domenica 27 ottobre 2013

Estinti, sepolcri e memorie






"Ah Signora mia, che brutta ruota la morte!", mi ha detto un fioraio di Le Grazie, piccola borgata marinara del levante ligure,  nota per aver dato i natali al poeta Giovanni Giudici e per avere una villa romana dove era eretto un tempio dedicato alle tre Grazie. Nel mentre,  mi confezionava i due vasi di ciclamini rosa che avevo acquistato per mettere sulle tombe dei miei genitori. Ho guardato l'anziano fioraio con spesse borse sotto gli occhi e senza bisogno di fargli domande mi disse che era appena morto suo fratello, ma che non aveva una tomba su cui piangere e portargli un fiore. Gli chiesi se  il fratello fosse andato disperso e mi rispose di no, che aveva preferito la cremazione.
Già, la cremazione, che viene spinta e reclamizzata dai comuni d'Italia e a cui anche la chiesa si è adattata. Un giorno mi soffermai a leggere un manifesto pubblicitario  pro-cremazione messo da holdings e franchising di detto servizio,  dove appariva a caratteri cubitali lo slogan "La purezza del ricordo".
"Mia cognata", continuò il fioraio, "mi dice di andare su al promontorio del Pezzino a lanciare un mazzo di fiori in mare dove sono disperse le sue ceneri, ma io queste scemenze non le faccio. Avrei preferito una tomba su cui piangere. Io voglio essere interrato qua,  nella mia terra, dove i miei mi possono vedere e mettere un cero o un fiore".
Il fioraio mi aveva dato una lezione di vita: la purezza del ricordo esiste se c'è qualcosa  di tangibile da ricordare. Tant'è vero che i congiunti degli estinti cremati tengono una loro fotografia accanto all'urna. E cioè un ricordo concreto. I fiori che fluttuano nell'acqua marina o le ceneri in un'urna, non possono essere una consolazione per chi resta e creano uno sostanziale  spartiacque fra il nomade senza fissa dimora che si rassegna alla corrente della vita  e lo stanziale  che organizza il suo mondo consolidando le sue certezze, nella vita come nella morte che ne è il suo naturale epilogo.
Non ci sono più spazi nei nostri cimiteri (sia di piccoli centri che di grandi città) ed è questa la vera ragione che sospinge ad adottare la cremazione, pratica già in uso in alcune civiltà pagane prevalentemente nomadi.  Curiosamente, però i cimiteri delle coste in cui sbarcano gli stranieri clandestini, sono pieni di tombe vere, magari senza nome o con nomi fittizi. In questi giorni il ministro dell'Interno, a proposito dei morti di Lampedusa ha parlato di "degna sepoltura". Perché non di "degna cremazione"? E perché i forni crematori sono invece consigliati agli autoctoni? Sarebbe interessante saperlo...

La storia della nostra civiltà trae origini dall'arte funeraria. Il culto dei morti si perde nella notte dei tempi e posso solo fare riferimenti episodici di una materia che richiederebbe molto più tempo e spazio di questo post. In Egitto  oltre all'architettura funebre regale, si diffonde anche un'architettura funebre privata con la realizzazione di tombe, da semplici mastabe a riproduzioni in miniatura delle piramide reali, per i nobili, i dignitari, i funzionari di corte, gli artigiani più agiati e le loro famiglie. La vita oltre la morte, inizialmente prerogativa della sola famiglia reale, viene assicurata a chiunque abbia abbastanza denaro per erigersi una tomba, per poterla decorare con dipinti e rilievi indicanti le istruzioni per raggiungere il mondo dei morti e per poter imbalsamare il proprio corpo.

Le dimensioni di questi grandiosi monumenti funerari, costruiti per conservare per l'eternità i corpi dei faraoni morti, ci continuano a trasmettere un senso di eternità e immutabilità.
Anche l'arte etrusca è un'arte prevalentemente funeraria. Gli ambienti sepolcrali  tutt'oggi visitabili a Tarquinia e a Cerveteri non erano gli unici luoghi affrescati in Etruria, ma sono quelli meglio conservati. Dalle prime esperienze del VII secolo a.C. ci fu l'uso di dipingere le pareti delle tombe con scene legate agli ideali della vita aristocratica, ai cicli dell'agricoltura, ai riti funerari e alla vita ultraterrena.

Dalle attestazioni epigrafiche rinvenute sul territorio di Roma, di notevole importanza e valore ai fini della ricerca, è certa l'esistenza dell'istituto sociale della sepoltura presente nel diritto romano. Mantenendosi alquanto inalterato lungo i periodi della storia romana, esso aveva sancito le due possibilita': inumazione e cremazione. Su questo punto non mancano esplicite dichiarazioni provenienti da diverse fonti e dall'ambiente in cui il rito dell'inumazione o della cremazione trovava applicazione, si colgono profonde differenziazioni religiose ed ideologiche. Non si puo' separare la concezione romana dell'al di la' da quella greca, che esprimeva nelle diverse consuetudini e riti il culto dei morti, destinato ad onorare la memoria di coloro che ci hanno preceduti sulla terra....
I Greci riservarono al  dialogo con i defunti il memorabile canto XI dell'Odissea di Omero. Dopo essersi fermato un anno da Circe, Ulisse - su indicazione della stessa maga - si accinge a una nuova prova, la catabasi, cioè la discesa di una persona viva nell’Ade, regno dei morti, un grande motivo topico della letteratura.
Là riesce a entrare in contatto con le figure dei compagni perduti durante la guerra di Troia, con la madre e con l'indovino Tiresia, che gli presagirà un ritorno luttuoso e difficile, invitandolo a guardarsi dal toccare le vacche del Sole iperionide. Tra i miti greci riservati al mondo degli Inferi spicca quello di Orfeo ed Euridice, laddove la musica della lira di Orfeo riesce a placare l'ira di Cerbero (il cane a tre teste)  e delle fiere  e a varcare il Regno dei Morti da vivo. Detto mito, fu ripreso poi da Ovidio. Non si può fare a meno di citare anche il mito di Sisifo che appena deceduto,  riesce a ingannare gli dèi con mille astuzie e a ritornare sulla Terra, poiché troppo innamorato della Vita, per rassegnarsi al regno delle Ombre. Gli dei infuriati per tanta sfrontatezza, lo condannarono a sospingere un pesante masso che rotolava giù per il Tartaro e che poi a fine fatica gli ritornava per essere ancora sospinto. Questa inutile fatica venne  poi chiamata "la fatica di Sisifo".

All'Oltretomba l'amico Josh ha già dedicato un post esaustivo dal titolo  Aldilà Nekyia Inferno.
Nekyia, dal greco νέκυια, (da νέκυς, arc. di νεκρός «morto») era presso i Greci antichi il rito (necromatico appunto) con cui si evocavano i morti a scopo divinatorio.
Non starò a sintetizzare la concezione dantesca dell'aldilà, già analiticamente enucleata in detto post a proposito della Divina Commedia,  nella cantica dell'Inferno nella quale Dante raccoglie in parte l'eredità di Virgilio nel libro VI dell'Eneide e dello stesso  Omero in "Odissea", alla luce della cristianità medievale. Saltando parecchi secoli dopo, arriviamo ai Sepolcri di Ugo Foscolo, un carme  che trasse ispirazione dall'estensione all'Italia, avvenuta il 5 settembre del 1806, dell'editto napoleonico di Saint-Cloud (1804). Napoleone aveva imposto di seppellire i morti al di fuori delle mura cittadine  per motivi di igiene, e aveva inoltre regolamentato, per ragioni democratiche, che le lapidi dovessero essere tutte della stessa grandezza e le iscrizioni controllate da una commissione apposita. L'editto napoleonico offre al poeta l'occasione per svolgere una densa meditazione filosofica sulla morte e sul significato dell'agire umano. I Sepolcri si richiamano alla letteratura sepolcrale inglese in auge in quel periodo e in quello successivo, tra cui si ricordano le Notti di Edward Young, le Meditazioni sulle tombe di James Hervey e la celebre Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray.

Foscolo, benché figlio dei Lumi e seguace di Napoleone,  si sofferma sul significato e la funzione che la tomba viene ad assumere per i vivi impostando il carme come una celebrazione di quei valori e di quegli ideali che possono dare un significato alla vita umana, stabilendo tra i vivi e i morti, una sorta di trascendente corrispondenza.
L'argomento come anticipato è vastissimo e ogni Paese ha la sua letteratura e arte sepolcrale. Si pensi alla  più moderna e fortunata "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters.  Si tratta di una raccolta di poesie che questo poeta americano pubblicò tra il 1914 e il 1915 sul Mirror di St. Louis. Ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita di una delle persone sepolte nel cimitero di un piccolo paesino immaginario della provincia americana. Ecco un esempio:


FRANCIS TURNER (Un malato di cuore)

Non potevo correre o giocare
da ragazzo.
Da uomo potevo solo sorseggiare dalla coppa,
non bere -
perchè la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Ora giaccio qui
confortato da un segreto che nessuno tranne Mary conosce:
c'è un giardino di acacie,
di catalpe, e di pergole dolci di viti -
là quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary -
baciandola con l'anima sulle labbra
all'improvviso questa prese il volo


Il pittoresco cimitero di Sète (nella foto) , in Languedoc, ha ispirato al poeta simbolista Paul Valéry la sua lunga ode dal titolo"Il cimitero marino". (Quel tetto quieto, corso da colombe/In mezzo ai pini palpita, alle tombe/Mezzodì il giusto in fuochi vi ricrea/II mare, il mare, sempre rinnovato!)

 In  Liguria e in Provenza è consuetudine inumare i morti in cimiteri fuori borgo su spianate o colline prospicienti il mare. Qui i defunti sprofondati nel regno delle Ombre, godono per paradosso, la luce del sole che nasce e  che muore al crepuscolo, incendiando l'orizzonte. Sono esposti ai venti e al fragore delle onde.  Un'antica leggenda marinara narra che le ossa dei defunti lambite dai flutti, si trasformano poi in conchiglie e stelle marine che il mare accoglie nel suo grembo e incessantemente rigenera. E questo ciclo rassicurante delle metamorfosi mi fa optare senz'altro per l'inumazione. Anche perché la cremazione è figlia di quell'iconoclastia furiosa dei nostri catastrofici tempi. Termino con questa poesia di Cardarelli che è posta come epigrafe davanti al piccolo cimitero di Manarola, una delle 5 Terre, che consiglio vivamente di visitare. Da lassù, si spalanca un panorama mozzafiato. Ma non è l'unico. Anche a Porto Venere (foto in alto al centro del post), Lord Byron rimase sedotto dal suo singolare cimitero a picco sulla rupe della Grotta chiamata in seguito, Grotta Byron, poiché da qui il Poeta partì a nuoto per la sua memorabile traversata del Golfo, fino a Lerici , situato sulla riviera opposta :

O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai venti e all'onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore 


Vincenzo Cardarelli



Uno scorcio del cimitero di Manarola



Hesperia

venerdì 18 ottobre 2013

Verdi


Numerose iniziative sono state e sono in corso per il bicentenario verdiano, e non sarà con un semplice e breve post che si potrà esaurire un argomento così vasto.
(sopra, Riccardo Muti su Verdi)

Alcuni punti possono essere comunque ricordati. Giuseppe Verdi (1813-1901) è senz'altro figura di punta dell'Ottocento italiano e non solo per la lunga durata della sua vita.
Ebbe profondi legami con la società del suo tempo. 
Se molti artisti, proprio in quell'epoca, manifestavano non appartenenza, disagio quando non disprezzo nel confronto del pubblico e del mondo borghese, Verdi mostrò sempre simpatia, nel senso letterale del "patire e sentire insieme", quindi condivisione per idee e valori della società che lo circondava.

 

Uno dei simboli di questa convergenza risiede in quella sorta di identificazione di massa nei contenuti drammatici delle sue opere (a partire dal Nabucco che gli diede successo nel 1842) che richiamava, per esempio, le tensioni risorgimentali. 
Nel Nabucco si parte dalla narrazione biblica per giungere a un dramma corale, con una trasposizione simbolica tra la prigionia degli ebrei ai tempi di Babilonia e la servitù dell'epoca (e mica solo di quell'epoca) degli italiani.

Fa specie ricordare proprio oggi, anche tramite l'opera citata, la servitù dell'Italia allo straniero d'allora, quando in evo contemporaneo, tramite il fallimentare progetto dell'Europa dei Mercati, nata dopo la Seconda Guerra Mondiale e vari Trattati (Maastricht, Lisbona, senza consultare i popoli), abbiamo consegnato confini, moneta (oggi euro-marco tedesco) e qualunque tipo di sovranità nuovamente agli stranieri.  
Per quale indipendenza s'è combattutto allora?

Lo stesso sentimento di contrasto, come nel ripensare Verdi oggi,
rinasce dinanzi alle da poco concluse celebrazioni per il 150° dell'Unità. 
Gli stessi 150 anni d'Italia unita, mai così esteriormente pompati e ideologizzati tra fanfare, quanto più se ne andava la nostra autonomia, anche in politica interna o nella libertà d'opinione, dovevano essere anche festeggiamenti per l'Indipendenza. 
Ma quale Indipendenza, di grazia? 
Siamo servi ora più di prima. Servi ricattati, per di più, ed espropriati.

Sarebbe comunque riduttivo rimpicciolire la complessità del teatro verdiano al patriottismo o alle pulsioni della società del tempo, per quanto elementi presenti. 
Verdi per un verso non partecipò direttamente alla politica del tempo, e diversamente i personaggi e le tensioni rappresentate raffigurano un universo umano molto più complesso e sfaccettato del mero patriottismo. 
Molti ideali dell'800, già tramontati in altre nazioni più disincantate e disilluse, hanno ancora uno spazio in Italia, più arretrata industrialmente, non unita; la capacità di Verdi risiede anche nel farsi interprete delle passioni e dei valori di un mondo ancora ingenuo, per certi versi, dando vita a personaggi molto sentiti, vibranti, calati in un congegno drammaturgico tragico. Questo spiega in parte il suo successo ad un certo punto, e il divenire del nostro Artista una sorta di coscienza simbolica dell'epoca.

 

Se prima di Nabucco, c'era stato Oberto Conte di San Bonifacio, poi seguono Ernani (da Victor Hugo), La Battaglia di Legnano, Attila, I Lombardi alla Prima Crociata, i temi storici sono alternati a temi amorosi e vicende familiari come I due Foscari, i Masnadieri, Luisa Miller. Le tematiche presenti ruotano intorno a potere, famiglia e amore, ingredienti del melodramma precedente, ma rinnovati da Verdi con stratagemmi originali.
I temi più incandescenti erano monitorati dalla censura, per cui il modo di rappresentare sovrani, nobiltà, borghesia, conflitti, era mediato dalla necessità. La tendenza innata di Verdi era la rappresentazione di spietati esercizi dell'autorità, ambizioni sconsiderate, ingiustizie, incarnazioni della malvagità, cui facevano da contraltare gesti di ribellione, banditi, corsari, attinti dal romanzo popolare ma anche da Byron e Hugo. Accanto a questa caratteristica tematica, più spesso fusa con essa, ci sono i conflitti familiari. 

Una delle caratteristiche verdiane in questo ambito, che lo rende originale e ottocentesco (nel '900 sarebbe impensabile, dal momento che si è distrutta ogni Paternità e Maternità) è la sottolineatura della figura del padre, e dell'amore passionale tra giovani, letto come forza rivoluzionaria che può abbattere qualunque ostacolo. La figura paterna nel teatro verdiano assume il ruolo di presiedere all'unità e moralità del nucleo familiare. Così assistiamo a padri che difendono l'onore delle figlie, o si battono contro le ribellioni dei figli, per educarli, mostragli la via e la verità, indicar loro un valore.

Verdi esigeva un certo controllo sui libretti (si veda il rapporto con Francesco Maria Piave) perchè cercava la "parola scenica" che scolpisse caratteri, declinata in una metrica a cui lui stesso avrebbe dato vita con la musica.








Oltre le citate tematiche narrative, le sue forme musicali accolgono il melodramma precedente, non lo spazzano via, ma lo rinnovano dall'interno. 
L'unità musicale non è più data, come nel teatro '700esco, da una schematica successione di recitativi e arie, eppure nulla è lasciato al caso. Lo schema formale verdiano è precostituito, anche se variato rispetto all'impianto precedente: il sintagma chiuso comprendeva un'intera azione, quindi la narrazione di un episodio, fatti esposti da recitativi iniziali, temi orchestrali, un'aria, una parte libera e un secondo pezzo del protagonista.
Dopo Ernani, Verdi adopera correlazioni tra voce e ruolo: soprano e tenore di solito erano la coppia eroica dei protagonisti amorosi, mentre basso e baritono erano funzioni antagoniste, per esempio del potere politico o familiare. Verdi in persona, come mostrano numerosi documenti e lo stesso epistolario, aveva idee molto chiare e prendeva parte in dettaglio all'allestimento, la messa in scena, la regia, la scenografia.
Il Macbeth (1847), sorta di eccezione nella drammaturgia del primo Verdi, è una tragedia di cupa ambizione incentrata sul tema del potere, senza eroismo e senza tema amoroso, per la prima volta Shakespeare, e con un testo ricco di apparizioni fantastiche.
Agli inizi degli anni 50 arriva già a Rigoletto (1851), tratto da Victor Hugo, vicenda di un deforme buffone di corte a cui il principe insidia la bella figlia: per vendicare l'affronto Rigoletto provoca accidentalmente la morte della figlia. 
L'opera era insolita all'epoca, sia per la tipologia del protagonista, sia per lo scenario notturno inedito, ma anche per la presenza nella struttura di episodi paralleli e a contrasto. I recitativi iniziano ad avere fluidità di linee melodiche tali da accostarsi alle arie. I temi sono ormai del mondo moderno: la Traviata (da Dumas) rappresenta in fondo un amore "moderno".
In quegli anni Verdi, dopo un matrimonio concluso con la morte della moglie e dei 2 figli quando era ancora uno sconosciuto maestro di provincia, conviveva con Giuseppina Strapponi che sposerà anni dopo. 
L'anticonformista Verdi non nascondeva il suo anticlericalismo, o al pieno della fama, stanco del successo e dei doveri pubblici, si rifugiava nella villa a S.Agata di Busseto, specie dal 1857 in poi.
Nel periodo parigino presentò Les Vespres Siciliennes (1865), una grand-opéra riletta secondo le proprie esigenze drammaturgiche. Anche in Simon Boccanegra (1857) fino ad Aida (1871) sono presenti aspetti della grand-opéra, ma rivisitati dalla sensibilità verdiana, per cui con trame narrative più articolate, aumento del numero dei personaggi, insiemi collettivi, episodi coreografici, scenografie sontuose, cura dei particolari nell'orchestrazione.
Dopo Un Ballo in Maschera (a Roma nel 1859) inizia a criticare l'ambiente italiano, troppo manageriale, e a suo dire poco professionale negli allestimenti, ma colpevole anche di schematismo culturale nei gusti del pubblico. 
Di qui, le opere successive non ebbero la prima in teatri italiani: La Forza del Destino (1862) a S.Pietroburgo, Don Carlos (1867) a Parigi, e Aida (1871) al Cairo. 
In queste opere si nota un'ulteriore evoluzione: i protagonisti sono più sfaccettati e sfumati, il bene e il male non si incarnano più in personaggi opposti. 
Nel Don Carlos (da Schiller) sono messe in scena le contraddizioni di Filippo II tra l'Inquisizione ecclesiastica e l'ansia di libertà delle Fiandre, tra l'affetto della regina per il figlio e la consapevolezza della ribellione.
Cambiano i metodi, le sfumature anche se la sostanza rimane l'ideale, la tensione morale e civile di Verdi, 
l'utopia irrealizzata di una società capace di assicurare giustizia in terra e dignità a tutti.

Dopo i primi decenni di attività verdiana lo sfondo su cui proietta la sua arte è ormai cambiato.
La borghesia italiana ha ormai smarrito i caratteri emergenti, eroici. Una volta giunta al governo, alla prima produzione industriale, l'indipendenza nazionale e unità politica raggiunte mostrano sì un cambio di struttura e di potere, ma i risultati non sono poi così differenti: 
rimangono indietro i valori sognati e il mondo nuovamente problematico non è l'Eden in terra che il Risorgimento e la propaganda avevano idealizzato. 
Anche in Italia, come già nei secoli precedenti altrove, si apre una distanza tra i sogni degli artisti e le scelte degli uomini di potere della nazione.  
Nasce la Scapigliatura, anche se su influsso francese, nasce il Verismo, nel tardo Ottocento si afferma anche Wagner. Arrigo Boito lamentando l'arretratezza culturale italiana a tratti provinciale nel 1863 si riferisce anche a Verdi. 
In fondo Verdi conosceva l'ambiente internazionale e aveva mostrato capacità di rinnovamento, ma è anche vero che il mondo andava evolvendosi molto velocemente e le nuove tematiche della fine Ottocento del rifiuto della società borghese, della solitudine esistenziale, del dialogo tra io e inconscio, dell'arte per l'arte e le destrutturazioni formali erano del tutto estranei dal mondo morale verdiano. 
La conferma degli ideali verdiani legati al primo Romanticismo fu ancora nel 1874 la Messa da Requiem ispirata dalla morte di Manzoni. 
Al Verdi degli ultimi anni il mondo pareva pervaso da una follia.
Tornò a Shakespeare, e compose nel 1887 l'Otello e nel 1893 il Falstaff, l'unica commedia della carriera, che videro come librettista proprio Arrigo Boito che l'aveva criticato.

(considerevole aiuto per tessere i fili della vicenda, da Storia della Musica, a cura di M. Baroni, E. Fubini, P. Petazzi, P. Santi, G.Vinay, Einaudi 1988)


Josh

mercoledì 9 ottobre 2013

Zurlini, il maggiore tra i minori




Valerio Zurlini non ha raggiunto nella storia del nostro cinema la statura del trio Fellini, Visconti, Antonioni, ma sicuramente verrà ricordato come il cantore delle atmosfere di provincia, capace di riprodurre atmosfere intimiste e risvolti psicologici di grande intensità. Zurlini ha saputo creare un ponte  fra il cinema e la letteratura che  lo rende senz'altro unico e riconoscibile. Lo si può amare (come nel caso della sottoscritta) ancora più degli altri tre grandi maestri citati, senza nulla togliere alla loro bravura. E lo si ama, in quanto è parte integrante dell'educazione sentimentale degli Italiani che lo hanno seguito. Dicevo poc'anzi della provincia italiana del Nord, in particolare dell'Emilia. Nessuno come Zurlini ha saputo descrivere Parma, Rimini, Riccione e altre piccole realtà di provincia . Parimenti dicasi dell'aspetto narrativo dei suoi film: Pratolini, Buzzati, hanno trovato in Zurlini un fedele e nel contempo creativo interprete.
Il regista  nasce a Bologna il 19 marzo 1926. La sua famiglia si trasferisce a Roma con lui ancora ragazzo, per cui si trova a frequentare il liceo presso un severo e rigido istituto di Gesuiti. Terminati gli studi liceali, Zurlini trascorre l'ultima vacanza spensierata a Riccione (se ne ricorderà poi in Estate violenta che si ambienta lì) e poi decide di arruolarsi nel Corpo Italiano di Liberazione.


Nel dopoguerra si laurea in legge e segue corsi di storia dell'arte. Dopo una prima esperienza di teatro universitario presso la Facoltà di lettere di Roma, si reca a Milano dove lavora per un anno e mezzo come aiuto regista al neonato Piccolo Teatro. Tra il 1949 e il 1952 realizza alcuni cortometraggi in cui dà prova di un notevole spirito di osservazione, iniziando a collaborare con il compositore Mario Nascimbene, autore di colonne sonore. Questi cortometraggi venivano all'epoca distribuiti in abbinamento a film in proiezione nelle sale, e tra le molte persone che vedono i suoi lavori c'è anche Pietro Germi che lo segnala alla Lux Film, una delle più importanti case di produzione cinematografica.

Dopo un anno trascorso tra la presentazione di vari copioni, tutti puntualmente respinti (ma in quest'anno Zurlini trova anche il tempo di collaborare con John Huston che è in Campania per girare Il tesoro dell'Africa), è la stessa Lux a imporgli l'adattamento da Vasco Pratolini in  Le ragazze di San Frediano, che esce nel dicembre 1954. Il film (storia di un Don Giovanni di provincia che cerca di sedurre contemporaneamente cinque ragazze, con le 5 ragazze infuriate che poi si vendicano di lui) mostra un' insolita freschezza, una schietta ironia con l'attenzione al contesto geografico di una borgata fiorentina. Efficace   la prova di tutti i giovani attori (Rossana Podestà, Giovanna Ralli, Giulia Rubini, Antonio Cifariello)  e buona, la resa figurativa.

Pur ricevendo vasti consensi sia di critica che di pubblico, passano ben cinque anni prima che esca il secondo film. Di mezzo c'è il progetto di Guendalina, un altro film fresco e giovanile (con una Jacqueline Sassard esordiente), film  che Zurlini vorrebbe portare sullo schermo, ma che il produttore Carlo Ponti affida, con sua grande delusione, ad Alberto Lattuada. La sua firma sulla sceneggiatura gli varrà comunque nel 1958 il Nastro d'argento.


Estate violenta


Zurlini passa così alla Titanus e riesce a realizzare Estate violenta (1959), storia d'amore tra uno studente universitario e un'affascinante donna matura ambientata a Riccione negli anni della seconda guerra mondiale e della caduta del Fascismo. Intensa l'interpretazione di Jean-Louis Trintignant e di Eleonora Rossi Drago.


 Segue poi La ragazza con la valigia (1961), una delle migliori interpretazioni di Claudia Cardinale nel fior fior della sua bellezza, con accanto il giovane Jacques Perrin, nel ruolo di un adolescente timido ai primi turbamenti amorosi. Questo  film (come già anche il precedente)  lo rivelano al grande pubblico come regista attento ai risvolti psicologici e all'introspezione drammatica dei personaggi, alla precisa e puntuale descrizione di microcosmi di provincia. Storia dell'amore impossibile tra Aida, una ballerina di provincia alla deriva, e Lorenzo, ragazzo di buona famiglia che si sostituisce a suo fratello maggiore Marcello (Corrado Pani), il quale aveva sedotto la bella Aida cercando poi di sbarazzarsene cinicamente. Viceversa lui,  si sente attratto dalla sconosciuta con la valigia e cerca di aiutarla, forse per voler compensare il cinismo del fratello. Il film viene girato tra Parma e Riccione.
Zurlini si conferma uno dei rari poeti dell'amore  del nostro cinema italiano: lo dimostra nella straordinaria scena di Claudia Cardinale (doppiata da Adriana Asti) in accappatoio bianco accolta dalle note verdiane di "Celeste Aida" e nella scena indimenticabile che si svolge tra Jacques Perrin e lei, sulla spiaggia adriatica. La  parte lirica del film (la 1ª parte)  è, forse, la più bella, mentre nella seconda parte,  si fa evidente la verità sociologica della narrazione da cui scaturisce l'amarezza di fondo, quella delle differenze di classe, tra lei e il giovane Lorenzo alla sua prima esperienza amorosa. Ammirevole direzione di attori e di grande suggestione, la colonna musicale: Mina, Peppino di Capri, Celentano, Nico Fidenco e Beniamino Gigli nell'esecuzione della citata romanza di Verdi.

Nel 1962 presenta alla Mostra di Venezia un film ancora una volta tratto da Pratolini,

Cronaca familiare, che vince il Leone d'oro ex aequo con L'infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij, viene descritto come uno dei film "maschili" più commoventi nella storia del cinema. Riprende molti dei fatti e dei motivi del romanzo originale di Pratolini. Mastroianni  (Enrico, nel film) offre una performance ricca  di sensibilità e ben equilibrata, quale emergente giornalista nella Roma del 1945. Riceve una telefonata che lo informa della morte del fratello Lorenzo (Jacques Perrin). Allora si ricorda dei tempi passati, del loro lungo e difficile rapporto: Enrico cresciuto dalla loro povera ma affettuosa nonna , viceversa Lorenzo tirato su come un vero gentiluomo da un ricco aristocratico del luogo, che lo affida al suo maggiordomo. Riuniti a Firenze negli anni trenta, il viziato Lorenzo viene mantenuto da Enrico, quest'ultimo sempre ossessionato da un senso di colpevole responsabilità verso un fratello più fragile,  che ama e odia simultaneamente. Una strana e progressivamente fatale malattia di Lorenzo farà emergere in Enrico tutto il suo profondo attaccamento e amore per il fratello morente.
Segue nel 1965 la regia di Le soldatesse, una storia ambientata nel 1942 nella Grecia occupata dagli Italiani. Dopo questo film, ci sarà  un periodo di crisi nell'attività di Zurlini, che per la seconda volta si vede portar via un progetto a cui teneva ( quel Il giardino dei Finzi-Contini, tratto dal romanzo di Bassani, che verrà poi realizzato da Vittorio De Sica).

Nello stesso periodo, Zurlini ha l'opportunità di tornare al teatro per dirigere tre lavori, e di girare per la televisione alcune serie di filmati pubblicitari andati in onda in Carosello: tra questi ricordiamo quelli girati con Mina per la Barilla in due serie (1965 e 1970). Ma  la tv non poteva  di certo  saturare la sua vena espressiva.

Nel 1972 Zurlini torna al drammatico con La prima notte di quiete, interpretato da Alain Delon, Lea Massari e Giancarlo Giannini. La sceneggiatura risaliva a otto anni prima e faceva parte di un'ambiziosa trilogia mai realizzata, in cui si intrecciava il destino di una famiglia all'interno delle vicende dell'Italia coloniale. Film amaro e controverso, La prima notte di quiete all'inizio contestato dalla critica, viene invece molto apprezzato dal pubblico. Si rivela il maggior successo del regista e uno dei film più visti dell'anno. Il film è stato restaurato nel 2000 dalla Philip Morris. E a tuttoggi Alain Delon, nel ruolo di un professore del Liceo (nella versione francese si intitola, per l'appunto Le Professeur) dall'aria trasandata e débauchée con barba e cappotto cammello, dichiara nelle sue interviste che è stata una delle sue  interpretazioni rimastagli nel cuore. Delon, del resto,  fu finanziatore del film. 
Ritratto di Daniele Dominici, professore di letteratura, angelo caduto e insabbiato dal passato misterioroso e senza radici, che arriva al
capolinea della sua vita in una Rimini invernale, è in sintesi, la storia di un naufragio esistenziale. Daniele s'innamora di Vanina (nome stendhaliano, interpretato dall'attrice Sonia Petrova), sua allieva, ragazza dissoluta  pervasa di un'insondabile enigmatica malinconia. C'è un eroe "maledetto", c'è un  ostile ambiente di provincia (una suggestiva Rimini d'inverno), c'è un'atmosfera rarefatta  e melanconica, ci sono i personaggi di contorno (tra cui spicca un ottimo G. Giannini), c'è un'ottima scrittura nella descrizione dell'ignobile verminaio provinciale cui si contrappongono le sortite verso i cieli di uno spiritualismo cristiano. La prima notte di quiete è una frase di Goethe per indicare  la morte, "perché finalmente si dorme senza sogni".

L'ultimo suo lavoro, la trasposizione cinematografica de Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, risale al 1976. Molti registi avevano progettato di portare sullo schermo il romanzo di Buzzati, tra cui Antonioni e Jancsó. Zurlini riesce a realizzare il progetto grazie alla pervicacia di Jacques Perrin,  ormai diventato suo attore-feticcio (già tenero e sensibile interprete nella Ragazza con la valigia e in Cronaca familiare) protagonista del film nel ruolo del tenente Drogo, e suo principale finanziatore-produttore. Entrambi scoprono in Iran di una fortezza che si adattava perfettamente all'idea che il regista aveva in mente per ambientare la storia (la fortezza Bastiani).
La trama. Il tenente Giovan Battista Drogo, di fresca nomina, viene assegnato alla fortezza Bastiani, un avamposto ai confini dell'impero che si trova dinanzi al deserto anticamente abitato dai Tartari. Giunto a destinazione Drogo avverte come ogni militare, dal soldato ai più alti gradi, sia in attesa dell'arrivo del nemico proprio  da quella direzione e quanto la vita dell'intera guarnigione dipenda da quell'attesa. Drogo cerca di farsi trasferire ma l'atmosfera che regna nella fortezza finisce con l'affascinarlo e a impedirgli di andarsene.
Il romanzo omonimo di Dino Buzzati (edito nel 1940) aveva attratto da subito più di uno sceneggiatore e regista ma tutti avevano finito con l'arrendersi dinanzi alla difficoltà di ambientazione storica. Perché lo scrittore situa la vicenda in una dimensione atemporale e la stessa Fortezza Bastiani può essere considerata un luogo non identificabile (Buzzati si spinse a dire che avrebbe potuto anche essere la redazione del Corriere della sera per cui scriveva). Ecco allora che l'idea viene accantonata fino al 1963 quando il libro esce in Francia in edizione tascabile. Sarà  dunque Perrin a rilanciare l'idea con ostinazione. La collocazione storica viene fissata alla fine dell'Ottocento con una forte connotazione di eleganza e rigidità austro-ungarica che la famiglia Buzzati aveva ben conosciuto. Oltre al bravissimo Perrin è da segnalare un inconsueto grande ruolo  per Giuliano Gemma, appena deceduto, nella parte del duro e spietato

maggiore Matis (in alto nella foto) . Indimenticabile Laurent Terzieff nel ruolo dell' umbratile aristocratico Pietro von Hamerling, che muore nella spedizione in montagna sulla neve, poiché messo a dura prova dalle vessazioni del crudele maggiore. Ma indimenticabili davvero tutti: da Gassman a Max von Sidow, a J.L Trintignant, a Noiret, a Fernando Rey, un vero cast d'eccezione.


 A conclusione di questo itinerario su un regista, detto "maggiore tra i minori",  qualche doverosa nota su questo nostro Paese nato fascinosamente variegato e diversificato, dove fino a non molto tempo fa ogni regione aveva i suoi letterati, i suoi poeti e artisti, i suoi dialetti, i suoi cibi, i suoi usi e costumi,  i suoi cineasti, e  oggi  mestamente uniformato e omologato a diktat globalisti. Si sente la mancanza di un Brusati che ci parla di Milano, di Risi che ci parla della Lombardia, di Zurlini che ci parla dell'Emilia-Romagna...di Bolognini (anche lui come Zurlini, egregio traspositore di testi letterari nel cinema) di altri  bravi "minori"  come Comencini e Florestano Vancini, dello stesso Pietro Germi, regista geniale, grande anticipatore della "commedia all'italiana",   tenuto in disparte a causa di idee politiche non gradite allo star system italiano, ma anche  a causa del suo carattere notoriamente burbero e scontroso; dello spirito anarco-corrosivo di Marco Ferreri, regista sui generis. Insomma si sente la mancanza di quella varietà di talenti che hanno fatto grande il nostro cinema e  con esso, il nostro Paese. In particolare oggi che il cinema italiano è diventato sempre più  irrilevante e mediocre.



Hesperia

lunedì 7 ottobre 2013

Anniversario della Battaglia di Lepanto




La Battaglia di Lepanto si tenne il 7 Ottobre 1571.
Fu una tappa della Guerra di Cipro (1570-1573), e vide schierate le flotte musulmane dell'Impero Ottomano contro le flotte cristiane della Lega Santa, composta da navi della Repubblica di Venezia, dell'Impero Spagnolo con il Regno di Napoli e Sicilia, dello Stato Pontificio, 
della Repubblica di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Granducato di Toscana e del Ducato d'Urbino federate sotto le insegne pontificie.
(in realtà quella che si commemora oggi fu la terza e conclusiva, prima si tennero quella del 1499 e quella del 1500)

La battaglia di Lepanto, si concluse con una schiacciante vittoria delle nostre forze alleate, guidate da Don Giovanni d'Austria, su quelle ottomane di Müezzinzade Alì Pascià.

(sopra, nell'immagine, la Battaglia di Lepanto secondo Andries Van Eertvelt)

La coalizione cristiana era stata promossa alacremente da Papa Pio V per soccorrere materialmente la veneziana città di Famagosta sull'isola di Cipro, assediata dai turchi, che era veneziana dal 1480. Oltre a questo, c'era in gioco il predominio sul Mediterraneo, da quando l'Impero Ottomano aveva aumentato espansione, potere e influenza a discapito di tutti gli altri, con rischio di egemonia economica e islamizzazione.


(Paolo Veronese, Battaglia di Lepanto)

per approfondimenti (cfr. bibliografia riportata): http://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Lepanto

anche qui: http://www.arsbellica.it/pagine/moderna/Lepanto/Lepanto.html

La questione degli stendardi:

Lo stendardo, benedetto dal Papa, fu consegnato solennemente dal cardinale di Granvelle a Don Giovanni d'Austria, nella basilica di Santa Chiara a Napoli il 14 agosto 1571. Tra i preziosi reperti simbolici della battaglia, oltre la «Cruz de Lepanto» c’'era anche lo «Stendardo di Lepanto», trofeo e simbolo di quella vittoria decisiva per le sorti dell’'intero Occidente. 


(sopra, Stendardo di Lepanto, al Museo Diocesano di Gaeta, di Girolamo Siciolante da Sermoneta )

Si dice che Paolo VI, nell'irenismo del Vaticano II, lo abbia restituito ai turchi,  dimenticando il sacrificio degli ottomila eroi della Lega Santa che morirono per la salvezza del Cristianesimo.

Ma quello che Papa Paolo VI restituì ai turchi non era il glorioso stendardo di Lepanto, ma l’'inglorioso vessillo che Mehmet Alì Pascià issò sulla sua ammiraglia, la Sultana. 
Un drappo di pesante seta verde sul quale 28 mila e 900 costantinopolitane avevano ricamato, a filo d’oro zecchino, 28 mila e 900 volte il nome di allah. 

Furono i veneziani ad arrembare la Sultana (Alì Pascià, già ferito da un'’archibugiata, si tolse allora la vita), impossessandosi del vessillo che dopo la vittoria Sebastiano Venier trascinò, assicurato alla poppa della sua Capitana di Venezia, nelle acque del bacino di San Marco per successivamente farne omaggio a Pio V. 

La storia dello Stendardo di Lepanto - otto metri di damasco rosso, con bordatura d’'oro e al centro l’'immagine del Redentore crocifisso e la scritta "In hoc signo vinces" - è invece questa: dopo averlo benedetto in San Pietro, il Papa Pio V l'’affidò a Marcantonio Colonna che a sua volta a Messina, l’'avrebbe consegnata a don Giovanni d'Austria perché fosse issato al pennone della Real, l’'ammiraglia delle ammiraglie. 

Giunta la flotta nelle acque di Lepanto, presa posizione e recitata la preghiera del marinaio (questa la versione veneta d'allora: «Salve, Regina, rosa de spina, rosa d’'amor, Madre del Signor. Fa che mi no mora e che no mora pecador, che no peca mortalmente e che no mora malamente»), avvenne che tutte le insegne delle 209 galee furono ammainate, lasciando al vento solo lo stendardo di Pio V. 

Prima di dirigerle alla volta di Messina, Marcantonio Colonna radunò le sue galee a Gaeta, nel cui Duomo il «Prefetto e Capitano Generale» pontificio fece voto a Sant’'Erasmo (patrono dei marinai) di fargli omaggio del sacro stendardo ove fosse tornato vincitore dalla missione. Mantenne, ovviamente, la parola e dopo averla fatta sfilare per le vie di Roma, Colonna portò la bandiera papale a Gaeta, deponendola sull’'altare maggiore, ai piedi del Santo. 
Conservata dapprima in un bauletto, nel Settecento fu distesa e incorniciata, così da poter essere esposto al pubblico. Nel ’'43 una bomba tedesca la danneggiò, anche se non irreparabilmente: restaurato nel dopoguerra, oggi lo Stendardo di Lepanto è conservato - e visibile al pubblico - nel museo diocesano della cittadina laziale.




Il 7 Ottobre si ricorda anche la Beata Vergine del Rosario.  
San Pio V ricondusse lo storico evento della vittoria di Lepanto alla preghiera che la cattolicità in pericolo aveva indirizzato alla Vergine nel Rosario.
In quello stesso giorno infatti San Pio V mentre era intento a recitare il rosario ebbe una visione, in cui i cristiani avevano vinto sui turchi, e qualche giorno dopo un messo di Don Giovanni d'Austria gli confermò la notizia.
In ricordo di ciò il papa rifinì l'Ave Maria nella forma in cui la recitiamo oggi, stabilì che ogni chiesa suonasse le campane al mattino, a mezzogiorno e alla sera per ricordare la vittoria dei cristiani sui musulmani,
aggiunse le Litanie Lauretane alla recita del Rosario, vi aggiunse l'appellativo "Auxilium Christianorum" e stabilì inoltre che il 7 ottobre diventasse un giorno festivo consacrato a Santa Maria delle Vittorie sull'Islam.
Papa Gregorio XIII poi trasferì la festa alla prima domenica del mese di ottobre intitolandola alla Madonna del Rosario.

Josh

martedì 1 ottobre 2013

Un frammento di V. Putin e ...uno di G.K. Chesterton


Un post che si limita ad accostare per incorniciarli, non acriticamente, alcuni stralci d'idee pronunciati in epoche differenti e da figure diverse, ma dal cui incontro concettuale possono scaturire elementi d'interesse data la situazione odierna.

Nella discussione inerente al precedente post, ho allegato (con un certo clamore, pare) a un certo punto una parte del recente discorso di Putin, dove parlavamo di degenerazione etico-sociale.

Gravemente bistrattato dai nostri media mainstream pilotati, filoNWO, acriticamente filoUSA e mai neutrali, ridicolizzato dal finto femminismo mondialista tette al vento delle Femen,
Putin si è invece saggiamente espresso nel lungo Discorso il 19 settembre al Valdai International Discussion, di cui il seguente è un estratto breve:

«Altra grave sfida all’identità della Russia è legata ad eventi che hanno luogo nel mondo. Sono aspetti insieme di politica estera, e morali. 
Possiamo vedere come i Paesi euro-atlantici stanno ripudiando le loro radici, persino le radici cristiane che costituiscono la base della civiltà occidentale. Essi rinnegano i principi morali e tutte le identità tradizionali: nazionali, culturali, religiose e financo sessuali. Stanno applicando direttive che parificano le famiglie a convivenze di partners dello stesso sesso, la fede in Dio con la credenza in Satana.

La “political correctness” ha raggiunto tali eccessi, che ci sono persone che discutono seriamente di registrare partiti politici che promuovono la pedofilia. In molti Paesi europei la gente ha ritegno o ha paura di manifestare la sua religione. Le festività sono abolite o chiamate con altri nomi; la loro essenza (religiosa) viene nascosta, così come il loro fondamento morale. Sono convinto che questo apra una strada diretta verso il degrado e il regresso, che sbocca in una profondissima crisi demografica e morale.
E cos’altro se non la perdita della capacità di auto-riprodursi testimonia più drammaticamente della crisi morale di una società umana? Oggi la massima parte delle nazioni sviluppate non sono più capaci di perpetuarsi, nemmeno con l’aiuto delle immigrazioni. Senza i valori incorporati nel Cristianesimo e nelle altre religioni storiche, senza gli standard di moralità che hanno preso forma dai millenni, le persone perderanno inevitabilmente la loro dignità umana. Ebbene: noi riteniamo naturale e giusto difendere questi valori. Si devono rispettare i diritti di ogni minoranza di essere differente, ma i diritti della maggioranza non vanno posti in questione.

Simultaneamente, vediamo sforzi di far rivivere in qualche modo un modello standardizzato di mondo unipolare e offuscare le istituzioni di diritto internazionale e di sovranità nazionale. Questo mondo unipolare e standardizzato non richiede Stati sovrani; richiede vassalli. Ciò equivale sul piano storico al rinnegamento della propria identità, della diversità del mondo voluta da Dio»
...


Il pezzo condivisibile fa scalpore oggi,
abituati come siamo a certe strane circonvolute, obbligatoriamente circospette e ruffianissime dichiarazioni anestetizzate.

Avremmo voluto un nostro governante che osasse affermare questi concetti dinanzi alla "comunità internazionale".
Avremmo voluto anche un Pontefice
o sacerdoti che dicessero ora con fermezza queste cose, ma che pure le credessero in prima persona ancora.
Ma non l'hanno fatto, ingabbiati come sono in logiche e schiavitù "altre", ideologiche e non solo. Anzi oggi credere queste cose è ormai uno psicoreato.

Molti dei punti affermati dal Presidente sono (o sono stati fino a qualche tempo fa) valori assoluti.

Parte della stessa Chiesa Cattolica in fondo non li crede più, tanto che oggi si proclama (forzando l'incolpevole Giustino) un po' di sacro contenuto comunque in qualsiasi idea e qualsiasi religione o superstizione anche dopo Cristo,
e si predica la giustizia secondo coscienza propria, atteggiamento soggettivista e relativista che sgombra il campo da ogni Assoluto e da ogni Verità Rivelata anche in campo etico.

Una Chiesa Cattolica in cui Carità non è più Amore a Dio prima di tutto, e di conseguenza Amore all'uomo,
ma antropocentrismo orizzontale a volte contaminato da contenuto marxista-mondialista-massonico sposato ad un umanitarismo di stampo illuminista, in cui la Verità può essere sacrificata alla relazione e al "secondo me".

Gesù non sarebbe morto e risorto per redimerci,
ma per convincerci a una forma vaga di volemose bbene.
Non esisterebbero più Bene e Male nella prospettiva cristiana, sacra, biblica, Tradizionale, Cattolica,  
ma "ciascuno di noi ha una sua visione di bene e di male, e noi dobbiamo incitarlo a ciò che a ciascuno sembra sia il suo bene" (parole di Bergoglio).
Anche la pastorale, l'annuncio, il "proselitismo" ora sarebbero sciocchezze (in conflitto con S. Matteo 28, 18-20;  S. Marco 16, 15-16; S.Luca 24, 46-48;  Atti 15,3-10)

Si è piombati in una contrapposizione tra la concezione del Signore Logos - Verità e quindi della Verità - Logos (Assoluto), come nei Vangeli,
e una concezione della Verità come relazione (e quindi relativa a ogni soggetto che percepisce), come appare dall'intervista a Scalfari.

Gesù "si sarebbe incarnato per infondere nell’anima degli uomini il sentimento della fratellanza.  
Tutti fratelli e tutti figli di Dio."  (!)
Tutto lì?
(in conflitto con Vangelo S.Giovanni 1, 10-13, sulla nostra figliolanza divina per adozione
"A quanti però l'hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome".... aperto a tutti, ma non accolto da tutti;

e cfr Vangelo S.Giovanni 3, 16-19)

E la Redenzione? Libertà dal peccato e dalla morte, in vista della Vita Eterna, conquistataci da Gesù Cristo?
Farà parte di quella Tradizione già bollata frettolosamente come Ideologia (centinaia di Padri della Chiesa, Santi e Martiri, quasi 2000 anni liquidati), mentre non sarebbe ideologia il postmarxismo post Vaticano II e vaghi surrogati.


Con questo non si pretende di idolatrare nessuno, nemmeno il Presidente russo.
Putin ebbe un passato comunista, fu al vertice del KGB, ha saputo mantenere il potere facendosi rieleggere come sindaco di Mosca, è un tattico, ha un suo interesse geopolitico a mostrarsi come leader differente dal mondo cui si oppone.
Il fatto più incredibile è che abbia scelto di proclamare passaggi condivisibili, che però sono ormai impronunciabili sia dai nostri uomini di stato (o quel che ne è rimasto, dopo la "cura") sia dai nostri sacerdoti.

I paesi (n)euroatlantici sono in dismissione e in autodismissione. La finanza internazionale e le massonerie con i loro piani globalisti (col loro progetto di mondo unipolare standardizzato che tanto abbiamo criticato anche su questo blog) si stanno dando un gran daffare, aiutati da Cavalli di Troia interni, servi che ci trasformano in altri servi.

_da una decina d'anni in UK non si usa più l'espressione A.D. (inteso come dopo Cristo), ma C.E. (common era):  l'era di Gesù è "comune", e il Signore non può nemmeno essere nominato per non 'offendere' nessuno, anche citando un fatto storico comunemente accettato;
_A Berlino,  zona Kreuzberg quest'anno non verranno esposti simboli natalizi per non offendere gli appartenenti ad altre religioni.
_In Francia si afferma che il calendario contempla un numero eccessivo di festivita' cristiane, e che bisognerebbe sostituirne almeno un paio con festività ebraiche e musulmane e di vari altri culti a cui credere tutti.
Si va verso l'indistinta unica "religione" mondialista che tutto assomma.
Incredibilmente l'apertura a questa tendenza nasce già dalle più ardite interpretazioni del Decreto Nostra Aetate, o nelle teorie di Karl Rahner, Raymon Panikkar e altri ...modernisti o post-tali, di cui a quanto pare oggi si tiene conto più che della Chiesa dall'anno 0 al 1962.

Mons. Dubost, vescovo di Evry-Corbeil-Essonnes e Presidente del Consiglio per le Relazioni Interreligiose della Conferenza Episcopale Francese, si oppone alla soppressione di feste cattoliche,
ma domanda l'introduzione di congedi per lo Yom Kippur e l`Aïr perchè "portano alle nostre società delle cose molto importanti come, con l’Aïd, il richiamo al sacrificio di Abramo mentre il Kippur è una festa penitenziale" e ritiene che sul piano dell`insegnamento è interessante che la società francese ascolti quei richiami fondamentali" anche per i non credenti o i credenti in altre fedi.  (1)
E' come il "Buon Ramadan e auguri di grossi frutti spirituali dal Ramadan" sentiti a Lampedusa.
Gesù Cristo Salvatore, Redentore (e alla fine Giudice!), RE per la Chiesa d'un tempo era sopra ogni cosa, Via, Verità, Vita,
oggi voce tra altre voci rischia di ritrovarsi in parità con lo Yom Kippur, certo festa ebraica, ma già per S.Paolo solo "ombra dei beni futuri", non ancora il bene raggiunto.

Naturalmente se questa cura e sollecitudine verso feste altrui proviene dalla comunità d'altre fedi è logico e scontato, ma se viene da Vescovi e Papi, anche per irenismo, la si capisce già meno.

Questo avviene in paesi una volta cattolici, spesso per bocca di prelati, o anche di più.

Queste cose però NON avvengono nei paesi a maggioranza Ortodossa, ma anzi le chiese locali si distinguono per una ferma conservazione delle proprie tradizioni e dei propri valori:  
il Depositum Fidei non è aggiornabile dal momento che per la fede cristiana si tratta di verità Rivelate.
L'attuale Papa/Vescovo di Roma afferma che "il Vaticano II è stato un tentativo di leggere il Vangelo alla luce della cultura moderna",
ma i credenti, al contrario, leggono la cultura moderna alla luce del Vangelo.
E' il Vangelo che giudica il presente e la vita, e anche la modernità e noi stessi, e non il contrario,
per colui che crede.

Il motivo della tenuta delle chiese ortodosse è che là (pur in compresenza di più tendenze interpretative e di ancora insanato urto con Roma) non è stato dato spazio a cosiddetti "aggiornamento" e " rinnovamento" come invece qui col Vaticano II e sue interpretazioni in questi decenni (in realtà introduzione di teorie spurie, paramassoniche, forzature filosofiche e paramarxiste, demitizzazione, tratti eretizzanti e sincretistici), invece noi abbiamo vissuto fondamentalmente un rinnegamento dei Dogmi della Tradizione dei 1960 anni precedenti.
Ermeneutica di continuità con la Tradizione a voce, si diceva,
ma ermeneutica di rottura de facto come che la Chiesa Cattolica sia stata fondata nel 1968 (o nel 1958-62), tranne sparute eccezioni.

In passato vi erano molti messaggi da apparizioni e profezie da Sante (senza citarle tutte...), oltre al mistero di Fatima, che parlavano di conversione e consacrazione della Russia in evo moderno-contemporaneo. In molti pensavano alla Russia tornata sotto il segno del Cattolicesimo. Per ora si vede invece una grande parte della Russia credente ma appartenente con fierezza alla rinata Chiesa Ortodossa della tradizione.


Se la Russia si convertisse ora al Cattolicesimo postconciliare, a che cosa si convertirà mai?
Senza un cambiamento sostanziale nella Chiesa Cattolica conciliare, la conversione della Russia significherebbe la sua conversione alle fumose dottrine conciliari, che sarebbe la morte della sua propria conversione.   (2)

L'Ungheria di Orban ha recentemente proclamato una Costituzione Nazionale Tradizionale, anti dogma europeista-monetarista e qualunquista, e a base cristiana, e aveva voluto affidarne l'insegnamento alla Chiesa Cattolica, che ...seguendo le dottrine conciliari ha ovviamente rifiutato (!),
e il governo s'è trovato costretto ad affidare le scuole ai ....luterani.

Quindi oggi a che si convertirebbe la Russia, se si convertisse alla Chiesa Cattolica...quindi alle dottrine postconciliari?
Beh....probabilmente le profezie quando parlavano di conversione di quella parte del mondo, parlavano del ritorno russo alla fede cristiana in genere, dopo il periodo del terrore della strage e dei divieti da parte del Soviet,
ma non si riferivano probabilmente ad un rientro russo nella Chiesa Cattolica dato che quest'ultima vive una seconda o terza stagione modernista, pronta a negare quotidianamente le sue stessa fondamenta.



(Jean-Féry Rebel - "Le Cahos"- Les Élémens - simphonie nouvelle
Christopher Hogwood
The Academy of Ancient Music)

Tornando nella nostra fetta di mondo, nella nostra Tradizione la fede cattolica di sempre (di prima) pur derivando da una fede ferma in Dio Vero Assoluto e suoi decreti, doveva e poteva essere cooptata anche dalla nostra ragione.

Oggi affermare che l’inizio di una vita umana è una vita umana all'inizio,
o osare dire che l’essere umano è maschio oppure femmina,
o che l'unione del maschio e della femmina genera figli,
e ne discende una famiglia con diritto sociale riconosciuto,
o che la famiglia è la cellula della società,
sono dei principi di ragione, non ancora di fede.

Ma oggi affermare queste banalità sotto gli occhi di tutti,
che continuano dal principio del mondo fino adesso,
si rischia la galera o almeno il pubblico ludibrio.

Guardando alla situazione in cui ci troviamo,
la feroce ironia di Chesterton (che però nel 1905 aveva già sentito ..."l'aroma modernista" condannato infatti nel 1903 ma ripresentatosi sotto mentite spoglie nel Vaticano II e nella Nouvelle Théologie) è profetica rispetto alla situazione attuale:

«La grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato.

Tutto diventerà un credo. Sarà una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle.

E’ una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli.

Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate.

Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto.

Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.

S’avvicina il tempo – e per alcuni è già venuto – in cui una vita normale, una vita da onest’uomo, richiederà sforzi da eroe.
Quale supremo dono della vita attraverso la morte è quest’obbligo di essere eroi soltanto per esistere, per restare fedeli a una banale linea di vita, che i nostri antenati seguivano così naturalmente come respiravano!»

(G. K. Chesterton, Eretici, 1905)

Josh


(1) Alcuni passaggi da Chiesa e PostConcilio
(2) Chiave di lettura dell'amico Gederson