domenica 30 giugno 2013

Spiagge






Nel cuore di tutti noi c'è sempre una spiaggia sulla quale si vorrebbe andare o alla quale si vorrebbe tornare. E se non c'è, ce l'immaginiamo. Non si dice forse l' ultima spiaggia per indicare un lido o un arenile inafferrabile che rappresenta la nostra 'ultima occasione" di rifugio?

La spiaggia è metafora del riposo, della vacanza, ma anche dell'approdo, dello sbarco, del punto di arrivo dopo un naufragio. Ulisse fu trovato naufrago e spossato mentre dormiva su una spiaggia. Quando si vuole dare un'immagine di relax completo si mostrano le foto dei bambini  che stanno costruendo castelli di sabbia sulla spiaggia, dato che il mare ci rende  tutti  quanti, un po' più bambini. Personalmente non saprei immaginare un'estate senza mare e non riesco a capire molto la montagna che ci obbliga alle salite in verticale e  a stare troppo vestiti, come se tutto l'anno con gli inverni interminabili che abbiamo, non lo fossimo già abbastanza. O forse sì,  l'accetto quando la calura diventa davvero insopportabile, cosa che quest'anno da quanto mi pare di capire, non avremo.
In questo post passo in rassegna le spiagge della mia memoria.Passo pertanto  a ricordare la spiaggia rosa di Budelli dell'arcipelago della Maddalena, verso la quale giustamente è stato vietato l'approdo, perché molti turisti erano usi sottrarre la sabbia rosa per metterla in boccette, a scopo ricordo. Detta spiaggia è stata utilizzata da Antonioni nel film "Il deserto rosso". Qui la sabbia è resa tale dalla frantumazione di coralli, madrepore e conchiglie, operata dalle maree stesse.

Le spiaggia bianche come il talco di Liscia Ruja e di Liscia Vacca in Sardegna a Nord sulla Costa Smeralda, hanno nomi evocativi. La "spiaggia del Relitto" a Caprera (foto in alto al centro) ha un vecchio legno  di un  antico veliero,  inchiavardato nel fondale ed è già leggenda. Non posso dimenticare le spiagge color ocra della Biodola e della Fetovaja all'Elba dove trascorsi le mie prime vacanze  con amiche, senza essere accompagnata dai genitori. 

La spiaggia di Ciappili in Corsica dietro a Capo Pertusato nel golfo di Sant'Amanza ha la fortuna di avere un torrente d'acqua dolce  che si immette direttamente nel mare. I bagnanti dopo un'immersione marina possono dissalarsi nelle chiare, fresche e dolci acque del torrente.  Inoltre è ricco di profumati  gigli di S. Pancrazio i quali diventano rosa a Budelli, per via del pigmento rosso dei coralli. Sempre in Corsica, non posso fare a meno di menzionare la famosa baia della Rondinara dalle candide sabbie (foto sottostante) dove ho trascorso per ben due estati,  tra le migliori vacanze della mia vita.

La spiaggia dai ciottoli verdi ancora in Corsica a Nonza verso il nord in direzione del "dito" come viene detto, il promontorio appuntito della Corsica che guarda alla Liguria, è un'altra attrazione di singolare bellezza. 

Le spiagge dorate dell'Algarve in Portogallo sono situate ai piedi di alte falesie laddove l'Atlantico  si incontra col Meidterraneo prima di Gibilterra. Là, non si soffre mai veramente il caldo nemmeno quando il sole picchia duro, a causa dei venti e delle correnti.
l'Algarve in Portogallo

Per non dire a Nord  nelle  spiagge della Bretagna lunghissime costeggiate da boschi di pini silvestri e  molto adatte a chi pratica l'equitazione, dove si raggiungono malapena 20, 22 gradi di temperatura in estate, con 17 gradi in acqua.  Certo, per andare al mare, occorre aspettare l'orario delle maree, perché si rischia di non trovarvi più

l'acqua quando la marea si ritira - cosa che per un mediterraneo è  per lo meno inquietante. L'idea di andare "al mare" e trovarvi fanghiglia e conchiglie lasciate sulla battigia con le acque che spariscono, è di primo acchito, qualcosa di sbalorditivo. 
Bretagna


I miei itinerari marini non vanno oltre l'Atlantico. Non ho mai varcato i Tropici e il Pacifico con le sue sabbie bianche e i palmizi altissimi, anche se mi piacerebbe.
Esperti velisti e navigatori che hanno fatto il giro del mondo,  mi dicono però che le spiagge più belle per varietà e cultura sono nel Mare Nostrum,  mare legato alla cultura d'Occidente, già porta e crocevia di più culture. Forse oggi, ahimè,  anche troppo facile...approdo, il Mediterraneo meriterebbe più cura e più sorveglianza; più salvaguardia e custodia dei suoi villaggi. Stupendi sono infatti  i suoi meravigliosi i borghi costieri sparsi lungo la nostra penisola. Chi non è  rimasto attratto da Positano e Amalfi con le sue bianche case un po' saracene che si inerpicano per la collina? O dalle Tremiti, isole verdi e rocciose con i capitelli che si congiungono da un'isola all'altra in una sorta di stupefacente abbraccio roccioso? O dalle Eolie vulcaniche dai vitigni d' uva a perdita d'occhio?   O dalle spiagge dorate delle isole greche con i  monasteri della Calcidica?
E  si badi, non sono io a dirlo, dato poiché, come mediterranea,  sarei accusata di troppo facile campanilismo.  Chi ha navigato per il mondo ammette che i litorali più suggestivi siano situati  proprio qui, con borghi, adiacenze e porticcioli di rara bellezza, ricchi di storia, cultura e  insediamenti archeologici che non si finisce mai di scoprire e riportare alla luce. Si pensi solo a Pompei, a Paestum e alla Valle dei Templi  ad Agrigento solo per fare esempi tra i più famosi. Per non dire della reggia di Minosse a Creta.  Sarebbe opportuno tenerceli stretti con una corretta manutenzione, questi tesori, invece di continuare a prendere sanzioni dalla Ue e rimproveri dall'Unesco. E questo è un impegno che ci si deve assumere in  proprio, senza deleghe. In caso contrario, si viene posti sotto tutela.
Termino questa rassegna con un fulgido ricordo delle Cicladi, isole mitiche della Grecia, già regno dei venti e dei marosi dove si trovano mulini a vento, cieli blu cobalto e spiagge dorate con acque pescose. Con l'augurio che la Grecia possa risollevarsi dalla pesante crisi che l'attanaglia. Augurio che ovviamente estendo anche all' Italia. I paesi dell'Europa mediterranea non devono e non possono diventare l'agriturismo dei paesi più ricchi come la Germania. Soprattutto non dobbiamo cedere isole e litorali che in passato,  abbiamo difeso  strenuamente nei secoli, dalle incursioni dei predoni. A testimoniarlo, le varie torri di avvistamento e di controllo sparse  un po' per tutte le coste.
Ai lettori e visitatori del Giardino, auguro una Buona Estate!





Hesperia



martedì 18 giugno 2013

La civiltà dello spettacolo e la fine della cultura



Il libro  di Mario Vargas LLosa "La civiltà dello spettacolo" (Einaudi) affronta il tema della fine della cultura in un'epoca che spettacolarizza tutto: dalla politica, all'informazione, all'arte, alla vita quotidiana  ecc. La cultura, scrive MVL si trasmette attraverso la famiglia, ma quando questa istituzione smette di funzionare in modo adeguato, il risultato è la decadenza della nostra cultura. Dopo la famiglia, il principale veicolo di trasmissione della cultura è la religione. Cultura e religione, non sono la stessa cosa, ma non sono separabili, poiché la cultura è nata all'interno della religione e, sebbene con l'evoluzione storica dell'umanità se ne è parzialmente allontanata, sarà sempre unita dalla sua fonte di nutrimento da una sorta di cordone ombelicale". Molte riflessioni di T.S. Eliot sono state riprese da Vargas Llosa (Premio Nobel per la Letteratura 2010) per riprendere la sua idea di società e cultura. Con cipiglio critico l'autore ci narra come la postmodernità abbia distrutto il mito degli studi umanistici che ci umanizzino. La cultura di massa nasce dal predominio dell'immagine e del suono, sulla parola. I dischi, la tv, il cinema sono accessibili a tutti e sono, per certi aspetti, un "cibo triturato" e precotto che deve arrivare a tutti gli strati sociali di tutti i paesi, processo di "mondializzazione" che viene oggi accelerato dalla rivoluzione cibernetica e in particolare da Internet. "Non solo l'informazione ha infranto le barriere, ma praticamente tutti gli ambiti della comunicazione, dell'arte, della politica, dello sport e della religione hanno sperimentato gli effetti riformatori del piccolo schermo". E aggiungiamo, anche del monitor del pc. Anche la politica si è fortemente deprivata di aura, secondo lo scrittore peruviano, diventando via via sempre più volutamente irrituale e spettacolarizzata. A ben voler vedere, le famose "convention" statunitensi, sono già degli spettacoloni circensi con palloncini e guest stars. E del resto sono stati proprio gli Usa a incorporare per la prima volta nel mondo politico, la figura dell'attore-leader (Ronald Reagan, Arnold Schwarzenegger).




"Nella civiltà dello spettacolo il comico è sovrano»; «comici e buffoni» sono «divenuti maîtres à
penser della società contemporanea. Le loro opinioni paiono rispondere a presunte idee progressiste ma, in realtà, ripetono un copione snobistico di sinistra: smuovere le acque, far parlare». L'allusione a Grillo, a Dario Fo, Benigni e ad altri guitti buffoni appare chiara. Ma anche a politici che si abbassano ad essere  comicamente corretti anche quando comici non sono.



All'ideale tipo del buffone istrionico, MVL riconduce anche due personaggi di grido che difficilmente avremmo abbinato. L'artista della provocazione Damien Hirst: «Perfetto esempio di come oggi un creatore non debba più giustificare il proprio talento attraverso le opere, ma diventando lui stesso uno spettacolo. Insomma, un bravo truffatore. Ma oggi agli artisti si chiede di essere dei grandi imbroglioni».

E poi il cyber-attivista Julian Assange, guru di Wikileaks: «Eroe della libertà d'espressione? Ma andiamo. Beffandone la segretezza, ha danneggiato molto più i governi democratici che quelli autoritari. Non per niente è protetto dal presidente ecuadoriano Rafael Correa: uno che fa chiudere giornali, che tiene la stampa del suo Paese sotto costante ricatto, che fa dei Tribunali uno strumento politico. Anche Assange obbedisce alla necessità di trasformare l'informazione in intrattenimento. In scandalo. Mentre la cultura era senso del limite».

Già, ma come si può ancora dissociare la cultura dal consumo? Come rivendicare il diritto a distinguere tra un'opera d'arte, una bella trovata e una semplice stronzata senza passare per reazionari? Mario Vargas Llosa - che non ha nulla di un puritano antiedonista - si è attirato con questo libro anatemi che ravvivano la già calda antipatia nutrita nei suoi confronti dalla Sinistra (qualsiasi cosa significhi questa parola nel maggio del 2013).

Nostalgico? Forse. Elitario? Di certo. Conservatore? No, da quando - negli anni Ottanta - voltò le spalle al gauchismo latinoamericano, non ha mai accettato l'appellativo. Continua a definirsi un liberale en el sentido clásico de la palabra, nel senso classico del termine. Ma allora perché si lamenta se anche nella cultura «l'unico valore che ormai esiste è quello fissato dal mercato»?

Che c'è di male per un liberale (nel senso classico della palabra)? «C'è che il mercato è un
meccanismo freddo: fissa solo le regole del gioco - offerta e domanda - però manca di valori. Quelli dovrebbe metterceli la cultura. Che stabilisce gerarchie tra ciò che è importante è ciò che non lo è». (articolo di Mario Cicala - Venerdi di Repubblica).


In realtà è presto detto: pur essendo di ideologia liberista, dopo essere stato di sinistra, MVL è pienamente consapevole che la distruzione della cultura marcia di pari passo con la distruzione di quelle élites di intellettuali che ne erano i custodi, e che divulgandosi presso tutte le stratificazioni sociali, la cultura finisce col  perdere la propria aura. 





Molti sono i buoni capitoli di questo suo provocatorio pamphlet: l'erotismo distrutto dall'inflazione della pornografia, dalla cattiva letteratura porno, dall'educazione sessuale imposta precocemente nelle scuole primarie.


Di grande interesse è quello relativo a Internet e alla società dell'informazione in tempo reale secondo il paradosso "Più informazione, meno conoscenza". "Non è vero che Internet sia soltanto uno strumento" asserisce lo scrittore. "E' un utensile che diventa il prolungamento del nostro corpo, del nostro cervello il quale a sua volta, in modo impercettibile, si adatta a poco a poco alle funzioni che il sistema di informarsi e di pensare, rinunciando a poco a poco alle funzioni che il sistema (il software) svolge al suo posto".

Per paradosso dunque secondo MVL più intelligente e sofisticata è la "macchina" meno intelligente diventerà il nostro cervello deprivato delle sue più importanti funzioni critico-cognitive
L'occasione per giungere a questa amara conclusione gli è stata fornita da Nicholas Carr laureatosi in lettere presso l'Università di Harvard, il quale ha confessato che da quando lavora con Internet ha smesso di essere un buon lettore, e perfino un semplice lettore. Egli ha raccontato che quando prende in mano un testo (cartaceo) non riesce più a concentrarsi. Dopodiché, preoccupato, ha preso la radicale decisione di abbandonare la sua confortevole casa di Boston per andare a vivere in una capanna del Colorado, dove nel giro di due anni ha scritto il polemico libro che lo ha reso famoso "Internet ci rende stupidi? ovvero "Come la rete sta cambiando il nostro cervello". Ma è soprattutto contro la pretesa di poter assurgere ad una sorta di Onniscienza da parte del novello internauta, che MVL scaglia gli strali della sua polemica. La velocità di poter reperire in fretta informazioni, non può certo surrogare la lentezza di  un antico sapere sedimentato nel tempo. E sono proprio i custodi di questi antichi saperi che possono e devono opporsi al tentativo di fare "piazza pulita" di una civiltà ("I dinosauri possono arrangiarsi per sopravvivere e rivelarsi utili in tempi difficili", conclude)

Alcuni articoli che lo scrittore Premio Nobel ha scritto per prestigiose testate straniere sono stati inseriti nel presente volumetto edito per l'Einaudi. Ma sono, rispetto ai capitoli critici sulla cultura, meno interessanti. Specie quando affronta il fenomeno dell'immigrazione, dove la sua visione di "liberale" lo porta ad essere troppo ottimista, circa la cosiddetta "integrazione". 


Più efficace, nei capitoli più prettamente letterari o concernenti l'educazione per i giovani, dato che ha esercitato a lungo la funzione di professore di Letteratura.

Hesperia

martedì 11 giugno 2013

Borderline: Arte tra Normalità e Follia



Nella cultura europea alcuni artisti e psichiatri osservarono in maniera differente le esperienze artistiche nate nei luoghi di cura per malati mentali.

Il nesso tra Arte e Follia è antico come il mondo. Eraclito scriveva che "Per quanto tu cammini per ogni via, i confini dell'anima non li troverai".

La follia fu intesa infatti come un mezzo per esplorare questi confini. La nozione di "follia" in questa accezione (manìa) andava intesa diversamente dalla patologia. Platone nel "Fedro" scriveva che "la follia è tanto superiore alla sapienza, in quanto la prima viene dagli dei (n.d.r. intendeva infatti la cosiddetta "divina follia"), la seconda dagli uomini".

In questo senso, non è che in epoca classica fosse pregiata ogni follia, beninteso, ma la follia quale dono divino.

La "divina follia" di Platone è quella del poeta che vede nascere in sè inesauribili energie creative, o quella del profeta che riesce a figgere gli occhi nel futuro, o quella di Dioniso che donava uno stato mentale d'estasi, in cui si percepisce di avere la divinità dentro di sè (questo secondo la tradizione greca, in ambito cristiano i termini paolini della questione sono molto differenti: "farsi folle perchè la sapienza del mondo è follia per Dio, invece la sapienza cristiana è follia per il mondo"), e più in alto sempre per Platone sta la "divina follia d'Amore" che avvicina l'anima alla sua natura più intima.

Quindi per i Greci la follia andava intesa in modo duplice, malattia della mente quanto ipertrofia delle proprie potenzialità.

Il nesso tra Arte e Follia nell'era dello scientismo cambia segno. Il rapporto, per esempio tra Arte e psicanalisi ha origine in più modi, tra scienza, scientismo, volontà d'analisi, Positivismo ed arti.

Tra i casi iniziali più eclatanti, come non citare l'esperienza di Charcot, che con le sue lezioni pubbliche trasformò la Clinica Salpêtrière in una specie di teatro.

Specularmente, la nascita della psicanalisi si era in qualche modo imparentata anche con la letteratura, dalle stesse relazioni mediche, in qualche modo letterarie, che trattavano dei casi narrando,
fino all'influenza su vere e proprie opere letterarie che facevano della psicanalisi o dell'analisi del disagio un metodo o un tema:
l'Horlà di Maupassant e gli studi sull'isteria e l'ipnotismo, Proust e l'episodio del Dottor du Boulbon (intreccio tra sapere e malattia, conscio e inconscio) o lo stesso Baron de Charlus, Bergson che si occupa di ipnotismo, il Surrealismo e Breton.

Ancora da notare l'attitudine psicologica matura nella scrittura di Balzac, di Flaubert, fino a Bourget e Huysmans.

La psicologia scientifica è anche introiettata come metodo vero e proprio da Emile Zola nel "Romanzo Sperimentale", come da Hyppolite Taine che pensava alla letteratura come a una "psicologia vivente", anche se è più noto per l'osservazione naturalistica letteraria e filosofica basate su race, milieu, moment.

Lo stesso Baudelaire affermava "J'ai cultivé mon hysterie avec jouissance et terreur". Studi sul magnetismo riecheggiano ancora nei Racconti di Hoffmann, nel "Ritratto di Cagliostro" di Dumas padre (Memorie di un medico, Giuseppe Balsamo), in Edgar Allan Poe de "La verità sul caso Valdemar", o Robert Browning in "Mesmerism".

Noi stessi avevamo dedicato un post a questo aspetto dell'arte visiva e dell'analisi nel pezzo sulla vicenda di Charles Sims, con possibilità di controllare l'evoluzione del disagio nella successione dei suoi dipinti; o anche qui, un pezzo su malinconia e "lunatici".
Freud ancora sosteneva nei "Saggi su Arte, Letteratura e Linguaggio" che sono
"gli artisti e i poeti i veri scopritori dell'inconscio psichico, giacchè essi sanno in genere una quantità di cose tra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta."




Hieronymous Bosch, "Elefante da battaglia"

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Dopo questo breve resoconto, che risulterà magari tematicamente più chiaro a chi conosce vicende e testi sopracitati, mi collego ad una mostra importante intorno a questi temi,
che illustro brevemente.
Ci siamo già occupati delle mostre del MAR, perchè non si presentano mai come esposizioni statiche, come ci si aspetterebbe da un'attività museale,
ma si tratta più spesso di "Mostra come Ricerca", più che in altri casi, che richiede una cooperazione interpretativa notevole allo spettatore, ed è più studio e indagine aperta che mostra.

Le ricerche di quegli anni avevano avviato anche in ambito figurativo una revisione di idee quali "arte dei folli" e "arte psicopatologica", prendendo in esame queste produzioni sia come sorgenti della creatività che come modalità propria di essere nel mondo, da comprendere al di là del linguaggio formale.




Cesare Inzerillo, Bird of Paradise


Nel 1912 Paul Klee, per la prima mostra del movimento artistico del Blaue Reiter alla Galleria Thannhauser di Monaco aveva individuato nelle culture primitive, nei disegni infantili e in quelli dei malati mentali le fonti dell'attività creativa.

Nel 1922 lo psichiatra tedesco Hans Prinzhorn pubblicò un testo dal titolo "Bildnerei der Geisteskranken"("L'attività plastica dei malati di mente") che segna la fine dello sguardo positivista sulle produzioni artistiche nate negli ospedali psichiatrici.
Infine, nel 1945 Jean Dubuffet conia la nozione di Art Brut.

Oggi il termine Borderline individua una condizione critica della modernità, antropologica prima ancora che clinica e culturale. In questo senso la mostra si propone di esplorare anche gli incerti confini dell'esperienza artistica al di là di categorie stabilite nel corso del XX secolo, individuando un'area della creatività dai confini mobili, dove trovano espressione artisti ufficiali ma anche autori ritenuti "folli" o "alienati".

Tra i 2 gruppi (artisti ufficiali e folli) talvolta il confine è più impalpabile di quanto si potrebbe immaginare, specie per l'arte del Novecento in cui è la...nevrosi che pare farla da padrone, specie nella dissoluzione della figura, sintomo della perdita di sè e dell'identità.




Salvador Dalì, "Mostro molle in un paesaggio angelico"


La mostra al MAR di Ravenna curata da Claudio Spadoni, direttore scientifico del museo e da Giorgio Bedoni, psichiatra, psicoterapeuta, con il supporto della Fondazione Mazzotta di Milano ha inaugurato il 16 febbraio per proseguire fino al 16 giugno 2013.
C'è un'INTRODUZIONE, con opere di Géricault e Goya, Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel, Max Klinger, poi l'esposizione prosegue per sezioni tematiche.

Le creazioni Art Brut sono una presenza costante nel percorso della mostra.

Nel DISAGIO DELLA REALTA' sono presentate opere di Bacon, Dubuffet, Basquiat, Tancredi, Chaissac, Wols, ma anche Pierre Alechinsky, Karel Appel, Madge Gill, Vojislav Jakic, Asger Jorn, Tancredi Parmeggiani, Federico Saracini, Gaston Teuscher, Willy Varlin, August Walla, Wols, Adolf Wölfli, Carlo Zinelli per stabilire confronti sull'ambiguo confine tra la creatività degli alienati e il disagio espresso dall'arte ufficiale dell'ultimo secolo.





Il DISAGIO DEL CORPO espone una serie di lavori dove è protagonista il corpo, che diviene come l'estensione della superficie pittorica e talvolta opera stessa nelle sue più sorprendenti trasformazioni, descritte in toni ludici o violenti, con Recalcati, Moreni, Fabbri, Perez, De Pisis, Zinelli, alcuni protagonisti del Wiener Aktionismus e del gruppo Cobra come Jorn e Corneille,
poi Hermann Nitsch e Günter Brus; e Joaquim Vicens Gironella, Josef Hofer, Dwight Mackintosh, Oswald Tschirtner.
E ancora Victor Brauner, Pietro Ghizzardi, Cesare Inzerillo, André Masson, Arnulf Rainer, Eugenio Santoro.




Antonio Ligabue, Autoritratto

All'interno dei RITRATTI DELL'ANIMA ampio spazio viene dedicato ad una sequenza di ritratti, e soprattutto autoritratti, una delle forme di autoanalisi inconsapevole più frequente nei pazienti delle case di cura, con opere di Ghizzardi, Kubin, Ligabue, Moreni, Rainer, Sandri, Van Gogh, Jorn, Appel, Aleshinsky, Viani.
Francis Bacon, Enrico Baj, Jean - Michel Basquiat, Pablo Echaurren, Sylvain Fusco, Pietro Ghizzardi, Theodor Gordon, Antonio Ligabue, Bengt Lindstrom, Mattia Moreni, Arnulf Rainer, Gino Sandri, Lorenzo Viani. Due maschere Sepik sono inserite, come emblematici manufatti di arte primitiva e simbolo dell'ancestrale nella rappresentazione, provenienti dalle popolazioni indigene del fiume Sepik in Melanesia. Un'intera sala verrà poi dedicata ad Aloïse Corbaz, storica autrice dell'Art Brut.




Théodore Gericault, "Le medecin chef de l'asile de Bouffon"

La mostra prosegue con una sezione dedicata alla scultura, la TERZA DIMENSIONE DEL MONDO, con spettacolari sculture art brut, con inediti di Gervasi e grandi manufatti di arte primitiva.
Infine, nel SOGNO RIVELA LA NATURA DELLE COSE, viene definito l'onirico come fantasma del Borderline con una selezione di dipinti di surrealisti come Dalì, Ernst, Masson, Brauner, oltre ad una nutrita presenza di lavori di Klee, estimatore dell'arte infantile e degli alienati.


Josh



martedì 4 giugno 2013

Il Gatsby di Luhrmann

 
 
 
Jay Gatsby è un personaggio che continua ad attrarre, se non altro perché riviviamo una crisi anche peggiore di quella del '29. Personalmente, però, sono contraria ai remake continui e sistematici.  Oltretutto rivelano una mancanza di fantasia. Ricordo che quella di cui parlo è la terza versione filmica.  Il minimo che si rischia è il raffronto non solo con l'opera narrativa, ma con le versioni filmiche precedenti. Mi ero ripromessa di tornare sull'argomento dopo il mio post "Fitzgerald, il jazz e il grande crac", all'uscita del Gatsby di Baz Luhrmann. Sapevamo già su questo blog, che saremmo rimasti delusi da un regista più vicino alle atmosfere circensi a lui così care già in Moulin Rouge, che alle atmsfere smart e ovattate di Fitzgerald. Ma la curiosità era tanta e alla fine ha vinto. Poi c'erano gli abiti dell'archivio di Prada, i gioielli veri di Tiffany, già prenotati nelle più prestigiose case d'asta:  orecchini di diamanti di taglio quadro, lunghe collane di perle rosa, grigie e bianche, diademi, fermagli-gioiello, anelli con splendide gemme... E le accattivanti interviste a Carey Mulligan nel ruolo di Daisy Buchanan.
 La quale dichiara che portare veri preziosi d'epoca, condiziona non poco anche la recitazione e aiuta a entrare meglio nel racconto e nel personaggio frivolo. Insomma, alla fine si cede e si va a vederlo non fosse altro che per avere il pretesto di criticare. Qui anche l'intervista di Miuccia Prada, la quale ha curato i costumi rinunciando a farli d'epoca ma reinterprentando alla sua maniera,  la moda di allora. Memorabile l'abito a lampadario con gocce di cristalli in crescendo (dalle più piccole alle più grandi). Tuttavia nel cinema l'abito non fa mai (o quasi mai) il monaco.
Il cinema non è una passerella di moda e se tutti ammirarono ad esempio, Kim Novak negli abiti di Edith Head, non è grazie a questi che il film "La donna che visse due volte" (Vertigo) di Hitchcock, viene ricordato a futura memoria, ma per la storia, il climax, l'enigma, le implicazioni psicologiche, la capacità di scatenare simbologie ed analogie, di saper parlare all'inconscio individuale e collettivo.
Ma qui nel Gatsby del III millennio, ce ne sono delle cose da far rilevare. Innazitutto lo scenario troppo ammassato e straripante durante le feste, più simili a un raduno di concerti rock, nelle foto aeree. Poi il baraccone rutilante di lustrini e paillettes, fuochi d'artificio, serre di orchidee e di gardenie palesemente finte, crea un senso di incolmato horror vacui. La casa di Gatsby sembra un castello di Disneyland. Di Caprio è un bravo attore, ma qui appare troppo ingessato in panciotti e bretelle, e non per colpa sua. 
 Soprattutto il regista non è riuscito a dargli quell'aura di mistero che fece Clayton con Robert Redford. Tutto viene troppo palesemente esibito e descritto con dovizia di particolari. La ridondanza diventa la cifra di Luhrmann, mentre la sottrazione e l'elusione erano quelle di Fitzgerald. E' vero che l'eleganza e le atmosfere soft e rallentate nel Gatsby di Clayton prodotto da Coppola hanno un po' sacrificato il mito dei "mad twenties", del progresso e della velocità. Ma è altresì vero che rifare la modernità alla maniera di Luhrmann dichiarando alla stampa che Scott Fitzgerald lo avrebbe apprezzato in quanto era un grande innovatore, significa fare della metastoria. E' inoltre una totale mancanza di umiltà e una forma di megalomania. Quasi un pretendere di rifare un Fitzgerald secondo  Luhrmann. Beh, non è il caso...
Inoltre usare gli effetti speciali per sopperire ad altre mancanze è il nuovo ritrovato del cinema nell'era dell'elettronica computerizzata. E l'effettaccio di interagire con rapide carrellate dai grattacieli fino alle gremite strade di New York quasi a sentirsi spiacciccati sul selciato, riescono solo a far venire le vertigini e a dare un senso di nausea allo spettatore stordito. "Non sorprende neppure che, nell'era dello spettacolo, nel cinema gli effetti speciali abbiano acquisito un protagonismo che relega temi, registi, sceneggiatura e perfino attori, in secondo piano" (Vargas Llosa ne "La civiltà dello spettacolo"). E "il bagno di immagini" qui diventa addirittura funambolico. Anche le corse estenuanti nell'auto gialla e cromata fanno venire il mal di mare.
Le licenze, le variazioni, e le varianti  sul tema inserite  di proposito da Luhrmann hanno creato un Nick Carraway che non si limita a fare il narratore esterno, il terz'occhio  discreto alla Marlow di Conrad per intenderci tanto caro a Scott Fitzgerald, ma diventa un amico appiccicoso e  intrusivo. Specie se poi a recitarlo è il troppo istrionico Toby Maguire con tutte le sue smorfie da "uomo ragno".
Carey Mulligan, bionda, diafana ed elegante non riesce però a far dimenticare del tutto Mia Farrow, vera flapper della gioventù dorata dell'epoca assai più di lei. E l'amore "a distanza", in forma sospesa e  allucinatoria  tra lei e Gatsby non è ben raffigurato, sul piano psicologico.
 
L’età d’oro del Jazz viene riempita di bombe di musica pop contemporanea: Jay-Z (che cura, produce e seleziona i brani presenti nella pellicola), Lana Del Rey e la sua Young & Beautiful usata in tutte le salse (strumentale, orchestrale, originale), Beyoncé e Andre 3000 con una cover di Back to Black, Florence + The Machine, The XX (forse i più adatti, nei titoli di coda) e Gotye. Una playlist a tema che però mal si lega al film stesso, risultando straniante e poco originale. Una vera e propria intrusione di contemporaneità che però, a mio avviso,  non ci azzecca. Non sorprende, pertanto, che i migliori momenti musicali siano quelli in cui l’immagine si accompagna alla partitura originale di Craig Armstrong, o alla meravigliosa Rapsodia in Blue di George Gershwin nella sequenza che introduce il personaggio di Gatsby.
Personalmente ho sentito tanto la mancanza del grande Bix e delle grandi orchestre Dixieland che suonavano negli scatenati Garden Party dell'epoca.
Manca inoltre  una vera "scrittura" filmica  mai sopperita dall'orgia di immagini. Ecco perché il finale con la didascalia del romanzo scritta sullo schermo a chiusura di film  (Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C'é sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia ... e una bella mattina...
Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato),
ci viene in soccorso quale unico baluardo di una cultura che va estinguendosi nel ritratto di un tempo (il nostro più  ancora di quello di Gatsby) destinato alla dissolvenza.