lunedì 27 ottobre 2008

Iperico, male oscuro e Spleen

Arriva l'autunno, le giornate si accorciano, le notti diventano più lunghe dei giorni, gli alberi perdono la chioma e con il morire della stagione, non sono pochi coloro i quali soffrono di un disturbo che i soliti anglosassoni hanno chiamato con la breve sigla di SAD (Seasonal Affective Disorder ovvero Disordine Affettivo Stagionale). Tra le terapie in uso, vi è quella di esporre il paziente sotto forti lampade che ne stimolano la serotonina. Alzi la mano chi non ha mai sofferto di malinconia autunnale, specie dopo il ripristino dell'ora solare. La parola "melanconia" proviene dal greco melas "nero"e konis "polvere" (ovvero bile nera). Una sua variante cristiana è l'accidia, considerato uno dei sette peccati capitali, dato che reca indolenza e indifferenza. Poiché secondo la concezione di Ippocrate la bile nera veniva elaborata dalla milza, concezione rafforzatasi poi durante il Medio Evo fino all'età romantica, da qui la parola spleen (milza), un suggestivo termine impiegato da Baudelaire per indicare l'umor nero. Quattro sono infatti gli Spleen composti dal poeta. E ne citerò solo qua e là qualche frase, tratte da un paio.



(Ja'i plus des souvenirs que si j'avais mille ans).
Ho più ricordi in me che se mille anni avessi.Un grosso mobile a cassetti stipato di bilanci,versi,lettere d'amore,di verbali,di romanze,e di pesanti ciocche di capelli avvolte da quietanze,non nasconde segreti quanto il mio cervello triste:piramide ed immensa tomba,cela più morti che comune sepoltura. Io sono un cimitero dalla luna aborrito,in cui vermi lunghi,come rimorsi,si trascinano e che sempre s'avventano sui morti miei più cari. Sono un vecchio salotto,d'appassite rose ricolmo,dove alla rinfusa le mode sorpassate insieme giacciono...


II - Quando come un coperchio il cielo pesa
grave e basso sull'anima gemente
in preda a lunghi affanni, e quando versa
su noi, dell'orizzonte tutto il giro
abbracciando, una luce nera e triste
più delle notti; e quando si è mutata
la terra in una cella umida, dove
se ne va su pei muri la Speranza
sbattendo la sua timida ala...


Lo spleen, benché stato d'animo d' umor nero, è per Baudelaire la condizione necessaria per pervenire all'Ideale. Nella concezione baudelairiana Spleen et Idéal sono intimamente congiunti.Pare che il poeta soffrisse fortemente di questo "disordine" ma che proprio per questo, ne avesse bisogno per raggiungere le sue sublimi idealità. Questo stato d'animo lo si coglie anche in Spleen di Parigi, suo poemetto in prosa: Allora dimmi, che cosa ti piace, o bizzarro straniero? Io amo le nuvole ...le nuvole che passano...lassù... le nuvole meravigliose.

Eugenio Montale lo chiama il mal di vivere: Spesso il male di vivere ho incontrato/ era il rivo strozzato che gorgolia/ era l'incartocciarsi della foglia/ riarsa, era il cavallo stramazzato.




E' ancora in questa poesia del pittore-poeta Ardengo Soffici che la incontriamo per la "Via".


Palazzeschi, eravamo tre,
Noi due e l'amica ironia,
A braccetto per quella via
Così nostra alle ventitré
..........................

finale

...Ma un organetto un po' sordo
si mise a cantare: Ohi Marì...

E fummo quattro oramai
A braccetto per quella via
Peccato! La malinconia
S'era invitata da sé.




Una poesia che parte scanzonata, ma che nel finale descrive come lo stato d'animo della malinconia crei quasi un effetto-imboscata per chi ne è colpito.



Lo scrittore veneto Giuseppe Berto la descrisse come una discesa agli inferi nel suo "Il male oscuro" e per raffigurarne la nevrosi d'ansia che l'accompagna scrisse il romanzo senza punti né virgole, in un flusso di coscienza ininterrotto. Non ne soffrono solo i poeti e gli scrittori, ma anche gli artisti (pittori, scultori, musicisti). Ne soffrì Michelangelo, Caravaggio, Cellini, Duerer e molti altri. Albrecht Duerer ne fece anche una famosa incisione a bulino dal titolo "La melanconia" (immagine in alto al centro), sulla quale sono state avanzate parecchie ipotesi e chiavi di lettura. Ma secondo la più accreditata, pare voglia indicare una condizione primitiva, come il primo gradino della conoscenza da perseguire in salita, uno stato d'animo di travaglio interiore assimilabile alla notte, alla "nigredo" dell'elemento ctonio (cioè della terra). La donna infatti è cupa in volto e la scritta sul nastro sorretto dal pipistrello sembra indicare proprio questa condizione di "melanosi" e di "nigredo" paragonabile ad uno stato d'animo di pensosità travagliata. E' un tema che ha attraversato anche la pittura moderna dal Rinascimento fino ai nostri giorni. Edward Munch, grande cantore espressionista degli stati d'animo esistenziali (L'Angoscia, L'urlo) ha composto un dipinto intitolato Malinconia (immagine di lato). Un topos ricorrente anche in uno stupendo dipinto di De Chirico che ha colpito non poco l'immaginario collettivo dal titolo "Mistero e malinconia di una strada" (seconda immagine accanto alla poesia di Ardengo Soffici).


Ma certamente per i malinconici, o accidiosi o depressi o affetti dal male oscuro, o come vogliamo chiamarli, non è di conforto né di consolazione sapere che non sono pochi i personaggi famosi afflitti da questo male. In epoche più vicine alla nostra ne soffrirono pure persone di grande successo politico come Churchill, e giornalistico come Montanelli. Esistono rimedi senza dover sconfinare nella zona grigia degli psicofarmaci e sono l'Iperico (pianta di Iperione, il nome greco del Titano padre di Elio-Sole). Grande è pure il valore simbolico di questa pianta dai bei fiori giallo-sole (quel colore della luce che tanto piaceva a un melanconico cronico come Van Gogh). Capace di combattere gli stati depressivi, è anche un potente cicatrizzante. In fondo, a ben rifletterci, è come immettere piccole dosi di sole nel corpo di chi vede buio e non riesce a uscire dall'oscurità. Non di rado dunque anche la medicina e la farmacopea sono fatte di simboli come le arti, la poesia e il linguaggio.

sabato 18 ottobre 2008

La città, il centro, la piazza: significati simbolici e reali


La dimensione Occidentale in specie italiana delle città presuppone "che ogni spazio urbano abbia un centro in cui andare, da cui tornare, un luogo compatto da sognare [...] da cui dirigersi e allontanarsi" (scriveva Roland Barthes in "Centro-città, centro vuoto", in L'impero dei segni, trad. it. Einaudi, Torino 1984).

E aggiunge che per ragioni storiche, economiche, militari e religiose molte delle nostre città occidentali sono concentriche, nella dimensione reale e simbolica, cioè ricalcano il movimento di senso della metafisica occidentale in base alla quale
ogni centro è la sede della verità.







Così il nostro centro, sia cittadino, sia metaforico, è nella tradizione sempre "pieno" di significati; è un luogo contrassegnato, ipersegnato. Lì sono sedimentati i segni storici e fondati i valori della civiltà, tutti rappresentati : la spiritualità delle Chiese, il potere con gli uffici e i palazzi pubblici, il denaro con le banche, le merci e gli scambi con i negozi e i mercati, la parola e l'espressione ogni volta che la piazza assume la caratteristica originaria di agorà.
 













Andare in centro è in qualche modo quindi anche andare al centro delle cose, incontrare la verità di un luogo, un frammento della propria personale verità, e una verità collettiva, o almeno così era fino qualche tempo fa.
I nuovi quartieri che germogliano intorno alle industrie, periferici in mano all'edilizia da dormitorio e alla speculazione fin dagli anni '60, quasi nuove città senza anima, spesso sono privi di centro. Oppure presentano nuovi centri fittizi, senza significati: non ci sono edifici storici, non ci sono più sculture-simbolo e vincolo all'ideale, oppure c'è una strana fontana-vasca con installazione metallica che, più che astratta è una specie di trespolo, appunto un non-segno.
In pratica non ci sono simboli di identificazione. C'è un'ipermercato che ripete lo stile dei palazzi o viceversa, il che la dice lunga su ciò che sia 'centro' (anche di di valori) oggi: cioè unicamente un certo tipo di 'mercato'.
Oppure ci sono edifici o stili d'importazione, che non appartengono alla realtà storica del posto, all'insegna dell'espropriazione della memoria e della neutralizzazione simbolica dei segni.






Milano, (Quarto Oggiaro, pru Certosa, Arch. Armstrong Bell)

Come dire, le nuove pseudo-piazze non ci appartengono. E' dal 1400-1500 che la piazza monumentale, spesso la piazza grande, la piazza maggiore, diventa il luogo simbolico della città, rielaborando alcuni concetti greco-romani e adattandoli all'epoca.
Al di là di un intero sentire dell'epoca che si muoveva in questa direzione, molto è dovuto al "De re aedificatoria" di Leon Battista Alberti, del 1450, considerato ovviamente un trattato di architettura che verte anche intorno all'idea di come una civiltà si specchi in una città, in termini umanistici, con osservazione delle problematiche culturali, sociali, economiche e simboliche. Il centro, perciò la piazza, doveva essere luogo rappresentativo, di dignità, era valore di radice, e d' identificazione di ciò che quella città è, per cui era anche l'oggettivazione di un ideale, di un passato che continua a produrre realtà nel presente. Anche questo, oggi sembra un valore perduto.

("LA CITTA' IDEALE" , significativo dipinto 400centesco, conservato nel Palazzo Ducale di Urbino, sintesi del classicismo rinascimentale dell'urbanistica, un tempo attribuito a Piero della Francesca, oggi si è in dubbio se considerarlo di Leon Battista Alberti (per un disegno sottostante che presenta molte affinitàcon l'opera di LBA) il quale interpreta anche un dato reale nella vita italiana negli usi delle nostre città: esortava a costruire artisticamente nel centro storico le dimore nobiliari, le Chiese, tutti gli edifici di pubblica utilità.
Nel 1600 Tommaso Campanella pone al centro del tempio della sua Città del Sole 2 mappamondi, uno che rappresenta il cielo e l'altro la terra. Ideale e Reale sono inestricabilmente congiunti nel centro. Anche se la sua visione utopica finisce per annullare le libertà individuali.
Ma la piazza era anche luogo di apprendimento di regole civili, e del bisogno dei cittadini di scambiarsi nozioni, notizie, lavoro, incontro. La nobiltà italiana ha sempre posto la sua dimora nel centro delle città (e non in campagna come spesso nel resto d'Europa) e a questo si deve la conformazione artistica delle nostre città.
La piazza è sempre stata anche luogo di tutte le classi sociali, dove poteva avvenire un incontro, uno scambio: in tante delle nostre commedie la piazza è come il teatro della vita pubblica, fino ad essere un centro 'polisemico' e luogo di ogni virtuale, luogo di incroci del possibile.
Ciò che è difficile invece oggi è definire una città attuale; coglierne lo spirito di città odierna come luogo simbolico culturale, poichè la città moderna sembra un non-luogo.

Prima, di una città erano evidenti addirittura una maschera (la caratterizzazione della Commedia dell'Arte, il cogliere tratti salienti nella tipizzazione), una coscienza, un modo di sentire, uno stile, usi e costumi: un popolo insomma.










Gozzi, Ritratto di Carlo Goldoni tra le Maschere della Commedia dell'Arte, prima metà 1800, Bergamo, San Giovanni Bianco, Casa Parrocchiale)


La città odierna invece possiede elementi non omogenei e spesso non coordinati tra loro da un senso. Si può vedere, all'interno dell'attuale insieme di cose che formano una città, l'assenza delle coordinate che caratterizzano i luoghi familiari, propri, antropologici...Marc Augé insegna che i luoghi antropologici per essere tali dovrebbero possedere:

_caratteri comuni riconoscibili come identitari,
_caratteri comuni relazionali,
_caratteri comuni storici.

Queste 3 categorie sono tutte violate nelle città contemporanee. (cfr. Marc Augé, "Nonluoghi", Eléuthera, Milano 1993, ora Nonluoghi. (Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eléuthera, Milano 2005).
La città odierna allora è (forse volutamente?) all'insegna della discontinuità, della rottura, dall'espropriazione dei valori di radici locali, formata da parecchi non-luoghi. L'insieme di luoghi, sottoluoghi, non-luoghi che la formano, continuano a segnalare la perdita del centro originario, sia fisica sia ideale.

In più la città attuale non è davvero più coercibile in confini: le città sono in continua espansione, grazie all'immissione di continua nuova popolazione, da città si passa a metropoli, a megalopoli.
La città della modernità è progressivamente labirintica, anche una città media è espropriata del centro perchè ormai la si considera metropoli se legata a un'intera 'area metropolitana' estesa che comprende numerosi comuni limitrofi, un'intera fascia di costruzioni quasi senza limite in cui i cartelli che dovrebbero delimitare un nuovo Comune, non corrispondono in realtà a nessuna interruzione alla continuità del paesaggio costruito.

Pare in contemporanea sempre più l'oggettivazione della città dei romanzi gialli o dei film noir, una città in cui perdersi e poter essere fagocitati non possedendo più criteri di riconoscibilità della città-madre; si trasforma nella città fredda-maligna degli horror, nella città surrealista in cui vige il criterio dell'assurdo, la città la cui periferia potrebbe essere ovunque nel mondo data la sua irriconoscibilità modulare, la città innaturale che divora i suoi figli come nella fantascienza. Aiutati in questo da un'architettura impersonale, privata di ogni aggancio al nostro passato culturale, scevra di segni, di simboli originari. (foto a colori: dal film Il deserto rosso di Antonioni)

autore: Josh

domenica 12 ottobre 2008

Il travaglio dell’arte: Napoleone, i tombaroli, i saccheggi, i traffici clandestini e infine il recupero

Al Colosseo (luogo simbolo che é sopravvisuto nel tempo a numerose spoliazioni e distruzioni) é in corso una bellissima mostra di capolavori, sessanta in tutto, in bronzo, in marmo, in terracotta, che hanno una particolarità importante sono una selezione delle opere finite in mano a trafficanti e tombaroli o che sono state oggetto di saccheggi ottocenteschi o di moderno traffico clandestino e infine riportate in patria.
Opere bloccate in corso di esportazione illegale, opere rubate e recuperate e, ancora prima, opere salvate grazie a regolamenti all’avanguardia (i tentativi dei Borbone di tutelare le opere d'arte fin dal 1755), non del tutto scontati se una nazione che si proclamava democratica, come la Francia di Napoleone, fece entrare le opere d'arte come bottino nei trattati di pace. Le razzie del “Nappa” sono ancora ben presenti nella memoria storica di noi italiani e in particolare dei toscani, e la Fallaci ne parla anche nel suo romanzo postumo “Un cappello pieno di ciliege” .

Apollo citarista
Ci sono opere importantissime come l'"Apollo Citarista" ( dalla casa del Citarista di Pompei, bronzo di 1,65 cm di altezza), che nella Seconda guerra mondiale è passato da Berlino ad una miniera di sale.
L’insigne statua muliebre della Hestia Giustianiani in marmo (1,99 di altezza) del I-II secolo d.C. finita in mano ad un privato. La dea Roma in veste di Amazzone (2,30) che è un originale augusteo-tiberiano di Ostia Antica. Minerva con elmo e armata con tritone, di terracotta con tracce di colore (sfiora i due metri).
Ma anche la Venere de´ Medici, uno splendido marmo di Antonio Canova, di cui Napoleone si innamorò: fu nascosta a Palermo per sottrarla alle sue brame, ma inutilmente. L´imperatore alla fine pagò una fortuna per portasela via. Nel 1815, però, la statua, tornò finalmente a Firenze, e lì rimase.

La mostra celebra il centenario del primo regolamento di tutela delle opere d'arte approvato nel 1909 e in generale tutte le conquiste compiute nei secoli nel campo della tutela della difesa del patrimonio artistico.
Il titolo è emblematico,"Rovine e rinascite dell'arte in Italia" (fino al 15 febbraio 2009) ed é suddivisa in sei sezioni: dalle origini della tutela all’unità d’Italia, passando per il Novecento, per la propaganda del Ventennio fascista, fino all’evoluzione dei principi di tutela negli anni Ottanta. Vi si può anche apprendere le astuzie dei tombaroli per ricavare più soldi da un singolo pezzo. Hestia Giustiniani
Il caso più affascinante della mostra è forse quello della cosiddetta "Artemide Marciante" (recuperata dai Carabinieri)una statua alta 113 centimetri, in marmo con tracce di colori sulle vesti.Trafugata a Caserta nel 1994 e mandata in Svizzera, dove i trafficanti tentarono di venderla in Giappone e negli Stati Uniti. Ma avevano i Carabinieri alle calcagna e allora commissionarono una copia dell’Artemide ad un artigiano romano di monumenti funebri “abbandonandola” ad Avellino. Gli esperti non ci cascarono e la vera Artemide fu recuperata e portata in Italia. Nella mostra le statue sono tre: la vera, la copia moderna e il calco in gesso per trarre la copia.
C’è poi la “Ballerina di Goethe”, una Ninfa in marmo della fine del I-inizio II secolo d.C offerta allo scrittore che rinunciò con dispiacere all'acquisto, su saggio consiglio della famosa pittrice Angelica Kaufmann che lo mise in guardia sui problemi legati all'esportazione.
Qui si possono leggere uletriori informazioni sul recupero di altre importanti opere d’arte, patrimonio inestimabile della nostra terra e vestigia del nostro illustre passato.
L’Italia è un nazione unica per grandezza, valore, e quantità di opere d’arte. Ogni centro storico delle nostre città è un “museo” a cielo aperto e vederlo deturpato da orde di vandali immigrati o meno, dovrebbe far imbestialire ogni italiano degno di questo nome e memore dei sacrifici che i nostri padri patirono per difendere l’Italia dagli invasori.
Un'ultima nota, mi piace sottolineare a chi legge, l'operato dei Carabinieri anche in questo campo preparati, dediti alla proprio lavoro e capaci, che ha portato al recupero di tanti tesori.
Aretusa

lunedì 6 ottobre 2008

Quando la cover supera l'originale


Siamo un popolo di "taroccatori", di scopiazzatori, di disonesti plagiari o siamo geniali nell'impossessarci delle canzoni altrui e farle nostre con una forza e un'energia maggiore?

Cliccando su You Tube si fanno scoperte davvero interessanti sulle cover che imperversarono sul mercato discografico italiano degli anni '60 e '70. Poi dagli anni '80 in poi, data la velocità estrema del mercato globalizzato arrivarono solo gli originali e la cover non esiste quasi più. Meglio? Peggio? Non saprei. Forse l'invadenza dei prodotti angloamericani sul mercato ha marginalizzato non poco la canzone italiana, anche quando non era poi così originale. In Francia sono obbligati da una legge a trasmettere il 70% di canzoni francesi.



Non tutti sanno (a parte i collezionisti di rarità in vinile) che la famosa "Stai lontana da me" di Adriano Celentano era un cover della meno nota Tower of Strength del grande Burt Bacharach, interpretata da Gene Mc Daniels. Ma forse, un po' per spirito nazionale, o forse per simpatia e affettività, preferisco di gran lunga la versione dell'Adrianone nazionale a quella originale. E del resto cliccate il videoclip linkato su in alto e rendetevene conto voi stessi: le movenze da marionetta di Jerry Lewis, le risatacce e il look da popolano in canottiera e pantaloni a zampa d'elefante, ne fanno un prodotto più convincente e di maggior suggestione dell'originale. Eppoi ha un surplus di ironia che manca nella versione americana.
Il grande successo La città vuota di Mina, è anche questa una cover di "It's a lonely town" , sempre dello sfigatissimo Gene Mc Daniels che ha avuto la sfortuna di commisurarsi con due big italiani conosciuti e apprezzati anche all'estero. Tentò anche lui di interpretarne una versione italiana per il nostro mercato, ma rimase pressoché invenduta. Minona nostra è Minona nostra, quasi un mostro sacro e inviolabile come la Ferrari.



Qualcuno pensa che "Cuore" di Rita Pavone sia stata scritta appositamente per lei, da tanto la fa sua. La incise per la RCA il cui arrangiatore era allora nientemeno che Ennio Morricone. Beh, allora andate a vedere qui dove il povero ragazzino Wayne Newton interpreta Heart, ovvero l'originale. Ma in pochi lo sanno. Eppure il giovane Newton ha una vocetta graziosamente estenuata, di grande effetto. Ma non abbastanza da coprire la bomba-bonsai Rita che nel frattempo era già esplosa nell'immaginario adolescenziale: piccola, rossa, con le lentiggini da pel di carota e un vocione da monello arrabbiato.







Una cover fonte di polemiche è stata "Fila la lana" che è il lato B di un 45 giri di Fabrizio De André, il cui successo principale era "Per i tuoi larghi occhi". Fila la lana si riallaccia al repertorio trobadorico medievale francese ma è di Robert Marcy (paroliere e musicista) e il titolo è File la laine interpretata da Jacques Douai. Sulla vecchia copertina del disco di Fabrizio (che allora si presentava al pubblico senza il cognome) mancano i crediti , tant'è che fu accusato di plagio dai posteri. Del resto anche "Il Gorilla" era una canzone di Brassens, ma furono in molti a credere che fosse un "originale" di De André. Lui, lasciò fare.


Poi esplodono i miti e le icone della musica leggera, e si fa fatica a separarsene anche quando non sono stati poi così "meritevoli" e onesti nella loro carriera. Non è la prima volta che nell'inconscio collettivo e popolare, l'inganno supera la verità.