiasi titolo e per il raggiungimento di qualsiasi traguardo scolastico o accademico, una reale conoscenza della lingua inglese.

Tutto ciò non implica affatto la necessità e l'opportunità di tenere le lezioni e i seminari - a parte i casi particolari di convegni e dibattiti con studiosi stranieri - in inglese anziché in italiano. Imporre l'uso dell'inglese nelle lezioni e nei corsi universitari indebolisce questi ultimi, perché in ogni campo - non solo in quello letterario - la lingua madre implica una creatività, una ricchezza di pensiero e di espressione, fondamentali in ogni percorso intellettuale e, prima ancora, nella vita stessa. Di questo passo, secondo la logica aberrante di tale bella pensata, si potrebbe abolire la letteratura italiana e imporre a tutti gli scrittori italiani di scrivere le loro poesie e i loro romanzi in inglese. L'insegnamento - tanto più quanto è più importante e significativo - s'inserisce nel tutto della vita, individuale e sociale. L'uso obbligatorio dell'inglese potrebbe dunque, secondo quella logica peregrina, venire esteso a tutte le espressioni fondamentali dell'esistenza, ai dibattiti parlamentari e ai comizi politici come alle effusioni verbali dell'intimità amorosa, che diventerebbe tanto più degna ed eroticamente stuzzicante se esternata nella lingua dei (momentanei) padroni del mondo. Fare l'amore in inglese, credetemi, è tutt'altra cosa; me l'ha detto un mio conoscente che lavora al consorzio agrario e che ha fatto uno stage in America.
La proposta di rendere obbligatorio l'insegnamento universitario in inglese rivela una mentalità servile, un complesso di servi che considerano degno di stima solo lo stile dei padroni, simile a quella smania di «sbiancamento» (blanchissement) che grandi scrittori neri quali Glissant e Fanon hanno denunciato in molti discendenti di schiavi nei loro Paesi, le Antille francesi. Tale complesso contraddice lo spirito più profondo della cultura inglese, l'amore di libertà e di originalità, e dimentica che, come scriveva sul «Corriere» Saverio Vertone, in Inghilterra vivono gli inglesi, non gli anglofili.
Si deve certo imparare l'inglese, questa lingua straordinaria che, come è stato detto, è divenuta pure la «lingua dei senza patria», dei tanti esuli che gli sradicamenti della Storia hanno sparso nel mondo. Ma il suo primato non dovrebbe indurre a una succube soggezione. Non vorremmo che domani, ove fossero eventualmente mutati i rapporti di forza nel mondo, i docenti di Cantù o di Caserta fossero obbligati a tenere lezione in cinese, altra grande lingua di straordinaria ricchezza e poesia.
Claudio Magris
25 luglio 2012  fonte: Corriere della sera

Sullo stesso tema: Il Somario parla Inglese ma dimentica l'Italiano

Hesperia