lunedì 27 dicembre 2010

Il panettone e la montagna disincantata



E' tempo di festività e di tradizioni. L'inverno ci porta a stare di più al calduccio delle nostre confortevoli case e a consumare i riti delle feste natalizie con gastronomie e leccornie d'ogni tipo insieme agli amici e ai nostri cari. Di leccornie e di speciali gastronomie ha parlato già Marshall nel posting precedente su Cremona correlata alla storia di  Bianca Maria Visconti.
 I cibi sono l'espressione della tradizione dei popoli e perfino dei riti religiosi. Nel caso della pasticceria, è il caso di dire che a volte imita la natura, molto più di quanto la natura non imiti la pasticceria. Come il tradizionale panettone, che, nato a Milano, si è poi diffuso in tutta Italia e nel mondo intero. A che cosa ci fa pensare innanzitutto il panettone? A una montagna, o a un altopiano. O forse anche allo stesso Duomo, in forma più ruspante e stilizzata. E dato che le cattedrali gotiche imitavano il verticalismo delle montagne coi loro picchi e le loro guglie, ecco allora che per la proprietà transitiva, se la cattedrale imita la montagna e il panettone imita la cattedrale, allora  il panettone è diretto figlio della montagna. Ne parlò il simpatico affabulatore Philippe Daverio in una trasmissione in onda su Rai 3 delle serie "Notturno con panettone" che fece per l'appunto un viaggio nei dipinti del paesaggio montano, abbinato al più famoso dolce natalizio, in un divertissement intitolato "Il panettone e la montagna disincantata".


Ricordo pure la sua variante veneta del pandoro con l'immancabile dolce spolverata di zucchero a velo, simile al coccuzzolo innevato di un monte. Panettone o Pandoro? Questo è il problema. Personalmente opto per il primo, perché più ricco a vedersi, con canditi e uvetta.

Più basso e non lievitato il pandolce genovese con aggiunta di pinoli oltre ai canditi, ma francamente pur essendo la sottoscritta, nata ligure, non sono mai riuscita ad apprezzarlo per la durezza dell'impasto. Non se ne abbiano a male i genovesi, ma lo trovo un po' gnucco. Poi ci sono pani coi canditi come il panforte senese, ma qui ci allontaniamo dalla leggenda montana per scendere nelle regioni costiere.



Sulle origini  del panettone si raccontano numerose leggende. Pare che nasca da un errore di levitazione.
La leggenda del panettone da me scelta, ci porta alla corte di Ludovico il Moro, Signore di Milano.
È un giorno di festa, stanno per giungere numerosi invitati e tutto e pronto per ricevere gli ospiti.
Nelle cucine c'è un grande andirivieni di cuochi, sguatteri, valletti...
Il pranzo. ha inizio.
Sulle tavole sontuosamente imbandite vengono servite le prime portate: carni arrostite, cacciagione, pollame, pasticci carichi di spezie... il tutto tra canti, risa, musiche, esibizioni di giocolieri.
Nelle cucine, intanto, il capocuoco sta vivendo un piccolo dramma: il dolce, preparato con infinita cura, e riuscito male e se ne sta afflosciato su un grosso vassoio d argento.
Nessuno sa come rimediare al «misfatto»! Solo uno sguattero, di nome Toni, non si perde d'animo: rimbocca le maniche e impasta in fretta e furia in un grosso recipiente un pane a base di farina, lievito, uova, burro, zucchero, frutta candita e spezie.
Quando già sta per infornare il pane, scopre un barattolo pieno di uvetta e aggiunge anche quella all'impasto.
Mentre nelle sale vengono serviti gli ultimi piatti, il pane nel forno lievita lievita, prende un bel colore dorato e diffonde intorno un delizioso profumo.
Viene l'ora di servire il dolce.
Lo sguattero, nascosto dietro un tendaggio, spia con ansia commensali.
Dietro di lui, ancora più preoccupato, sta il capocuoco: se il dolce non avrà successo le conseguenze saranno disastrose! Ma il successo è unanime: i commensali chiedono a gran voce al padrone di casa di conoscere l'autore di quello straordinario grosso pane che mai nessuno prima ha gustato.
Lo sguattero, intimidito e confuso, viene sospinto nella sala e accolto con battimani.
Qual è il tuo nome? - gli chiede Ludovico il Moro.
Mi chiamo Toni - risponde il garzone arrossendo.


Nella confusione generale si sente distintamente una voce:
Chiameremo questo dolce il «pan del Toni»!

E da qui, il Panettone, l'illustre dolce meneghino.
Questo è il link da cui ho tratto la leggenda: http://www.poesie.reportonline.it/racconti-di-natale/la-leggenda-del-panettone.html


  Mentre la storia e leggenda del Pandoro è intimamente legata alla storia di Verona, ai suoi nobili e alla  sua signoria scaligera; ma anche alla tradizione austro-ungarica. Già noto nel periodo degli Asburgo,  gli amanti e nostalgici del Regno Austroungarico di Franz Josef sostengono che l’origine del Pandoro non sia altro che la rivisitazione del Pane di Vienna”. Forse, fra le varie versioni della nascita del biondo Pandoro, la più attendibile è  proprio quella austroungarica. Infatti, nel 1800 i pasticceri più rinomati, soprattutto nel Regno Lombardo-Veneto, erano quelli austriaci.


Ma torniamo al Pan del Toni. Pazienza se una fetta di panettone contiene 360 calorie. Dopo le feste, ci metteremo tutti a dieta. Ma soprattutto, è inevitabile gustarlo accompagnato a  dell'ottimo moscato, o a dello spumante pregiato (dolce o secco) o champagne  di ottima annata, per un brindisi. A tutti gli amici, i visitatori e gli Esperidi che già sono in vacanza, auguro dunque un Felice Anno Nuovo!

Hesperia

lunedì 20 dicembre 2010

Bianca Maria Visconti

La mattina del 25 ottobre 1441, lungo la strada che conduce alla Chiesa di San Sigismondo, nella periferia di Cremona, l'intera popolazione si era accalcata lungo le strade per festeggiare il passaggio del corteo nuziale. Per questioni di sicurezza lo sposo, Francesco Sforza, aveva scelto quella chiesa di periferia, anziché il più prestigioso Duomo di Cremona. Doveva inanellare Bianca Maria Visconti, sua promessa sposa da ormai 12 anni.

Il divario d'età fra gli sposi, 40 anni lui, 17 lei, aveva messo in serio dubbio, tra i malevoli e gl'invidiosi, la tenuta di quell'unione. Invece, a loro dispetto, fu un'unione duratura e felice, confortata dalla presenza di otto figli.

Bianca Maria era l'unica figlia legittima di Filippo Maria Visconti, la sola, quindi, che avrebbe avuto il diritto di succedere al trono. Senonché, per via d'un testamento lasciato dal bisnonno, ma non più ritrovato, il regno sarebbe dovuto passare di padre in figlio, ma solo per via maschile. Francesco era figlio naturale di Jacopo degli Attendoli, uno dei più celebri capitani di ventura italiani, che si era meritato il soprannome di Sforza dal suo maestro d'armi, per la tenace resistenza. Il Visconti, non riuscendo ad avere figli maschi legittimi, e poiché il trono si sarebbe potuto tramandare solo per linea maschile, aveva pensato bene di adottare Francesco, facendogli poi sposare sua figlia. Gliela promise così in sposa quando lei aveva ancora solo cinque anni, mentre lui era già uomo maturo di ventotto anni. In attesa che la figlia crescendo fosse stata pronta per il matrimonio, pensò bene di relegare lei e la madre, sua moglie, nel castello di Abbiate (la futura Abbiategrasso); questo era considerato più sicuro, rispetto la rocca milanese, e pressoché inespugnabile dai soventi attacchi del popolo, provocati da una sua politica spesso vessatoria. Il Castello di Milano, conosciuto all'epoca come Rocca di Porta Giovia, era stato costruito dal nonno di Filippo Maria, Galeazzo II Visconti, negli anni 1358 - 1368; La ricostruzione operata da Francesco Sforza dopo il 1450, in seguito alla devastazione operata dal popolo nel 1447, subito dopo la morte di Filippo Maria Visconti, lo ha portata ad essere quello che è universalmente conosciuto col roboante nome di CASTELLO SFORZESCO. Per inciso, Galeazzo II è anche colui a cui si devono la costruzione di due opere simbolo di Pavia: il Castello Visconteo e l' Università degli Studi.

Ma poiché il Duca considerava il Castello di Abbiate non molto sicuro, e poco confortevole, decise di farlo rinforzare, facendo anche allestire delle stanze che fossero state degne di accogliere la sua figlioletta, in compagnia della sua consorte. Quando il tutto fu pronto, avvenne il fidanzamento per procura tra Bianca di sette anni e Francesco di trenta, e le due donne partirono per il castello di Abbiate. I fidanzati non si erano visti né conosciuti, e né si vedranno fino al giorno del matrimonio, che avverrà quando lei avrà compiuto 17 anni, l'età minima ritenuta conveniente per un matrimonio regale.

La figlia visse così i dieci anni di trepida attesa, racchiusa tra possenti mura, sognando il suo bel principe azzurro. Venne così il giorno fatidico del pronunciamento. L'umanista Marco Antonio Coccio, soprannominato Sabellico, che, quarant'anni dopo i fatti ebbe a narrare di quel rito nuziale, era perfino informato del discorso che Francesco fece alla fidanzata: "Confesso d'essere entrato in asprissima guerra per mostrare che tutto quello che facevo era per amor vostro; certo io deliberai con animo caldo di morire non potendo acquistarvi. Non cercavo d'offendervi ma di difender me, perchè il duca non mi facesse ingiuria: ora io gli dono la pace e benché mi vediate cinto d'armi pensate d'esser mandata a un quieto et amorevolissimo sposo". Parole di quel discorso e l'accenno alle armi di cui era cinto nel giorno del matrimonio, sono indicative del periodo burrascoso vissuto dallo sposo, e da tutti in generale, durante quel periodo prematrimoniale di dieci anni; un periodo burrascoso dovuto anche al carattere alquanto instabile del duca padre, che sfociava in un andirivieni continuo di promesse e rimangiamenti nel concedergli la figlia in sposa; e le armi di cui era cinto sono il segno evidente che anche quel giorno, pur essendo a casa della sua promessa sposa (Cremona era il suo piccolo regno, che aveva ricevuto in dono dal padre, quando era ancora in tenera età), temendo ritorsioni e agguati da parte di eventuali sicari inviati sul posto dal futuro suocero (la scelta all'ultimo momento di quella chiesa fuori mano, per l'epoca - collocata praticamente nel mezzo di una campagna - anziché il più prestigioso Duomo, situato questo nel mezzo di una serie di viottoli, che avrebbero agevolato la fuga dei possibili sicari, rientrò in quella strategia di autodifesa personale). Comunque sia, più che quelle parole di Francesco furono probabilmente la sua calda voce e il calore dell'intonazione a costituire per Bianca un messaggio inconfondibile: la storia che incominciava tra loro, sarebbe stata una storia d'amore.
Seguì la cerimonia, narrata con enfasi dai cronisti dell'epoca. La sposa, vestita di rosso, colore nuziale e anche colore zodiacale, per i nati sotto il segno dell'Ariete, come lei, era giunta a cavallo di un destriero bianco dalla gualdrappa dorata. Lo sposo, secondo lo storico Giovanni Simonetta, autore della Sforziade, testimonia che Francesco fece il tragitto che lo condusse alla chiesa, preceduto da duemila cavalieri in squadre molto ornate d'oro e d'argento, tutte formate da capitani, condottieri e capisquadra.

Dopo la cerimonia iniziarono i festeggiamenti, culminanti nel sontuoso banchetto nuziale. Invitati d'alto lignaggio, recanti ricchi doni, erano giunti da ogni parte della Penisola. Verso la fine del banchetto, per la prima volta nella storia, in onore della coppia regale era stato portato in tavola un dolce dal gusto squisitamente nuovo, che il popolo all'unisono si era arrovellato nell'ideare. Fu confezionato con la forma della celebre torre campanaria di Cremona, il Torrazzo: nasceva il Torrone.

Fin qui la storia; da qui si dipana il seguito frammistandola con un poco di fantasia personale.

E mi piace immaginare che in quel banchetto furono servite anche altre specialità, divenute poi un classico dell'arte culinaria cremonese: il Salame di Cremona e la Sbrisolona. Quasi sicuramente fu invece portata in tavola la già classica Mostarda di Cremona, conosciuta in quel momento da ormai quasi due secoli. L'avevano infatti messa a punto i monaci del XIII secolo, disseminati nei monasteri, allora numerosi nelle campagne lombarde. Cercando il modo per conservare più a lungo possibile la frutta estiva, ne avevano sapientemente messo a punto la ricetta originale. E così da quegli albori, ciliege, pesche, albicocche, pere, fichi, meloni, ecc., anche se il loro gusto viene coperto, quasi nascosto, dal forte e piccante sapore della senape, si potettero gustare anche per tutto il resto dell'anno.

Di certo, e qui per inciso, va ricordato che Bianca Maria Visconti Sforza è stata benevolmente ricordata molto a lungo nella memoria dei cremonesi.

Al termine del banchetto iniziarono balli, gare, sfide, tornei che si protrassero per giorni e giorni, e rimaste impresse nella memoria popolare. La gente, dopo anni e anni di battaglie, di cui erano state teatri quelle campagne, aveva voglia di dimenticare, divertendosi. I ricordi lasciati da quella festa ebbero un tale potere mnemonico che ancora generazioni dopo un cronista lodigiano ebbe a scrivere: "Fuori Cremona si ballava ... il conte Francesco l'aveva per mano e fu fatta allora quella canzone che dice "Quando per la mano fu presa sotto Cremona" e "Come la bala ben". Un viandante che avesse girovagato per quei paesi e per quelle campagne nei decenni, e forse secoli successivi, le avrebbe sicuramente sentite canticchiare dai lavoranti delle costruzioni e della terra. Per rievocare quei giorni di festa, da qualche anno, nella seconda metà di novembre, a Cremona si svolge la Festa del Torrone.Ed ora, nell'augurarvi un buon Natale, vi sottoporrei gentilmente ad un quiz. Si tratterebbe d'individuare l'autore e il luogo dove è conservato il quadro qui sotto. E' un'immagine natalizia, con Madonna e Gesù Bambino che ricevono la visita di qualcuno. Il quiz è stato sottoposto al gruppo degli universitari del tempo libero, nostri lettori. Si sono rivolti a me, sperando li possa aiutare. Qualcuno mi potrebbe suggerire le risposte? Bibliografia: La Signora di Milano, Daniela Pizzagalli, BUR Rizzoli, Gennaio 2009

Immagini:

Bianca e Francesco Sforza: tratta da Google immagini, proprietario il sito Flickr.com

Chiesa di San Sigismondo, Cremona, dal sito: Cremonaguide.net
N.B. al momento del matrimonio la chiesa era soltanto un cappella. La chiesa di San Sigismondo, così come la conosciamo oggi, fu costruita solo a partire dal 1462, su commissione di Bianca Maria Sforza Visconti.

Castello di Abbiategrasso (Mi): dal sito Mondi Medievali

Duomo e Torrazzo di Cremona: dal sito
Tripadvisor.it

Un bel barattolo di Mostarda Dondi da collezione. Non è pubblicità: regalatomi anni fa, è vuoto, e lo conservo gelosamente. Il fac simile della foto è tratta dal sito
Demar Alimentari.

Cremona, Festa del Torrone, dal sito
Marcopolo Tv

Ultima foto: fa parte del quiz, e non so nulla.

lunedì 13 dicembre 2010

Matilde Serao, scrittrice da riscoprire

Più che per le opere è per la biografia che il nome di Matilde Serao viene, talvolta, ancora ricordato. In effetti, il carattere intrepido ed esuberante della scrittrice napoletana, capace di conquistare e mantenere a lungo posizioni di grande responsabilità nella stampa e nella letteratura in tempi difficilissimi per le rappresentanti del genere femminile, sembra fatto apposta per suscitare ammirazione. Ma relegandola nel ruolo esclusivo di regina del paleo-femminismo si fa un grande torto a una donna che invece merita di essere ricordata soprattutto per ciò che ha scritto.
Matilde Serao si considerava in primo luogo una giornalista e i suoi romanzi traevano spesso ispirazione dall’acuta osservazione delle virtù ma soprattutto dei vizi del popolo napoletano su cui basava tanti suoi articoli. Il paese di cuccagna, uscito a puntate nel 1890 su “Il Mattino” di Napoli e immediatamente pubblicato dalla milanese Treves, che a quel tempo era la maggiore casa editrice italiana, fa tesoro della sua lunga inchiesta Il ventre di Napoli, apparsa nel 1884 sul “Capitan Fracassa”. Le gioiose atmosfere e gli affascinanti colori della città partenopea, così sapientemente descritti nel romanzo, non nascondono i mali gravissimi che più di un secolo fa affliggevano la città partenopea e che sono più o meno gli stessi di oggi. Tra questi mali emerge l’abitudine di disperdere le più belle energie in cose di poco conto e assolutamente improduttive, almeno per l’epoca. Rassegnati e fatalisti, pronti ad affidare le loro sorti al gioco del lotto piuttosto che a un qualsiasi progetto costruttivo, i napoletani riescono ad animarsi fino allo spasimo e si indebitano fino a rischiare la bancarotta solo quando si tratta di ben figurare nel carnevale, la festa più effimera e caotica dell’intero calendario. Matilde prima osserva e descrive attentamente il comportamento dei suoi conterranei: “Dai primi di gennaio Napoli era stata presa da una smania di lavoro che si diffondeva da una bottega all’altra, da una casa all’altra, di strada in strada, di quartiere in quartiere, dalla regione nobile a quella popolare, con un movimento continuo, ascendente e discendente. Dagli stabilimenti agli opifici usciva più forte il rumore delle seghe, delle pialle, dei martelli…” Poi non risparmia loro il più severo dei giudizi quando spiega il motivo di tanta inusuale alacrità: “La grande città si era data a quell’impetuosa e gioconda fatica, non per amore del lavoro in sé, per quel lavoro che è causa e conseguenza di benessere, che è, in sé, fondamento di bontà e decoro, la grande città non si era abbandonata a quella fervente attività per uno scopo immediatamente civile, miglioramento igienico o industriale, esposizione di arte o di commercio, trasformazione di vecchi quartieri o creazione di nuovi: era per il carnevale, soltanto pel carnevale, un carnevale decretato ufficialmente dal palazzo della Prefettura e da quello del municipio, un carnevale caldeggiato da comitati, commissioni, associazioni, messo su da mille persone, creato e realizzato come una grande istituzione e diffuso nello spirito di tutti i cinquecentomila abitanti…” Ma più avanti, e probabilmente suo malgrado, si fa prendere la mano e si fa coinvolgere dall’arrivo dei carri bizzarramente addobbati che scorrono come un fiume in piena nelle vie e nei corsi, sommersi dalla pioggia incessante dei fiori di carta, delle piccole bomboniere e dei mestoli di coriandoli che scendono dalle finestre dei piani alti senza soluzione di continuità, e si perde nell’ammirazione dei terrazzini situati più in basso che la fantasia del popolo ha trasformato in harem, in cucine, in improbabili casette giapponesi nel tentativo di dar vita a qualcosa di memorabile, possibilmente di unico per suscitare l’altrui meraviglia. Lo fa con tanto calore e tanti colori da farci rimpiangere di non poter più assistere alla rappresentazione di uno di quegli antichi carnevali napoletani che per fantasia e sfoggio del superfluo non dovevano aver proprio nulla da invidiare a quelli più famosi dei nostri giorni.
La Serao dimostra altrettanta efficacia nelle opere in cui porta in scena i personaggi del mondo, da lei ben conosciuto, delle redazioni, come quel Riccardo Joanna, protagonista del romanzo I capelli di Sansone. Questo azzimato giornalista è il prototipo della razza, fortunatamente estinta, degli intellettuali dandy che alla fine dell’Ottocento godevano del favore delle donne belle e frivole che popolavano i migliori salotti della capitale. Spontanea e poco incline alle smancerie, Matilde doveva trovare insopportabile questo genere di giovanotti effemminati, sempre pronti a sciogliersi in languori, e ce lo mostra impietosamente mentre gira a bordo d’una carrozza presa a nolo nella disperata quanto vana ricerca di qualche conoscente disposto a prestargli le mille lire che gli servono per evitare il protesto d’una cambiale, in scadenza per l’indomani. Le sue tasche sono drammaticamente vuote e non sa neppure come pagare il conto del vetturino che cresce di ora in ora. Ma l’ansia che l’attanaglia non è sufficiente ad impedirgli di compiacere il suo narcisismo smisurato; infatti, è sempre pronto a dimenticare per qualche istante i suoi guai per corteggiare le signore che incontra lungo il suo angoscioso pellegrinare. Di tutte queste belle donne, regolarmente sposate, egli si dice perdutamente innamorato.
Sempre aggiornata e partecipe della vita intellettuale, Matilde non disdegna di trarre ispirazione dalle mode letterarie del suo tempo. La protagonista de La virtù di Cecchina è una piccola borghese che assomiglia tanto alla Madame Bovary magistralmente raccontata da Flaubert. Ma la mancanza di originalità del soggetto non toglie nulla all’imprevedibilità con cui ella sviluppa la vicenda, fino al suo malinconico ma soprattutto ridicolo epilogo. C’è una certa sottile perfidia femminile nel ritrarre questa donna frustrata, pronta a tutto per soddisfare i suoi desideri, che poi torna indietro e rinuncia all’adulterio semplicemente perché spaventata dall’aspetto truce del portinaio installato all’ingresso del palazzo in cui risiede l’uomo che dovrebbe diventare il suo amante: “Ma sulla soglia, sbarrando la metà dell’entrata, appoggiato al muro, vi era il portinaio, un uomo alto e grosso, dalla faccia volgare e irsuta di peli bigi… Cecchina si fermò, senza osare attraversare la via. Per entrare nella porticina, bisognava domandare al portinaio di poter entrare, chiedergli se il marchese di Aragona era su… ella riunì tutte le sue forze per fare questo tentativo ma a mezza via si fermò di nuovo”. Ogni sforzo per vincere i suoi timori risulta vano e alla fine Cecchina, che pure aveva mentito a tutti e lottato contro ogni fattore avverso pur di concedersi l’agognata avventura, si arrende come una bambina spaventata davanti a quel viso brutto e irriverente, mentre la Serao non nasconde il proprio divertimento nel castigare la patetica borghesuccia.
Merita un cenno anche la scrittura, sanguigna, ricca di umori, popolare, ma non dimentica della lezione della miglior narrativa del passato e a lei contemporanea, di questa nostra scrittrice ingiustamente dimenticata.

Miriam

lunedì 6 dicembre 2010

Il mistero delle sorgenti del Nilo



La storia delle indagini e delle esplorazioni per scoprire quali fossero le sorgenti del Nilo riempie un capitolo vastissimo della vicenda del fiume africano, oltre che costituire una delle mystery-story più intriganti e affascinanti per più generazioni di uomini. La fisionomia ingarbugliatissima del territorio attraversato dal Nilo ha impedito per secoli di sciogliere l'enigma. Le sei cateratte a monte di Assuan ne impediscono la navigazione oltre questo limite e nei pressi della conca sudanese le acque si disperdono in un groviglio di acquitrini e paludi da cui è impossibile districarsi per ritrovare la via che consenta di risalire fino alle sorgenti. Peraltro, nel quinto secolo a. C. Erodoto aveva elaborato una sciagurata teoria sul Nilo che contribuì a creare una confusione destinata a durare per un tempo interminabile. Il famoso storico greco, infatti, aveva opinato che il Nilo coincidesse col Niger, l'altro grande fiume africano; secondo lui si trattava di uno stesso corso d'acqua che nasceva nell'Africa occidentale, attraversava la conca del Ciad e si dirigeva quindi verso l'Egitto. Una versione più vicina alla realtà venne invece avanzata nel secondo secolo d. C. da un altro greco, l'astronomo e geografo Tolomeo, il quale aveva consultato nella biblioteca di Alessandria le opere di Marino di Tiro (vissuto nel primo secolo), a loro volta ispirate dai racconti di Diogene, ardimentoso esploratore ante litteram della costa orientale dell'Africa. Basandosi sulle indicazioni ricavate da quelle letture, Tolomeo tracciò una carta in cui comparivano le imponenti montagne della Luna cinte di nevi, alle cui pendici settentrionali disegnò una regione lacustre da cui fioriva un primo fiume che andava a confluire, più o meno all'altezza della città nubiana Meroe, in un secondo emissario proveniente da un lago situato più a sud. Le scoperte degli esploratori europei confermeranno proprio questo schema, da sempre ritenuto sospetto a causa dell'ampio credito riservato a Erodoto in Europa. Gli antichi, quindi, avevano già individuato i principali elementi geografici dell'alto corso del Nilo, essenziali per spiegarne l'origine: montagne elevate, laghi e – componente cruciale – un grande affluente sulla riva destra. Ma quest'ultimo complicava ulteriormente le ricerche, in quanto vi erano due fiumi da scoprire: quello che sarà poi chiamato il Nilo Azzurro, che rampolla e scende dall'altopiano etiopico, e il Nilo Bianco, che si sviluppa nel cuore dell'Africa. Tra l'altro, Diogene aveva già intuito l'inutilità di risalire il Nilo: occorreva cercare le sorgenti partendo dalla costa dell'oceano Indiano, proprio come poi faranno gli esploratori europei.

L'aristocratico scozzese James Bruce, scopritore intorno al 1765 del lago Tana situato sull'altopiano etiopico, dal quale, attraverso le maestose cascate del Tissisat, nasceva un corso d'acqua diretto verso il Sudan, individuò per primo la sorgente del ramo orientale del fiume, ossia il Nilo Azzurro, mentre la sorgente del ramo occidentale, il Nilo Bianco, fu scoperta solo nel 1857, dopo un’infinità di altri tentativi falliti, a seguito della spedizione di due ufficiali inglesi, John Hanning Speke e Richard Burton. La spedizione, organizzata all'isola di Zanzibar, era stata promossa con ampi finanziamenti dalla Royal Geographical Society, ma si rivelò irta di difficoltà d'ogni genere, sfibrante per la lunghezza e asperità del percorso ed estremamente perniciosa per la salute dei due esploratori; tanto che sarà il solo Speke, dal momento che Burton, troppo malato, era stato costretto a fermarsi, a raggiungere la sorgente, quella sorta di grande mare interno rappresentato dal lago più vasto dell'Africa (68.000 chilometri quadrati) battezzato dallo stesso Speke Lago Vittoria in onore della regina inglese e che, con l'ausilio dei più piccoli laghi adiacenti e ad esso comunicanti, alimenta il corso d'acqua che giungerà fino alla costa mediterranea.

Questa, molto sinteticamente, la storia dei momenti più salienti delle avventurose esplorazioni che approdarono alla conoscenza delle sorgenti del Nilo. Ma il regime estremamente complesso dell'afflusso delle acque in Egitto è stato decifrato, in effetti, solo in epoca recente. Sulla regione dei grandi laghi equatoriali da cui prende le mosse il fiume immortale si abbattono, annualmente, le copiose piogge africane in primavera. Ma l'acqua proveniente dai laghi gonfiati da tali precipitazioni non arriverebbero che in misura inadeguata in Egitto, poiché l'evaporazione in atto nei bacini sudanesi del Nilo Bianco, molto intensa, ne assorbe una quantità ingentissima. Fortunatamente il fiume beneficia di un secondo e più importante apporto di acque, quello dovuto ai monsoni degli altipiani dell'Abissinia, che scaricano sul Nilo Azzurro piogge cospicue trascinanti con sé, oltretutto, il prezioso limo strappato alle terre vulcaniche dell'Alta Abissinia. Ciò che resta del flusso partito dai laghi tropicali tra maggio e giugno comincia a giungere in Egitto a luglio, ma immediatamente dopo segue quello, più ricco, proveniente dall'Abissinia, dove il massimo di precipitazioni si riscontra da giugno a ottobre. La piena del Nilo si verifica quindi in piena estate e ciò è di fondamentale importanza in un paese dal clima sahariano, dove la massima temperatura si manifesta in luglio e in agosto e dove il suolo, perciò, si ricopre di acque proprio all'epoca in cui il solleone minaccerebbe di essiccare e annientare ogni coltivazione; mentre d'inverno, allorché il sole è considerevolmente più mite, le acque regolari del fiume bastano ad alimentare le colture anche con i sistemi tradizionali di irrigazione, già usati al tempo dei faraoni, costituiti da canali scavati rudimentalmente e da piccoli sbarramenti di legno e fibre intrecciate.
Questo meccanismo così preciso poteva – com'è facile immaginare – incepparsi e provocare disastri con estrema facilità: bastava appena un ritardo delle piogge da una delle località di provenienza delle acque per determinare una piena inadeguata o irrilevante. Oggi che il complesso sistema di flussi e deflussi del Nilo ci è perfettamente noto, l'uomo ha cercato di porvi rimedio costruendo una diga imponente, quella di Assuan, capace di garantire una sorta di immagazzinaggio permanente dell'acqua volta ad attuare una piena artificiale a portata regolare, in grado di sovvenire ai bisogni agricoli di ogni stagione con l'utilizzazione metodica e mirata delle acque del fiume; una distribuzione razionale delle acque utilissima per garantire una cospicua produzione agricola per tutta la durata dell’anno. Peccato sia stata resa vana dall’abnorme aumento della popolazione egiziana verificatasi proprio dopo la costruzione della diga; una popolazione giunta oggi a ben ottanta milioni di individui, costretti a vivere, per giunta, tutti ammassati a ridosso del Nilo, il solo territorio coltivabile poiché, com’è noto, il resto dell’Egitto non è altro che un vasto deserto infecondo.

Le immagini, nell'ordine: stampa ottocentesca delle esplorazioni del Nilo; mappa del percorso del Nilo con i due rami che l'alimentano: a destra il Nilo azzurro, a sinistra il Nilo Bianco; le cascate del lago Tissisat; John Hanning Speke e Richard Burton; il Nilo in piena; pianta di papiro che cresce sulle rive del Nilo; veduta della zona desertica dell'Egitto, quella che si estende tutto intorno al percorso del Nilo.

Dionisio