mercoledì 27 febbraio 2013

Dante e varie idee sul "gran rifiuto" in letteratura

In questi giorni, in molti si sono occupati dell'abdicazione del Papa. Qui non lo facciamo.

In quanto blog dedicato a culture e aspetti collaterali, osserviamo appena più da vicino un passo letterario controverso spesso estrapolato. Personalmente non ero d'accordo con l'opinione (supposta) di Dante su San Pietro da Morrone/Celestino V (e nemmeno la Chiesa Cattolica, che venera Celestino V come Santo, con festa liturgica il 19 Maggio, Patrono di Isernia, compatrono dell'Aquila, Urbino e Molise).

« Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto. »

(Inf., III, 58-60)


Siamo nel Canto III dell'Inferno, che introduce alle prime immagini dell'ambiente malefico.
Il tema d'avvio è tipicamente medievale, quasi rituale nella minacciosa scritta all'ingresso (l'anafora Per me si va.../per me/per me) e cristiano almeno nel concetto dell'eternità delle pene.
Dante ha appena varcato la porta dell'Inferno con Virgilio, è nell'AntiInferno, dove sono le anime degli ignavi, che visser "sanza infamia e sanza lodo" (Inf. III, 36), non operando il male ma neanche il bene, così che la misericordia divina, in ottica dantesca, li sottrae all'inferno, ma pure la giustizia li escluderebbe dal paradiso.

Dante giunge al primo gruppo di anime, gli "ignavi" (22-69) e scorge nella massa una figura paurosa che non nomina. Ne sottolinea subito la viltà.

Se la critica letteraria si è interrogata sulla figura anonima con esiti discordi, è stata costretta a convergere a volte con le tradizioni dei commentari coevi o quasi: si poteva trattare di papa Celestino V,  
di Esaù (figura biblica, che per un piatto di lenticchie vendette il diritto alla primogenitura, cfr. Genesi 25-27, 36; ripreso nel NT in Ebr. 12:16,17; Rom. 9:10-13 ) o Ponzio Pilato.


(nell'immagine, rappresentazione tradizionale dell'eremita Pietro da Morrone futuro S.Celestino V)

Dante, con la Commedia, oltre la nota polisemia testuale, ha di fatto costruito un poema immaginario dell'aldilà, basandosi su più fonti d'ispirazione, anche per castigare a modo suo l'aldiqua, e portare a termine qualche vendicativa invettiva personale (non va dimenticata la sua concezione di Chiesa e Impero, intesi come entrambi dotati di potere temporale e di chiamata sacra, mescolata alle sue vicende personali).
In linea di massima, in più casi, nell'interpretazione del passo, si tende ad escludere le altre figure, e si concorda col fatto che Dante mise all'Inferno Celestino V, che invece la Chiesa Cattolica onora.

Dante, come in altre parti della Commedia però, abbandona più volte ogni concetto canonico, dal momento che sia Bibbia sia Eneide ignorano gli ignavi,
mentre i Vangeli esaltano gli umili e i "poveri di spirito" (si vedano per es. le sole Beatitudini).  
Un concetto forte in ambito biblico, cui si pensava si fosse ispirato Dante, diversamente si trova in Apocalisse cap. 3:14, ma se si sa approfondire il testo sacro, non si parla certo di "ignavi" (nè di San Celestino V, che la tiepidezza non sapeva manco cosa fosse, schietto e radicale com'era nelle sue scelte) ma di apostasia:

14 All'angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi:
Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: 15 Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! 16 Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. 17 Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. 18 Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. 19 Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti. 20 Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. 21 Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. 22 Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.


(Laodicea era situata in un crocevia in Asia Minore: ricco centro amministrativo, vi si producevano lane, medicinali anche per gli occhi, era ricca di acque curative, distrutta però da un terremoto nel 60 d.C.; la Chiesa del luogo non fu fondata o visitata da S.Paolo -Col. 2:2- ma da Epafra -Col. 4:12-13- ; solitamente l'esegesi riferisce questo passo non tanto alla chiesa del posto d'allora, ma a una condizione della Chiesa; c'è chi lo legge in termini solo storici, -molto comodo....- , ma da un punto di vista etico e mistico è valido sempre e comunque per l'autoanalisi e come monito sacro a chiunque legge)
 
Il concettismo di Dante sugli ignavi allora va rintracciato sulla scorta di tutt'altri esempi, già presenti nella propria opera:
dal momento che amava grandi impetuosi caratteri "solari" o conquistatori della vita, come Cicerone (Inf. IV) e San Tommaso (collocato dal poeta nel IV cielo, tra gli spiriti sapienti, Par. X, XI, XIII, XIV), allora l'accostamento simbolico va inteso nel poeta come contrapposizione tra magnanimi - ignavi, quando per Dante ignavia andava intesa come pusillanimità dinanzi a una responsabilità etica, politica, civile e/o religiosa pubblica.

In questo caso comunque, mancando la categoria "ignavi" sia nella Bibbia (la vicenda di Esaù è più sottile, il suo non fu un "peccato" d'ignavia, ma un esempio d'uomo "naturale" e istintuale, abile cacciatore, pieno di mogli, forte fisicamente, ma sprovvisto di fede, di senso e interesse spirituale) sia nell'Eneide, Dante trae l'immaginaria categoria degli ignavi dal senso comune, ed escogita per gli ignavi una pena/contrappasso per opposizione.

Chi in vita non prese mai posizione, non seguì mai una bandiera, non si schierò, è ora costretto ad inseguire in eterno, assurdamente, un'insegna.
Chi non sentì mai l'orgoglio (da Dante inteso come un valore dei magnanimi, e non un peccato, come invece è, pur nella molteplicità d'interpretazione del vocabolo), ora è sobillato in eterno da insetti repellenti.
La condanna, tutta dantesca quindi, degli ignavi, intesi come vili, ha la sua motivazione principale probabilmente nella fierezza del carattere di Dante, nella sua tempra incline a prendere posizione senza mezze misure, a non (saper) astrarre mai da sè, e a schierarsi sempre con i grandi caratteri, con le "tempre" volitive, conquistatrici e inflessibili (anche in senso mundano), che stima spesso nel bene e anche nel male.

Se i Libri Sapienziali (Proverbi, Qohèlet in part.) già affermavano che era infinito il numero degli stolti (intendendo però con 'stolti' non i semplici, i miti, gli umili, ma chi tiene il cuore ostinatamente lontano da Dio),
Dante non sviluppa il concetto di pregio dell'umiltà (miti, puri, umili, ultimi, poveri in spirito favoriti da Dio) dei Vangeli, e lascia intendere che per lui gran parte dell'umanità è stolta, nell'accezione dantesca di -senza nerbo-, e non vede in questo una caratteristica su cui possa rivolgersi la reale Misericordia divina, che in realtà dichiara proprio nei testi sacri di "far grazia agli umili" (altro caso ancora, Luca 1:52)

Per cui, anche in questo tratto d'Inferno, possiamo notare versi divenuti proverbiali, che riteniamo appartenenti alla tradizione e alla memoria collettiva,
ma in cui i significati sono dal poeta intesi in un'ottica differente dai testi originali
da cui sono ispirati.

Bibbia ed Eneide rimangono i modelli letterari e gli antecedenti di Dante anche in questa parte, ma rimane ugualmente vero che proprio Bibbia ed Eneide (così "medievale" l'accostarli, e l'appaiarli, dal momento che per i credenti la Bibbia è la Parola di Dio, l'Eneide un'opera capitale, ma solo umana di Virgilio) non parlano di questo tratto d'umanità in questi termini.

Un indizio, che Dante si riferisse a Celestino V, è da alcuni considerato anche l'uso di citare personaggi senza nominarli direttamente, quando si tratta di casi famosi alla sua epoca, in cui bastava un'allusione a delinearne l'identità; alcuni commentatori suoi contemporanei convergono nell'indicare Celestino V come artefice del "gran rifiuto" e alcuni miniaturisti dipingevano di solito una figura con la tiara nella schiera degli ignavi. Se Dante davvero non avesse voluto indicare Celestino, il resto fece l'opinione popolare e alcuni commentari,
che cristallizzarono nei secoli un'accusa piuttosto sciagurata a un pover'uomo, usato senza scrupoli come capro espiatorio dai potenti del tempo.


Petrarca diede uno spaccato in parte differente di Pietro da Morrone nel "De Vita Solitaria" (il 1313 è la data della canonizzazione di San Celestino V).  Per Boccaccio invece, Dante nel verso si riferiva ad Esaù.
Comunque il Petrarca lo considerò a suo modo vile (De vita solitaria, III, 27), ma ritenne la rinuncia  "utile a lui e al mondo per l'inesperienza degli affari, perché era uomo di assidua contemplazione, per l'amore alla solitudine", anche se intendeva il gesto coerente con la sua vita di eremita, col suo senso di libertà e del sacro, che fuggiva la corruzione del mondo e della Chiesa.

Il realtà Petrarca e Dante, anche se da posizioni diverse, non misero mai in discussione il fatto che anche il papato dovesse avere un ruolo politico pieno tra le potenze del mondo.
Dante voleva un pontefice disposto a collaborare, alla pari, con l'Imperatore. La sua delusione fu la vista, dopo Celestino, di Bonifacio VIII papa:
sarà infatti Bonifacio VIII causa dell'esilio di Dante da Firenze e per il poeta causa della rovina della città. L'interesse personale diretto non è mai alieno del tutto dalla Commedia.

Petrarca, non così coinvolto in prima persona nella vicenda e nell'aspettativa politica quanto Dante, si limitava ad auspicare un pontefice "capace", "affidabile", tipico nella tradizione della Chiesa Cattolica, e di Celestino capiva la scelta nei termini della volontà individuale del suo spirito, ma non nei fatti di necessità del ruolo della sua carica nel mondo.
Nessuno dei due poeti seppe penetrare fino in fondo il caso dell'eremita Celestino V.

Dante era ancora in vita al momento della canonizzazione del Santo, c'è chi pensa che non avrebbe messo all'Inferno un Santo appena elevato agli onori, e che il passo infernale si riferisca ad altro,
così come c'è chi, conoscendo appunto il vigore del poeta, e che la Commedia è stata ritoccata fino alla morte di Dante, pensa che il poeta potrebbe aver voluto esprimere proprio il suo disappunto sia contro San Pietro/Celestino V sia contro papa Clemente V (il papa autore della beatificazione di Celestino, che però sospese anche l'Ordine dei Templari e spostò la sede del papato in Francia,  che Dante colloca proprio all'Inferno tra i simoniaci), sia contro l'abdicazione di Celestino V perchè pur tra i tranelli subiti, il lasciare, diede via libera al cardinale Caetani futuro Bonifacio VIII, noto bersaglio dantesco.


Pier (Pietro) da Morrone (nato Angeleri, nel 1209 o 1215) era un eremita, che espresse una notevole vocazione all'ascetismo, ritirandosi nel 1239 in una caverna sopra il Monte Morrone, sopra Sulmona. Prese i voti sacerdotali a Roma, ma nel 1241 ritornò al Monte, in un'altra grotta ancora più separata dal mondo a vivere in semplicità. Si allontanò dall'eremitaggio per fondare una Congregazione ecclesiastica riconosciuta da papa Urbano IV e confermata poi da Papa Gregorio X (al Concilio di Lione, cui si recò a piedi nel timore della soppressione dell'ordine) come ramo dei Benedettini eremiti, che ebbe la sede nell'Eremo di Sant'Onofrio al Morrone, nota come Fratelli dello Spirito Santo o Celestini.
Il 5 luglio del 1294, dopo ben 27 mesi di conclave dopo la scomparsa di Niccolo IV, 11 cardinali (in lotta tra Orsini, Colonna, Carlo II d'Angiò) lo elessero papa a Perugia, col nome di Celestino V.
Incoronato il 29 agosto, all'età di 79 anni, rinunciò al papato il 13 dicembre 1294,  pressato da forze intestine e lotte di potere della curia romana dell'epoca, e morì nel 1296 forse assassinato (le perizie mostrano un buco nel cranio probabilmente risultante da un chiodo infisso nel suo capo, non si sa se causa della morte o successivo) dopo arresto e durissima detenzione in circostanze discusse, imprigionato nella torre del Castello di Fumone ad Anagni; fu catturato mentre stava riparando nelle sue grotte dopo esser stato portato a Napoli in rivolta, poi in procinto di salpare per la Grecia, tra pressioni di Carlo d'Angiò, dei cardinali filofrancesi, degli intrighi di Bonifacio VIII.
La canonizzazione avvenne sia per sollecitazione del re di Francia Filippo il Bello, sia per desiderio popolare (si narra che nel giorno della sua morte, una figura comparve nel luogo della sua prigionia, di visioni simboliche e altre figure di luce), accelerando il procedimento avviato dallo stesso Bonifacio, che nonostante tutto portò a lungo il lutto per Celestino. Tuttavia Clemente V non lo canonizzò come Martire, come richiesto dal sovrano (riconoscendo le circostanze di oppressione che lo avevano portato alla tragica fine), ma come Confessore della Fede. Filippo il Bello in seguito prese parti del corpo di San Celestino da esibire come reliquie, e ancora, in età contemporanea nel 1988 furono trafugate, poi ritrovate,  le spoglie del Santo dal Mausoleo della Basilica di Collemaggio.
Qui una biografia più dettagliata .

Tornando al passo dantesco, la critica rimane divisa sul passo anche in pieno Novecento, tanto che Natalino Sapegno teorizza che Dante non pensasse nemmeno a un personaggio concreto per "l'ignavo", ma volesse creare un typos astratto.

Per chiudere un argomento che è un campo di tensioni che ha attraversato i secoli, incontenibile in un banale post, anche il libro "L'avventura di un povero cristiano" di Ignazio Silone è dedicato alla vita di Celestino V.


Josh

mercoledì 20 febbraio 2013

Che cosa nasconde la parola rivoluzione


Le rivoluzioni sono sempre giuste, sacrosante e soprattutto esprimono fino in fondo la volontà popolare e la sete di giustizia degli uomini, o sono espressione di élites ed oligarchie sempre molto determinate a sovvertire l'ordine costituito per loro fini, manipolando ribellioni di massa anche legittime? Mai come oggi è importante fare una disamina degli eventi storici "rivoluzionari" che hanno sovvertito la storia. Corre pertanto l'obbligo di porsi questa domanda: quei popoli che hanno avuto nel seno delle loro patrie,  rivoluzioni violente, sono  effettivamente progrediti? Questo è quanto si chiede Alexandr Solgenitsin in questo pezzo dal titolo "Contro ogni rivoluzione" nel suo celebre discorso alla Vandea del 1993. Oggi, in epoca di rivoluzioni esportate, colorate, profumate, il suo discorso è più che mai proponibile e di  grande attualità, una torcia che illumina il nostro percorso.
 
 
Due terzi di secolo fa, il ragazzo che ero allora leggeva già con ammirazione sui libri i racconti che rievocavano la sollevazione della Vandea, così coraggiosa e disperata, ma non avrei potuto immaginare, neppure in sogno, che da grande avrei avuto l'onore di partecipare all'inaugurazione del monumento in onore degli eroi e delle vittime di questa sollevazione.
Sono trascorsi venti decenni da allora, decenni diversi nei diversi paesi, e non solo in Francia, ma anche altrove la sollevazione vandeana e la sua sanguinosa repressione sono state continuamente illuminate di nuova luce. Perché gli eventi storici non sono mai completamente compresi nell'incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma solo a distanza di tempo, una volta che le passioni sono state raffreddate con il passare degli anni. Ci si è a lungo rifiutati di ascoltare e di accettare le grida uscite dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una regione laboriosa, per cui sembrava che fosse stata fatta la Rivoluzione, ma che questa Rivoluzione oppresse e umiliò fino in fondo, ebbene sì, questi contadini si rivoltarono contro di essa.
Che ogni rivoluzione scateni negli uomini gl'istinti della barbarie più elementare, le opache forze dell'invidia, della rapacità e dell'odio, i contemporanei l'avevano capito bene. Pagarono un tributo molto pesante alla psicosi generale...
Il ventesimo secolo ha notevolmente appannato l'aureola romantica che circondava la Rivoluzione del Settecento. Di cinquantennio in cinquantennio gli uomini hanno finito per convincersi, meditando sulle loro sventure, che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; che rovinano il corso naturale della vita; che annichiliscono i migliori elementi della popolazione, lasciando libero il campo ai peggiori; che nel paese in cui scoppia, in genere, la rivoluzione è causa di innumerevoli morti, di un diffuso impoverimento, e, nei casi più gravi, di un duraturo degrado della popolazione.
La stessa parola "rivoluzione" (dal latino revolvo), significa "riportare indietro", "tornare", "riprovare", "ridestare", nel migliore dei casi mettere sottosopra: una sfilza di significati poco invidiabili. Ai nostri giorni, se la gente attribuisce a qualche rivoluzione l'epiteto di "grande" , lo fa solo per circospezione, e molto spesso con molta amarezza...
La Rivoluzione francese è stata ispirata a uno slogan intrinsecamente contraddittorio e irrealizzabile: "Liberta', uguaglianza e fraternità". Ma nella vita sociale libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste, perché la libertà distrugge l'uguaglianza sociale, mentre l'uguaglianza restringe la libertà, perché altrimenti non sarebbe possibile realizzarla. Quanto alla fraternità non appartiene alla stessa famiglia degli altri due termini, non è che un'attardata aggiunta allo slogan: non sono delle norme sociali a fare la vera fraternità, che è di ordine spirituale. Per di più, a questo triplice slogan si aggiungeva in tono minaccioso: "o la morte", il che ne distruggeva ogni significato.
 
Mai, a nessun paese, potrei augurare una "grande rivoluzione"...La Rivoluzione sovietica...ha trascinato il nostro popolo nell'abisso della perdizione. Mi dispiace che non ci siano qui oratori che possano aggiungere quel che ha insegnato loro alla resa dei conti l'esperienza della Cina, della Cambogia, del Vietnam, e ci possano spiegare quale prezzo hanno pagato questi paesi per la rivoluzione.
L'esperienza della Rivoluzione francese sarebbe dovuta bastare perché i nostri organizzatori razionalisti della "felicità del popolo" ne traessero delle lezioni. Ma no! In Russia ...molti metodi feroci della Rivoluzione francese sono stati docilmente applicati sul corpo della Russia dai comunisti leninisti e dagli internazionalisti, solo che il loro grado di organizzazione  il loro carattere sistematico hanno largamente superato quelli dei giacobini.
(Anche noi)abbiamo avuto la nostra Vandea...Sono le grandi sollevazioni contadine, quella di Tambov nel 1920-1921, della Siberia occidentale nel 1921. Un episodio ben noto: folle di contadini con scarpe di corda, armati di bastoni e di forche, hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese vicine, per essere falciati dalle mitragliatrici. L'insorgenza di Tambov si è ripetuta durante undici mesi, benché i comunisti, reprimendoli, abbiano impiegato carri d'assalto, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie degli insorti e siano andati vicino all'impiegare gas tossici. Abbiamo conosciuto la Resistenza selvaggia al bolscevismo dei Cosacchi degli Urali, del Don, del Kuban, di Tersk: una resistenza soffocata fra i fiumi di sangue, un vero genocidio.
Inaugurando oggi il memoriale della vostra eroica Vandea, la mia vista si sdoppia. Vedo nella mia immaginazione i monumenti che saranno eretti un giorno in Russia, testimoni della nostra Resistenza all'assalto dell'orda comunista. Abbiamo traversato insieme con voi il Ventesimo Secolo, un secolo di terrore, orribile coronamento di quel progresso tanto sognato nel Settecento. Oggi, penso, saranno sempre più numerosi i francesi pronti a capire meglio, a stimare di più, a serbare con fierezza nella memoria la resistenza e il sacrificio della Vandea.
Aleksander Solgenitsin
 
 

mercoledì 13 febbraio 2013

Un paio di versi di T.S.Eliot


 da "Gerontion"

[...]
Dopo una tale conoscenza, cos'è mai il perdono?
Ora penso
Che la storia abbia molti passaggi nascosti, e corridoi
tortuosi
E varchi, e che ci inganni con bisbiglianti ambizioni,
E che ci guidi con le vanità. Ora penso che dia
Quando la nostra attenzione è distratta,
E che quanto ci dà lo dia con turbamenti
Così lusinghieri che il dato affama ciò che si desidera.
E ci dà
Troppo tardi quello in cui più non si crede, o se ancora
Ci crediamo, soltanto nel ricordo, come passioni
riconsiderate.
E troppo presto dà in deboli mani, ciò che è pensato
può essere
Dispensato, finchè il rifiuto propaga la paura.
Penso
Che nè paura nè coraggio ci salvino. I vizi innaturali
Hanno per padre il nostro egoismo. Le virtù
Ci sono imposte dai nostri impudenti delitti.
Queste lacrime sono scosse dall'albero che arreca
la collera.
[...]

(da Gerontion, -Londra 1919-, sopra tradotto dal v. 33 al 47)

da "Mercoledì delle Ceneri"

I

Perch'i' non spero più di ritornare
Perch'i' non spero
Perch'i' non spero più di ritornare
Desiderando di questo il talento e dell'altro lo scopo
Non posso più sforzarmi di raggiungere
Simili cose (perché l'aquila antica
Dovrebbe spalancare le sue ali?)
Perché dovrei rimpiangere
La svanita potenza del regno consueto?

Poi che non spero più di conoscere
La gloria incerta dell'ora positiva
Poi che non penso più
Poi che ormai so di non poter conoscere
L'unica vera potenza transitoria
Poi che non posso bere
Là dove gli alberi fioriscono e le sorgenti sgorgano,
perché non c'è più nulla

Poi che ora so che il tempo è sempre il tempo
E che lo spazio è sempre ed è soltanto spazio
E che ciò che è reale lo è solo per un tempo
E per un solo spazio
Godo che quelle cose siano come sono
E rinuncio a quel viso benedetto
E rinuncio alla voce
Poi che non posso sperare di tornare ancora
Di conseguenza godo, dovendo costruire qualche cosa
Di cui allietarmi

E prego Dio che abbia pietà di noi
E prego di poter dimenticare
Queste cose che troppo
Discuto con me stesso e troppo spiego
Poi che non spero più di ritornare
Queste parole possano rispondere
Di ciò che è fatto e non si farà più
Verso di noi il giudizio non sia troppo severo

E poi che queste ali più non sono ali
Atte a volare ma soltanto piume
Che battono nell'aria
L'aria che ora è limitata e secca
Più limitata e secca della volontà
Insegnaci ad aver cura e a non curare
Insegnaci a starcene quieti.

Prega per noi peccatori ora e nell'ora della nostra morte
Prega per noi ora e nell'ora della nostra morte.

[...]

(Ash Wednesday, I, Londra 1927-30)

poche note:
per Ash Wednesday
_al v. 1 "Perch'i' non spero..." reiterato, cita G. Cavalcanti "Ballatetta (d'amore e di lontananza)" v. 1
_al v. 4 cfr Shakespeare, Sonnets, XXIX, v. 7 "Desiring this man's art and that man's scope"
_al v. 6 "L'aquila antica" da Dante (cfr. Purg. IX) ai bestiari, l'aquila è simbolo di rigenerazione (cfr anche commenti post Fenice sulla simbologia dell'aquila)
_per tutto il testo, echi del Kyrie, dell'Epitaphe di Villon "Et nous, les os, devenons cendre et pouldre;/De nostre mal personne ne s'en rie,/ Mais priez Dieu que tous nous vueille absouldre!"; B.Pascal "Pensées", passi Vetero e Neo Testamentari...

foto: notte e nebbia su un lago tra gli Appennini

altro link interno 

Josh

giovedì 7 febbraio 2013

La migliore offerta

Solitamente non amo i films di Tornatore. Non ne ricordo uno dove non mi sia annoiata, eccezion fatta per "Nuovo cinema Paradiso" che però contiene qualche melensaggine di troppo. Ma devo ricredermi con "La migliore offerta", suo ultimo film che sta ottenendo buon successo di pubblico e critica. La trama viene sunteggiata punto per punto in  molti siti web. Ma evidentemente non ne possono svelare l'intrigo e i colpi di scena, per non togliere la sorpresa agli spettatori. Il film è ambientato nel mondo delle case d'asta (da qui il titolo), e dell'arte. Virgil Oldman (Geoffrey Rush), collezionista e battitore d'aste misantropo e misogino, ha pochi amici, fatta eccezione un vecchio amico insider trading delle offerte (Donald Sutherland). Virgil mostra di avere un distacco quasi patologico dal reale, dato che l'arte e solo l'arte, riempie la sua vita e pertanto fa collezione di ritratti femminili di tutti i più grandi pittori universali. Un giorno riceve la telefonata della giovane Claire (Sylvia Hoeks), che gli chiede di occuparsi della vendita di alcune opere della collezione di famiglia, salvo poi sottrarsi sul più bello con scuse poco credibili ad ogni appuntamento reale con l'uomo. Virgil seccato, ma affascinato dalla giovane misteriosa venditrice di opere, arriverà a farsi coinvolgere in una storia sentimentale che sconvolgerà tutto il suo mondo perfetto ma certamente artificioso.
Il film è in pratica un "mistery" legato all'arte e del mistery ne mantiene le coordinate e la suspense  (climax, colpi di scena,  niente è come sembra, chi  sembra innocente è colpevole e viceversa, ecc. ), ma fa emergere in filigrana più temi che si intrecciano: la vita, l'arte, l'amore, la morte, l'avidità del mondo delle aste, il collezionismo quale succedaneo dell'amore, l'amicizia tradita, l'amore tradito, la precarietà dei sentimenti ecc. E se proprio devo fare qualche rilievo a questo film che va comunque visto per la qualità e la bravura degli attori (specie Goeffrey Rush), è quella di avere messo da parte del regista, un po'  troppa carne al fuoco. Qua e là, emerge anche qualche ridondanza di troppo che non tiene sotto controllo l'elusività,  vera cifra del film.
"La migliore offerta" non poteva non affascinare un noto critico d'arte nonché collezionista appassionato oltre che conduttore di programmi tv legati alle arti figurative,  come Philippe Daverio, e riporto alcune sue notazioni e suggestioni assai interessanti, da un suo articolo del Corriere  del 25 gennaio scorso.
Qui Tornatore riesce in un eccellente descrizione della psicopatologia che può stare dietro al cocktail di cinismo, passione ed eleganza che genera quel bizzarro personaggio del mercante d'arte ad altissimo livello. In una indefinita città del Nord Europa, laddove ci si immagina possa prosperare una borghesia solida e sofisticata assai, Virgil Oldman, battitore e proprietario d'una avviatissima casa d'aste, uomo d'origini umilissime che s'è forgiato un carattere gelido e chiuso nonché una perizia a prova d'ogni trucco, viene analizzato da Tornatore come se fosse un microbo da laboratorio. Geloso possessore di una raccolta di ritratti femminili che custodisce nel caveau psicotico d'una casa lussuosissima e maniacale da scapolo perenne, Virgil sa tutto dell'arte e nulla della vita; verrà infatti fagocitato da una giovane e bellissima avventuriera che fingendosi disperata erede d'una collezione e d'una casa cadente appropriata a custodirla lo menerà clamorosamente per il naso.fino a portagli via la raccolta di ritratti femminili, che lui, il gelido mercante, custodisce gelosamente nel caveau psicotico d'una casa lussuosissima e maniacale da scapolo perenne. L'amore prima, la passione sessuale poi del mercante per la ragazza finiscono col vincere l'avidità accumulatoria del malcapitato che termina la sua avventura in ospedale psichiatrico. Questa storia non priva di intrigo e di suspense consente a Tornatore una descrizione del microcosmo sofisticato del mercato d'arte che non è priva d'una serie di intuiti che solitamente sfuggono agli occhi esterni. Virgil declina tutta la sua esistenza attorno ad una mescola di cinismo e di eleganza, dove il desiderio incontrollabile per la scoperta del capolavoro va di parallelo con una maniacalità degli arredi della vita domestica e una cura perenne per il vestiario che fanno del film una sorta di passerella da sfilata del più raffinato guardaroba maschile classico apparso nel cinema recente. Il mercato dell'arte, quando decide di imporsi come autentico fenomeno sociale, si trova infatti naturalmente costretto ad una liturgia della perfezione che èpropedeutica alla genesi di quell'alone di chic perenne senza il quale i prezzi non potrebbero esaltarsi e reggere. Il modello preso in esame è innegabilmente quello anglosassone, laddove tuttora alcune vendite all'asta di grandi cifre si tendono a fare in black tie. E l'atmosfera complessiva è quella che già Charles Baudelaire definiva come «luxe, calme et volupté». Vi è infatti un mondo brillante e apparentemente solido (forse più quello dell'arte classica che quello dell'arte contemporanea) dove tutto deve apparire in armonia estetica con le somme di danaro spese. E non v'è dubbio che questo micro campione di umanità trova un suo momento catartico nel veloce impazzare d'un prezzo durante la vendita all'asta, quando il valore non si stabilisce come nella contrattazione privata o di bottega dove l'acquirente tenta di contrattare il prezzo verso la cifra più bassa possibile ma questo valore è costretto a crescere costantemente contro chi ha fatto la penultima offerta. In bottega si tratta al ribasso; in asta si rilancia invece all'insù. Sicché il turbinio del danaro va ad influenzare ogni altra esaltazione, quella dell'eleganza appunto, e talvolta anche quella della truffa. E Virgil ha in sala un vecchio amico che gli  gli fa da compare e gli permette di acquistare nelle proprie aste le opere che più gli interessano. D'altronde il mercato dell'arte è l'unico dove l'interesse privato nell'atto pubblico non è considerato un crimine e dove l'inside trading è considerato una virtù. Mentre nello stock exchange è punito l'operare in base ad informazioni segrete, nel mercato dell'arte tutto è consentito; anzi chi acquista al rialzo perché è a conoscenza di segreti che gli altri non possono sapere, è considerato abile e accorto".
Daverio solleva dunque un'importante differenza tra la Borsa e le case d'aste, entrambe comunque regno dell'inganno, dell'avidità, della lusinga e della millanteria, del possesso, del denaro.
Certo è che l'unica trappola nella quale è vietato cadere è quella dei sentimenti. L'unica passione consentita è quella per la merce artistica. Il tutto avviene sotto l'egida d'una eleganza perenne. Crudele quindi è il mondo del mercato dell'arte, secondo Tornatore. E in parte gli va data ragione. D'altronde trattasi appunto d'un microcosmo al quale si accede deliberatamente e non è un genere di prima necessità sociale. Apparentemente. È un mondo dove il superfluo dal valore non definibile si coniuga con il danaro a sua volta superfluo nella tasca del ricco. Apparentemente. In realtà ben più complessa è la questione. Questo superfluo è l'anima dei popoli e spesso la sua testimonianza maggiore. Non solo l'avidità è il motore del mondo delle arti. La passione che Virgil porta per la giovane finta ereditiera è pari alla sua passione per un accumulo nel caveau segreto che sembra una versione moderna della caverna di Ali Babà. Ma il mondo dell'arte è ben più allegro e aerato. Il suo mercato è fatto anche da migliaia di creazioni, di scambi, di confronti di gusto, di geniali anticipazioni della vita che verrà.
fonte: Corriere della Sera.
Hesperia