martedì 30 ottobre 2012

Boldini, Previati, De Pisis (ed altri) a Ferrara



Per quante idee circolassero in mente in questo periodo da realizzare sul blog, non si può non dedicare un post a questo evento ferrarese, che si estende dal 13 Ottobre al 13 Gennaio.

Per i circa 2 secoli rappresentati alla Mostra presso Palazzo dei Diamanti, sono stati movimentati quadri famosi e meno, comunque piccole e grandi gemme della produzione nostrana, di area specie ferrarese.

(a sinistra, Giovanni Pagliarini, Madonna con Bambino, 1854)



La Mostra nasce proprio tra i danni lasciati dal recente terremoto emiliano, come una gemma nel deserto, o una Lux ex Tenebris:

i quadri esposti erano conservati presso Palazzo Massari, tuttora inagibile. Conteneva le Collezioni delle Gallerie d'Arte Moderna e Contemporanea, del Museo Giovanni Boldini, del Museo dell'Ottocento, e del Museo Filippo De Pisis. Sono infatti 8000 (!) le opere salvate e "sfollate" al Palazzo dei Diamanti, la Mostra in corso ne ha selezionate 80, tra dipinti, sculture e opere su carta.

(a destra, Giuseppe Virgili, Testa di Donna, 1938)









Curatrici della Mostra sono Maria Luisa Pacelli, Barbara Guidi e Chiara Vorrasi, che hanno preparato l'Esposizione in pratica con tanto di elmetto di sicurezza anticalcinacci.

Oltre a Boldini, Previati e De Pisis, i tre nomi di maggior richiamo, si possono vedere opere di Giuseppe Mentessi, Arrigo Minerbi, Gaetano Turchi, Giovanni Pagliarini, Massimiliano Lodi, ma anche Umberto Boccioni, Achille Funi, Mario Sironi, e Carlo Carrà.

(sopra, Giuseppe Mentessi, La Pace, 1907)






  
(a sinistra, Gaetano Turchi, Torquato Tasso in S. Anna, 1838)

L'idea è quella di dare corpo in questa Mostra a un simbolo di Ferrara, a un concetto.















 (Giovanni Muzzioli, I Funerali di Britannico, 1888)

Il percorso ha un inizio ottocentesco appoggiandosi a Giovanni Antonio Baruffaldi e Giovanni Pagliarini. Si passa al pieno Romanticismo con Girolamo Domenichini, Massimiliano Lodi e Gaetano Turchi, 



fino ad approdare a Boldini, di fama internazionale alla fine del secolo scorso, pittore acclamato per la ritrattistica efficace ma di gusto già leggero, se non frivolo in qualche modo, superficiale e "glam" in area Belle Epoque.

 (a destra, Giovanni Boldini, Signora in Rosa, 1916)










Gaetano Previati è invece sempre uno dei grandi da riscoprire: di solito catalogato come Divisionista, fattore presente in realtà, la sua pittura si distingue per senso della poesia e attitudine visionaria, con qualche incursione in area simbolista, ma sono la ricerca dell'originale, la passione che trapela dai dipinti, a farne un caso unico.


(a sinistra, Gaetano Previati, L'Assunzione, 1903;

sotto ancora Previati, Paolo e Francesca, 1901)


 


Boccioni nel 1916 scriveva così di Previati:

"Quando finirà questa infame noncuranza, questa vergognosa incoscienza artistica e nazionale verso il più grande artista che l'Italia ha avuto da Tiepolo ad oggi..... L'opera di Gaetano Previati è di una vastità e di un valore che sconcertano....
Previati è il solo grande artista italiano, di questi tempi, che abbia concepito l'arte come una rappresentazione in cui la realtà visiva serve soltanto come punto di partenza. Egli è il solo artista italiano che abbia intuito da più di trent'anni che l'arte fuggiva il verismo per innalzarsi allo stile,  Gaetano Previati è stato il precursore in Italia della rivoluzione idealista che oggi sbaraglia il verismo e lo studio documentato del vero. Egli ha intuito che lo stile incomincia quando sulla visione si costruisce la concezione, ma mentre la sua visione si è rinnovata nella modernità, la concezione  è rimasta, come ossatura, al vecchio materiale elaborato del Rinascimento italiano."




Per il Novecento seguono collezioni di altri maestri accorpati in maniera variegata: Alberto Pisa, Giuseppe Mentessi, Umberto Boccioni, Roberto Melli, Aroldo Bonzagni, Mario Sironi. 



(a sinistra, Roberto Melli, Composizione di Oggetti, 1934;

sotto Mario Sironi, La Giustizia, 1935-36)

 

Naturalmente è presente una sezione per Filippo De Pisis: le sue tipiche nature morte  

sconfinano nella visionarietà metafisica (De Pisis conobbe De Chirico, suo fratello Savinio e anche Carrà);


(a sinistra, De Pisis, Gladiolo fulminato, 1930)

 ....le vedute di città (specialmente Parigi, dove soggiornò parecchi anni) che prendono corpo in rapidi tratti, schegge, come tratti stenografici

(sotto a destra, De Pisis, Strada di Parigi, 1938)


 


ma sono presenti anche le opere della vecchiaia (minata da una patologia nervosa) ispirate a toni intimisti come di un microcosmo settecentesco rivisitato che manifestano la ricerca di un colorismo originale, di un continuo clima poetico, pur se anticlassico.

La ricostruzione delle zone terremotate sarà possibile ripassando anche dalla ricostruzione dell'immaginario, partendo ancora una volta dalla propria ricchissima specificità e identità.

Josh 

per notizie dirette sulla Mostra, consultare QUI.

lunedì 22 ottobre 2012

Valentina Cortese ultima diva





 
 
Incontrare Valentina Cortese è un po' come sentirsi cospargere di una sorta di scintillio contagioso e benefico, oltre che di umana simpatia. E non è stata solo un'impressione della sottoscritta, ma osservavo nella sala teatrale, l'atteggiamento dei più giovani: incuriositi, intrigati, divertiti quando non addirittura incantati e ammutoliti dalla sua dirompente personalità. L'occasione mi è stata data l'11 ottobre scorso,  nel quadro delle manifestazioni del Premio Piero Chiara, e la Cortese aveva con sé la sua autobiografia al Teatro Santuccio di Varese.
"Uffa! ", pensai tra di me, "Ecco la solita diva sul viale del tramonto che racconta vita, amori, avventure e miracoli vari del buon tempo che fu". Non avevo fatto i conti con la sua teatralità coinvolgente, ma anche con il suo ineffabile sense of humour. In realtà Valentina aveva con sé non un libro, ma  il suo ennesimo copione teatrale: una sorta di teatro-vita  in un teatro vero,  gremito  di pubblico venuto ad ascoltarla; ed ecco la sua messa in scena. Alla fine, il vero, il finto, il recitato, il vissuto, il letto e il raccontato erano un tutt'uno inscindibile.
"Quanti sono i domani passati" (è questo il titolo del suo libro edito per Mondadori) in realtà avrebbe dovuto avere un punto di domanda, dato che la Cortese, è sempre "in situazione".
 Ma intanto eccola là sul palco,  la Valentina novantenne con il suo immancabile foulard en pendant annodato dietro alla nuca che lei chiama " el riòtt, il fazzoletto delle contadine lombarde" e che si cala quasi fino alla fronte come un Pierrot Lunaire. Una sorta di copertina di Linus che, come lei stessa ammette, le dà riparo e sicurezza.  Tutta in bianco panna, i suoi cristalli (o forse addirittura diamanti) in doppia e tripla fila, il suo manto e la sua eleganza. Quasi un'icona liberty. Come raccontare quasi un secolo di vita senza annoiare? Come la Tosca, la Cortese visse d'arte (teatro, cinema e teatro) e visse d'amore.
Fu consegnata ai nonni che la diedero a una balia di campagna e  di sua madre non parla quasi mai, dato che fu come si diceva ai tempi "figlia del peccato". Ci sono due giornalisti che la intervistano,  tra cui un attore teatrale del Piccolo Teatro, nonché doppiatore Antonio Zanoletti, l'altro, Mario Chiodetti, ma intanto è inutile dato che lei è un'affabulatrice e alla fine si sgancia dalle domande..
Raggomitolata in un fiocco di neve sono nata a Milano, il primo gennaio, all'ora del tramonto" . Correva l'anno 1923...


Cominciamo subito dai grandi amori della sua vita: Victor de Sabata, prestigioso direttore d'orchestra, della quale la Cortese si innamorò mentre stava eseguendo i compiti di scuola, ascoltando la Radio. Galeotto fu il suo Tristano e Isotta.  E quando parla di Victor ,della guerra, di Stresa, luogo a cui è ancora legatissima, ecco che racconta di questo suo amour fou col quale avrebbe voluto morire insieme sotto le bombe. Ma il destino decise diversamente e allora fu lei a porre fine a quel legame così importante per la sua  vita dopo che vide il figlioletto di lui guardarli insieme con occhi assai tristi. "Non volli fare la rovinafamiglie, sebbene sapessi che Victor era già separato da parecchio tempo". E se ne andò.

 
 Dopo un debutto cinematografico prestigioso, accanto a Ermete Zacconi, Laura Adani, Renzo Ricci, Cesco Baseggio, Memo Benassi e Irma Grammatica (L'orizzonte dipinto, Guido Salvini, 1941) diventa presto una delle attrici più popolari del periodo dei telefoni bianchi. Per la sua aria sognante e romantica viene scelta da Alessandro Blasetti per La cena delle beffe (1941) e sempre con Blasetti recita a teatro durante gli anni della guerra.
Nel 1946 ottiene la parte di protagonista nel film di Luigi Zampa Un americano in vacanza, una commedia post-telefoni bianchi nella quale già dimostra doti di interprete originale e sensibile, un fascino vago e luminoso che si discosta dall'appeal più esplicito o lezioso di molte attrici italiane sue coetanee.
Nel 1948 firma un contratto con la 20th Century Fox e si traferisce ad Hollywood dove gira I corsari della strada,  un noir diretto da Jules Dassin, il regista con cui ebbe una storia d'amore. Subito dopo sposa l'attore Richard Baseheart dal quale avrà un figlio, Jackie, futuro attore di cinema. Hollywood però è una breve parentesi. Ritorna in Italia (e ci spiegherà come mai fuggì da Hollywood in questo incontro) e nel 1955 è una delle protagonisite de Le amiche (Michelangelo Antonioni), che le valse un Nastro d'Argento come migliore attrice non protagonista, film al quale è rimasta particolarmente legata. Ma è l'incontro con il teatro, soprattutto con l'avventura del Piccolo Teatro in Via Rovello di Paolo Grassi, Giorgio Strehler e Nina Vinchi, a segnare una svolta decisiva per la sua carriera. Proprio per le sue qualità di attrice drammatica, dopo essere stata la madre di Francesco d'Assisi in Fratello Sole, Sorella Luna (Franco Zeffirelli, 1971), Francois Truffaut la volle per Effetto notte (1973). La parte è quella di un'attrice alcolista che dimentica le battute e deve ripeterle un'infinità di volte fino allo stremo, arrivando a suggerire al regista di adottare il metodo usato da Fellini. "Perchè non giriamo con i numeri? Con Federico lo facevo sempre", parte di non protagonista che le fruttò una nomination all'Oscar. Poi "Giulietta degli spiriti" con Fellini a proposito del quale, la  Cortese ricorda la sua passione per i piccioni farciti cucinati dalla  sua cuoca. Il Federico nazionale era capace di interrompere il suo lavoro, e scampanellare a casa sua anche di notte, in cerca di questo manicaretto, dato che ne era golosissimo.  Quanto alla Masina, lei "non era quella santarellina devota che pretendeva essere",  ma alla domanda di Zanoletti nel merito, non volle aggiungere altro.
Invece, il suo libro parla di una liaison fra la Masina e suo marito Richard Basehart.
Tra i suoi molteplici ruoli da comprimaria, ricordiamo "La contessa scalza" di Mankiewicz,  fino ad arrivare oggi ai frivoli Vanzina con un cameo in "Via Montenapoleone". Impossibile citare tutta la sua copiosa filmografia tra il periodo dei telefoni bianchi, quello hollywoodiano e il cinema italiano del dopoguerra che troverete in questa scheda.
Ed ecco come la Cortese rivolgendosi al pubblico in sala narrò come fu che dovette rinunciare ad una prodigiosa carriera hollywoodiana, dopo aver incontrato  artisti del calibro della Garbo e della Dietrich, dopo essere stata amica di Ingrid Bergman. Darryl Zanuck, il grande produttore statunitense diede un party e le si avvicinò con intenzioni lubriche e malevole (In quel preciso istante Valentina mima la sua dentatura all'infuori da coniglio, facendogli il verso e suscitando l'ilarità generale). L'approccio erotico non riuscì perché lei gli buttò in faccia il bicchiere  pieno di whisky. Lo sconcerto fu grande e, com'era prevedibile,  il suo contratto con la Fox venne stracciato. L'indomani lei si ritrovò libera e felice di volare  alla volta dell'Italia in cerca di ingaggi col nostro cinema  che a quel tempo, per sua fortuna, godeva di ottima salute.
Poi la grande avventura del Piccolo di Milano, e la sua convivenza-sodalizio con Strehler. Un momento di grande climax è stato in sala la lettura delle lettere di lui. Rampogne, schermaglie amorose: "Cretinaccia! Sei viziata come una gatta adottata da una vedova gattara" . Poi le suppliche affinché lei tornasse perché "il Giorgio" ammette sconsolato che senza lei,  si sente  solo come "un gatto soriano senza baffi" (e cioè privo di  equilibrio). Durante la lettura di queste lettere, Valentina si commuove e la voce le si incrina, perché  "il Giorgio è morto la notte di Natale", lui che il Natale lo amava tanto e sapeva allestire meravigliosi alberi con arance fasciate di stagnola d'oro... .
 
Non potevano mancare le scaramucce tra Strehler e Grassi (due galli in un pollaio) quando ricorda quella volta che Giorgio pensò di ammazzare Paolo. Al che, allarmatissima, corse da Nina Vinchi, per avvertirla dell'imminente tragedia.
"Stai tranquilla, non andrà molto lontano. Non ha una lira in tasca" assicurò laconica  la Vinchi.

E forse era vero:  non c'erano soldi a quel tempo, ma sicuramente c'erano tante idee e tanta voglia di fare, di sperimentare...Mentre oggi non ci sono né gli uni né le altre. Erano anni segnati dall'ansia della sperimentazione, dal bisogno di aggiornamento nei confronti della drammaturgia e del teatro degli altri paesi. E' stato un tempo  segnato da un creativo eclettismo che la Cortese ricorda come fosse ieri, dato che le ore non si contavano nemmeno e da giorno si faceva notte, e da notte si tirava l'alba, ma si era sempre lì a progettare qualcosa. Con questo suo strano inafferabile oggetto che è una vita della quale lei non rinnegherebbe un solo giorno. E' raro e davvero invidiabile vivere una parabola di  così  coerente costruttività.

Inutile chiederle chi butterebbe giù dalla torre tra i suoi due grandi amori: Victor de Sabata  o Giorgio Strehler, perché lei risponde che ci si butterebbe lei giù dalla torre. Ma con tutti e due. Risate e applausi a scena aperta e un omaggio floreale da parte del sindaco della città.


Materiali video: in alto una scena da Il Giardino dei ciliegi di Cecov per la regia di G. Strehler
In basso: Effetto notte di F. Truffaut.





Hesperia

 

lunedì 15 ottobre 2012

Aldo Manuzio

 
Aldo Manuzio - da Wikipedia

Il Canal Grande attraversa la città di Venezia, passando in mezzo ai sestieri, tre per parte, e a circa metà percorso si restringe, vira bruscamente a destra per poi passare sotto il Ponte di Rialto. L'antico Ponte, così per come lo conosciamo nella sua forma attuale venne inaugurato nel 1591 (un ponte di legno, poi franato, esisteva già da prima), e fino al 1854 era stato l'unico ponte pedonale di collegamento tra le due parti di Venezia. A quella data, nel 1854, era entrato in funzione il secondo ponte, quello che adesso si chiama Ponte dell'Accademia. Fu a Rialto che, secondo la tradizione, nel 421 si insediarono i primi abitanti della futura città di Venezia. Rialto, a quell'epoca, era una semplice isoletta della vasta Laguna Veneta, scelta da quelle popolazioni perchè un pò più rialzata, e quindi un pò più salubre, rispetto alle numerose altre. Da lì potrebbe forse derivare il nome di Rialto. Nel "rione", diventato poi in un millennio il più popolato di Venezia, alla fine del Quattrocento, all'indomani dell'invenzione della stampa, vi sorsero tante tipografie, la cui concentrazione fù la più alta di tutte le tipografie d'Europa messe assieme, primato che mantenne per quasi un secolo.

Da giovane ho fatto il venditore di carta da stampa; miei clienti erano soprattutto alcune tipografie e alcuni piccoli editori di Milano. Avevamo un ispettore vendite che si recava spesso a visitare i clienti del Veneto, facendo tappa fissa a Venezia. Città nella quale andava ad alloggiare in un albergo nei pressi del Ponte di Rialto, lungo il Canal Grande; approfittava di quella "postazione" privilegiata, per unire l'utile al dilettevole. Durante le pause pranzo ammirava passare i vaporetti carichi di mercanzie (così li chiamava lui, vaporetti, e così li chiamo anch'io, per restare fedele al racconto, ma l'amico Fausto, della Alloggi Barbaria, nel post Pacchi a Venezia ce ne fornisce l'esatta definizione: a Venezia chiamano ""topi" le speciali imbarcazioni adibite al trasporto di merci in mezzo all'intricata ramificazione dei suoi oltre 200 canali), puntando gli occhi su quelli che trasportavano risme di carta. Dal colore degli impacchi era in grado di stabilire da quali cartiere provenissero, e in base al canale secondario che imboccavano capiva dove erano diretti. Di ritorno a Milano, immancabilmente ci raccontava del giro dei clienti di Venezia, e della possibilità unica di "perlustrazione" che gli forniva la città lagunare. Col venditore di zona, pranzando in quel ristorante nei pressi del Ponte di Rialto, con vista "privilegiata" sul Canal Grande, affinavano strategie di vendita. Alle loro spalle, nelle Calle delle Mercerie, c'era, e forse c'è ancora, qualche grossa tipografia, probabile erede "storica" di quelle "decine e decine di tipografie" che esistettero a Venezia nel XVI secolo, e situate in quella "strada" che andava da Rialto a Piazza San Marco, già allora conosciuta nel mondo col nome di Mercerie. "Nel secolo precedente, a partire dal 1469, in Venezia si alternarono 153 tipografie, che stamparono un totale di 4500 titoli, producendo in tutto 1.350.000 libri" (quindi una media di 300 copie a titolo). tutto questo andò a vantaggio della capillare diffusione della cultura tra i veneziani. In Germania, invece, dove pure fu inventata la stampa, fino a tutto il XVIII secolo la lettura resterà un privilegio riservato a pochi "fortunati" "Si calcola (infatti) che (in Germania) nel Settecento il pubblico dei lettori regolari si aggiri attorno all'1,5 % della popolazione totale (...) La Venezia cinquecentesca (quindi 200 anni prima che in Germania) tuttavia fa eccezione (anche in questo): un quarto della popolazione maschile tra i 6 e i 15 anni va a scuola, percentuali inarrivabili altrove e che spiegano l'interesse per i libri" (Giovanni Ragone, Classici dietro le quinte. Storie di libri ed editori. Da Dante a Pasolini, Laterza, Roma-Bari 2009, pag.43 - nota in calce a pag.16 del libro di Alessandro Marzo Magno, L'Alba dei Libri) .









 
Libro stampato e rilegato da Aldo Manuzio - da Wikipedia
(si noti bellezza ed eleganza)
All'epoca non sapevo ancora nulla del glorioso passato nel settore della stampa di Venezia, nè dei suoi numerosi primati mondiali in tale ambito (vedi post Mastro Martino), altrimenti mi sarei appassionato ai racconti del mio ispettore, tempestandolo di domande specifiche.
In questi giorni è in corso la Fiera del Libro di Francoforte, le cui origini risalgono al Cinquecento. Fu creata nell'epoca di cui scriviamo, per fare concorrenza alle Fiere del Libro che si svolgevano a Lione e a Venezia. Ma competere con Venezia in quel secolo, era battaglia persa: la distesa dei negozi del "rione" Mercerie, che vendevano libri, dava l'impressione di una   fiera aperta tutto l'anno. Cronache del tempo raccontano di turisti (che quindi già allora esistevano) che, transitando in qualunque mese a piedi da Rialto, per raggiungere Piazza San Marco, passando per Mercerie, già allora famose "strade" dello shopping internazionale, avevano smarrito l'orizzonte, frastornati dagli innumerevoli titoli di libri che s'eran fermati a leggere strada facendo.
In quel secolo Venezia ebbe il ruolo che attualmente detiene New York, primeggiava in molti campi; era il centro del mondo. Nel 1500 solo tre città europee superavano i 150.000 abitanti, Parigi, Napoli, ed appunto Venezia. Venezia era meta di gente proveniente da tutta l'area mediterranea, e oltre. Bastava avesse voglia di lavorare, e a Venezia poteva fare fortuna. Non a caso tipografie di Venezia furono aperte da tedeschi, greci, ebrei, armeni, croati, dalmati, ecc. La metà di tutti i libri stampati in Europa, nella prima metà del Cinquecento, provenivano da Venezia. Il made in Venice, nel settore libri, e non solo, fu nel mondo sinonimo di qualità eccellente. A far decretare tale primato contribuirono certamente uomini come Aldo Manuzio.
 
Aldo Manuzio non era nato a Venezia, era originario di quella che oggi è la provincia di Latina, che a quel tempo era parte integrante della provincia Terra di Lavoro. Località nomen omen, Aldo Manuzio aveva appreso il mestiere di stampatore tipografo da monaci laziali, dopo alcuni passaggi, ultraquarantenne si era poi trasferito a Venezia per impiantare là la propria azienda tipografica. Lavoratore indefesso, vulcanico nelle idee (basti pensare che dopo 500 anni moderne tipografie si avvalgono ancora delle sue "invenzioni"). Disdegnava i perditempo, e coloro che gliene facevano perdere, tanto che all'ingresso della sua "officina" si trovò costretto a dover esporre un cartello con la scritta: "Chiunque tu sia, Aldo ti chiede di esporre la tua questione in breve e di andartene quanto prima".  
 
Se il mio ispettore segugio di cui sopra, fosse vissuto cinquecento anni fa, per esempio intorno al 1512, e si fosse appostato nei pressi delle allora case dei Barbarigo (ricostruite e unificate anni dopo nell'attuale Palazzo Barbarigo) sarebbe stato in grado di tenere sott'occhio un andirivieni giornaliero di peàte  (imbarcazioni veneziane del tempo, adibite al trasporto di merci) vogate da barcaroli, dirette o provenienti dalla tipografia di Aldo Manuzio. Questa si trovava, ed è visibile tuttora, in Rio Terà Secondo, a due passi da  Campo Sant'Agostin. Dal Canal Grande si arriva alla casa di Aldo Manuzio accedendo al Rio di San Polo, che in quel punto costeggia il bel Palazzo Barbarigo della Terrazza, poco distante a sua volta da Casa Manuzio. Qui è d'obbligo ricordare che con un membro di tale famiglia, Pierfrancesco Barbarigo, editore anch'egli, e figlio del Doge in carica, Agostino Barbarigo, Aldo Manuzio  aveva dato vita ad una società editoriale, una fra le più grandi del periodo, e fors'anche in tutta Europa.






Casa/Tipografia di Aldo Manuzio, con relative insegne. Foto scattate il 13 ottobre 2012, in esclusiva per questo blog, da Fausto Maroder della Alloggi Barbaria
 
Non viene mai ricordato, ma Aldo Manuzio è stato il genio della stampa e dell'editoria, allo stesso modo come lo sono stati Raffaello per la pittura e Michelangelo per la scultura. A Manuzio si deve la "messa a punto" definitiva della punteggiatura nella stampa: virgola, punto, accento, apostrofo, usati per la prima volta nella sua tipografia nella loro forma attuale; ha inventato il punto  e virgola, nonchè l'introduzione della numerazione delle pagine su entrambi i lati (recto e verso). A lui si deve l'introduzione del corsivo nella stampa, che in suo onore gli anglosassoni hanno chiamato italics. E siccome in alcune opere soleva firmarsi Aldo Romano, in ricordo delle sue origini laziali, il carattere tondeggiante da lui creato (quello usato anche da questo blog), in suo onore è stato chiamato Roman dagli inglesi.   
 
Marchio Aldino - dal sito Giandri Altervista Org
 
Nei quasi 20 anni di attività a Venezia, Aldo Manuzio pubblicò 132 libri. Pubblicò pure quello che è stato unanimemente considerato il più bel libro stampato del Rinascimento, il "discusso" Hypnerotomachia Poliphili, del 1499 (visibile on-line cliccando qui). "Discusso" perchè fuori dai suoi canoni di produzione; una sorta di "amor profano" per lui che invece aveva quella sorta di"amor sacro" nel divulgare nel mondo la conoscenza di opere "monumentali", i classici latini (Virgilio, ...), greci (Omero,...) e i padri della lingua italiana: Dante, Petrarca, Boccaccio. Il Canzoniere di Francesco Petrarca fu la sua opera più richiesta; si stima che ne stampò più di 100.000 copie. Insomma, una quantità di libri e di tirature notevoli, mastodontica se si pensa che i fogli di stampa venivano "tirati" uno per uno con la forza muscolare sotto i torchi, e che in quell'epoca le tipogafie dovevano lavorare per gran parte del tempo dell'anno a lume di candele (in particolar modo l'inverno).
 
Concludendo, rimane indiscutibile un fatto: grazie ai libri da lui stampati, Aldo Manuzio ha fatto giungere fino a noi l'italiano così per come lo conosciamo; e anche in ciò risiederebbe la sua grandezza
 
Aldo Manuzio, nato a Bassiano (Latina) nel 1449, morì a Venezia il 6 febbraio 1515. Aveva 66 anni.    
  
  



Al minuto 3 è visibile la casa veneziana di Aldo Manuzio

Bibliografia: Alessandro Marzo Magno, L'alba dei libri

giovedì 4 ottobre 2012

Antonioni


 

E' da poco trascorso il centenario dalla nascita di Michelangelo Antonioni (Ferrara, 29 Settembre 1912-Roma 2007), e dal momento che è uno dei registi che mi ha avvicinato con passione al cinema e uno tra i preferiti, almeno un breve post, sicuramente non esaustivo, andava scritto.

 
(Lucia Bosè in "Cronaca di un Amore")

Antonioni è sempre se stesso (per tutta la carriera), "con un occhio aperto al di dentro e uno al di fuori" (per dirla con parole sue) e rivoluzionario fin dall'esordio. Non ho mai trovato cinema ...gratuito, fatto tanto per girare, in lui. "Cronaca di Un Amore" (1950) chiude la stagione neorealista, invitando a uno sguardo sul mondo interiore, sulle dinamiche psicologiche e comportamentali della modernità d'allora (la pochezza spirituale della borghesia d'allora). Non è un film (come nemmeno gli altri suoi primi) sulla vita tipica del dopoguerra, neorealistico, ma un film su ciò che il dopoguerra ha lasciato nelle anime, e sulla via che si stava intraprendendo in quegli anni.

 Per usare sue parole ancora "penso che gli uomini di cinema debbano essere sempre legati al loro tempo, non tanto per esprimerlo e interpretarlo nei suoi eventi più crudi o tragici, quanto per raccoglierne le risonanze dentro di noi...."(marzo 1959). Regista spesso non del fatto, della Storia, dunque, ma della risonanza interiore, dell'eco che un evento, un clima provocano, e per questo sempre sottile, e a volte brutale e trasparente come pochi nel mostrare, nel rendere evidente una condizione, che sembra palesarsi da sè, senza apparenti interventi narrativi.
Senza questo breve passaggio è forse impossibile intendere la poetica di Antonioni.

 
(Alida Valli ne "Il Grido")

 Ancora abbiamo "I Vinti" (1953), "La Signora Senza Camelie"(1953), "Le Amiche" (da Cesare Pavese, 1955), il bellissimo (ma anche crudele e tristissimo, pieno come di una prostrazione interiore) "Il Grido" (1957) con Alida Valli, dal finale secco e spiazzante....

 
(un'inquadratura de "Il Grido": l'ambiente, qui la nebbia della pianura come correlativo oggettivo del grigiore interiore)

 
(Monica Vitti in "L'Avventura")

.....fino al periodo detto dell'Incomunicabilità, con i capolavori
_"L'Avventura" (1960) con Lea Massari e Monica Vitti, la scomparsa di una donna sullo sfondo, divenuto paesaggio protagonista e straniante, delle Eolie, Noto e Taormina ripresi in maniera inedita;
'L'Avventura' è uno dei film che segna la svolta della cinematografia anni 60, non solo per Antonioni ma per il mondo intero, percorso da Nouvelle Vague, Free Cinema, Cinéma-Véritè....
Antonioni si situa in questo panorama con la ricerca di una nuova significazione filmica, in senso antispettacolare...gli avvenimenti paiono dilatati, i personaggi sondati senza pietà;

 

_"La Notte" (1961) con Monica Vitti e Jeanne Moreau, considerato uno dei film chiave del maestro e un film unico sulla borghesia intellettuale raccontato in maniera originale (con la musica di Giorgio Gaslini), non privo di critiche sulla vita di coppia e sulle relazioni sociali, presentate in modo amaro e talvolta disturbante;

 
(Jeanne Moreau e Monica Vitti in "La Notte")

_"L'Eclisse" (1962) con Roma (l'ex Borsa, l'EUR) a un certo punto mostrata vuota e con architetture del silenzio alla De Chirico, sfondo di un amore impossibile e di una inconciliabilità totale tra esseri;
_"Il Deserto Rosso" (1964) primo suo a colori, con una Ravenna disumanizzata e industriale, fatta solo di fabbriche, alienata e resa quasi "elettrica" attraverso un uso calcolato del colore (parte del profilmico e dell'ambientazione venne dipinta a mano, per aumentarne l'effetto saturazione) che sottolinea l'estraneità del mondo esterno 'plastificato' e la violenza (anche morale, interiore) della contemporaneità.

 
(Monica Vitti in "Deserto Rosso")

Il periodo esistenziale o dell'incomunicabilità vede susseguirsi più caratteristiche (in parte comuni a tutto Antonioni, sempre):
_il tema dell'alienazione dell'uomo, le aspirazioni del singolo frustrate in una società assurda e insieme conformista, la conseguente perdita di sè;
_un modo di narrare che tiene conto di Proust, di Camus, delle avanguardie, con la scomparsa del racconto lineare e un uso inedito del piano sequenza;
_il racconto è frantumato, e viene data importanza a lunghe pause e momenti statici, che però si caricano di significati simbolici e metaforici;
_una ricerca visiva progressivamente più intensa, con studi sulla profondità di campo, messa in evidenza dei volumi, i tagli studiatissimi delle inquadrature, il procedere alla narrazione non per sintagmi causa-effetto: tecniche per mostrare un uomo annullato e 'malato' nel contesto industriale e postindustriale.
La tetralogia rappresenta un'analisi morale del Novecento, svolta con maestria tecnica e originalità.

 

Seguono opere differenti, in cui però la critica alla modernità e alla società dei consumi rimane una costante, ma non pare operata da uno sguardo tanto conservatore, quanto da uno sguardo morale, sempre più essenziale, alla ricerca dell'anima delle cose.
In Antonioni la familiarità tra l'uomo e l'ambiente, l'uomo e gli oggetti, l'uomo e la vita stessa è scomparsa, da qui il costante senso di enigma che percorre molta della sua opera come una domanda sorda, come di chi non ha risolto il dilemma tra uomo morale e uomo tecnologico.

L'autenticità dell'uomo - ci dice sempre Antonioni- è violata e perduta nel "Mondo Nuovo".

Gira in Inghilterra "Blow Up"(1966), da un racconto di Julio Cortàzar, con Vanessa Redgrave, protagonista una Londra amorale...osservata con uno straniamento da obbiettivo fotografico:
la vicenda del fotografo che in un ingrandimento di una foto scopre un probabile delitto ma non arriva a dimostrare nulla, l'inquietante e irreale partita di tennis, con l'andirivieni della palla come da un mondo all'altro.....diventa il fallimento in generale dell'uomo, o almeno di una generazione, costretta a girare a vuoto senza mai giungere alla verità. Un saggio sull'oggettività della tecnica che rimanda alla metafisica, all'inspiegabilità della vita, del senso.

 
(scena da "Zabriskie Point")

"Zabriskie Point" (1970) (colonna sonora principalmente dei Pink Floyd) in USA, mitica interpretazione critica di Antonioni degli anni '70, a partire dal luogo reale nominato come titolo del film, nella Valle della Morte...la storia di una "liberazione" reale e simbolica impossibile, e l'esplosione (letterale) della mortuaria società dei consumi.
"Professione Reporter"(1975) con Jack Nicholson, si interroga sui ruoli dell'esistenza, una trama complessa svolta con un linguaggio sempre più contemporaneo. Ma è anche un saggio sull'incapacità umana di stabilire un'interazione vera con la realtà, così come critica del cinema stesso come strumento limitato di interpretazione del reale.

 
(Jack Nicholson in "Professione Reporter")

Ancora "Il Mistero di Oberwald" da Jean Cocteau (1980), ottimo film questa volta per la televisione, che presenta ancora nuove ricerche sul colore e sulle tecniche di ripresa.
"Identificazione di una donna" (1982) (nella colonna sonora anche John Foxx, Japan...) film più sottile di quanto la critica abbia recepito, con momenti di visioni straordinarie (memorabile il volo degli uccelli a Venezia scorto tra le vetrate/schermi del reale) ma ancora una storia di perdita di sè.

 

Fino ad "Aldilà delle Nuvole" (1995) co-diretto con Wim Wenders (anno dell'Oscar tardivo alla carriera ad A.) tratto dal suo libro  "Quel Bowling sul Tevere". Non va dimenticata l'importante e intensa attività documentaria di Antonioni, e alcuni episodi girati per vari film che non abbiamo citato.

 
(Tomas Milian in "Identificazione di una donna")

Antonioni morirà nel 2007 lo stesso giorno della scomparsa di Ingmar Bergman.
Per riassumere, sicuramente si può affermare che Antonioni ha saputo unire l'indagine psicologica al vigore drammatico e alla sperimentazione dei linguaggi, ma da maestro del cinema mondiale.

Josh