Spesso le sculture conservano ancora la pittura della pelle, dei capelli e delle vesti stesa nei colori naturali in modo da aumentare l’illusione della vita, giacché tutte queste statue di re, di alti funzionari, di generali e di scribi, ma anche di semplici ancorché abbienti cittadini, avevano uno scopo non già ornamentale ma pratico, eminentemente utilitario: quello di conservare il corpo del defunto riproducendolo sontuosamente in effigie (oltre che, come si sa, mummificandone i resti mortali) per permettergli di continuare a vivere nell’aldilà. Non bisogna dimenticare quest’aspetto quando si considera la scultura dell’antico Egitto, cioè che essa era destinata in gran parte a garantire ai suoi esponenti la vita nell’oltretomba, specie di quelli più eminenti, quali, va da sé, i faraoni, i sacri figli del Sole destinati a ritrovarsi nell’alto del cielo accanto al Padre venerando una volta concluso il proprio numinoso soggiorno sulla terra. Ciò serve intanto a comprendere la ragion d’essere di quelle altrimenti assurde montagne di pietre quali potrebbero apparirci le piramidi, tanto imponenti ma nient’altro che solidi geometrici per essere considerati autentici monumenti dello spirito, ossia opere ascrivibili all’afflato della creazione artistica. Giacché la piramide, nient’altro che una tomba, la dimora sepolcrale del faraone così convinto della propria divina grandezza da desiderarne una eretta con centinaia e centinaia di massi di granito pesanti alcuni milioni di tonnellate, doveva servire a proteggere la mummia del faraone dalla corruzione del tempo e dalla profanazione degli uomini col peso eterno della sua mole grandiosa, ma altresì a propiziarne, attraverso il proprio apice puntato verso l’alto, l’ascesa al cielo onde ricongiungerlo rapidamente alla forza del globo solare da cui era stato generato.
Se lo scultore, in relazione allo scopo a cui era destinata la statuaria umana, veniva designato, in Egitto, come “colui che mantiene in vita”, l’architetto aspirava a una funzione ancora più importante e complessa, che, associandosi a quella dello scultore, forniva anche la dimora per invogliare gli dèi a soggiornare sulla terra accanto agli uomini, favorendo quel connubio tra umanità e divinità, e tra vita di qua e vita di là, che per il popolo egizio, forse più che per altri, qualificava l’esistenza e che spiega la predilezione per le dimensioni colossali, ritenute congrue al concetto di sovrumano, nella costruzione di dimore per la vita di qua, come a Luxor, “la città dei re”, e a Karnak e a Deir-el-Bahari, con i templi simili a immensi recinti caratterizzati da mura e colonne mastodontiche atte ad accogliere esseri appunto smisurati come gli dèi o i faraoni, loro figli e rappresentanti sulla terra; o a Sakkara e a el-Giza con le tombe imponenti per la vita di là, dove il dio defunto poteva intraprendere indisturbato il suo viaggio notturno per risalire alla luce solare.
In questa contiguità con la morte, quasi un vagheggiamento degli inferi intrattenuto dagli egizi continuamente e irresistibilmente, si potrebbe esser tentati di scorgere, come del resto facevano i greci e i romani, e prima di loro gli israeliti (per i quali l’Egitto era Sceòl, il regno dei morti), una possibile causa della mancata apertura sul resto del mondo d’una civiltà che, pur nella sua complessità e raffinatezza di costumi, non smise mai di civettare con l’idea del sonno eterno, certo condizionata in questo dalla limitatezza e labilità del suo mondo, circondato e isolato com’era da un deserto letale e sottoposto agli imprevedibili umori di un fiume-dio che poteva, con la pienezza o scarsità delle sue acque, decretarne la prosperità come l’estinzione, la vita come la morte. Eppure è proprio da quella società così sensibile alla caducità delle cose del mondo da non riuscire a dilatare il proprio orizzonte oltre l’eterno ritorno delle piene del Nilo – suo Nume ma anche suo imperscrutabile tiranno, bizzoso e incostante – che prenderà il via il vitalissimo percorso della cultura classica, a cui il vecchio Egitto aveva preparato il cammino sfrondando ampiamente l’arduo sentiero della civiltà. Quando ci si trova a tu per tu con le vestigia superstiti della cultura faraonica, apparentemente tanto remote e distaccate eppure, come dicevo, così familiari alla nostra sensibilità da farci ravvisare in esse il serbatoio archetipico della nostra memoria culturale, non possiamo nutrire dubbio alcuno sul ruolo di matrice ch’essa ha rivestito per tutti noi, in particolare per quella civiltà greca su cui si forgerà la coscienza luminosa dell’Occidente. Il debito della Grecia con l’Egitto apparirà manifesto, anzi irrefutabile a chiunque abbia avuto modo di esaminare la scultura ellenica delle origini, in particolare certe figure di kouros conservate in diversi musei greci, per il criterio strutturale della composizione rigorosamente geometrico e per la rigida frontalità della visuale; così come risulterà incontestabile la derivazione degli edifici greci da quelli faraonici – pur, questi ultimi, tanto più imponenti e concettualmente “sovrannaturali” – per l’uso al tempo stesso strutturale e ornamentale, ad esempio, delle colonne, fascinose unità architettoniche nate probabilmente proprio in Egitto e ideativamente derivate quasi certamente dai pali usati per innalzare e reggere la tenda dell’esistenza nomade, allorché l’uomo cominciò a costruire edifici permanenti ove trovare fissa dimora per sé e per i propri dèi dopo aver abbandonato la vita incerta ed errante del cacciatore-raccoglitore per quella stabile e più sicura dell’agricoltore. Così dovette accadere ai primi egiziani che decisero di prendere dimora definitiva presso il fiume che chiamarono Nilo, ravvisando in esso una fonte da cui trarre in permanenza il proprio sostentamento.
Dionisio