lunedì 28 febbraio 2011

In memoria di Marcello

"Quando camminerete sulla terra dopo aver volato, guarderete il cielo perchè là siete stati e là vorrete tornare" (Leonardo da Vinci).

Quando scrisse QUESTO articolo, legato al quadro di Paul Gauguin, D'où venons nous / Que sommes nous / Où allons nous (Da dove veniamo - Che cosa siamo - Dove andiamo), anche Marcello, per l'acuirsi di problemi di salute che lo attanagliavano da tempo, si era trovato in quel momento critico in cui ciascuno cerca risposte a quei grandi temi insoluti della vita; sentimenti che lui aveva garbatamente e velatamente manifestato in quel post nel quale fa l'indagine introspettiva dell'animo di Paul Gauguin, che nel periodo in cui dipingeva il quadro era in preda a profonda angoscia esistenziale. In quel post Marcello, toccando vette che ancora non gli conoscevo, mi si era rivelato dotato di estrema sensibilità, che esprimeva anche nelle sue vignette, se le si analizzavano a fondo. Vignette che spesso non capivo perchè a volte molto profonde, come questa, e allora, senza vergognarmene, gli chiedevo chiarimenti. Quello che alcuni dei suoi detrattori più incalliti non capivano era che quando Marcello si immedesimava in Sarcastycon, non era il semplice vignettista come se ne potrebbero trovare tanti altri in rete. E a questo punto mi sia consentito l'arrogarmi la paternità di Sarcastycon, alias Marcello, vignettista. Fui io, infatti, che dopo aver gustato delle sue prime vignette nel 2006, lo spinsi e lo stimolai a perseverare in quella strada, che aveva imboccato assai bene, e a volersi migliorare sempre più. Marcello conviveva da tempo con il pacemaker, che ultimamente ogni tanto gli faceva le bizze; e allora doveva andare in revisione, come lui soleva chiamare quelle assenze dal blog. Ma ultimamente, l'ausilio di tale supporto meccanico non gli era stato più di grande aiuto, e un cuore nuovo mi confidava che sarebbe stato più confacente al caso suo. Ma per questioni etiche e psicologiche si è sempre astenuto dall'idea di sottoporsi ad un trapianto. E così, nonostante un intervento di routine presso la Clinica San Raffaele di Milano - che peraltro in base a quanto mi comunicò l'amico comune Stealth il 3 febbraio, era andato tutto bene - tornato a casa, forse per il sopraggiungere di altre complicazioni, la sera di mercoledì scorso ci ha lasciati, spegnendosi nella sua abitazione, davanti al computer, forse intento a leggere i nostri post con i relativi commenti.

Ho di lui tanti ricordi, ma per quanto io vivrò ce ne sarà uno che mi riporterà a lui più di ogni altro. Negli stessi giorni di gennaio in cui si era aggravato, venendo ricoverato nell'ospedale della sua città, a 300 km di distanza anche mio padre veniva ricoverato quasi in fin di vita. Data l'età e le sue condizioni generali apparse subito molto critiche, noi familiari c'eravamo già preparati al peggio. Pochi giorni fa, invece, nel giorno del suo compleanno i medici, coadiuvati da eccellenti fisioterapisti, han provato a rimetterlo in piedi, e lui, autonomamente, è riuscito a mantenersi diritto per alcuni secondi. Qualcuno dei presenti ha così subito sussurrato al "miracolo", andando anche a vedere chi fosse il santo del giorno: San Pier Damiani. Di tale santo, e Dottore della Chiesa, tempo addietro avevo scritto un tratto della sua agiografia in questo breve saggio, unendolo ai versi di Dante che lo aveva cantato nel Paradiso.

San Pier Damiani, una figura che sarebbe anche molto adatta ai nostri tempi - eremita, monaco, cardinale di movimento: innamorato di Cristo e della Chiesa - era nemico degli sprechi e degli sperperi che avvenivano nella Chiesa del suo tempo, affermando che quelle risorse potevano invece essere indirizzate più utilmente per alleviare le sofferenze dei poveri.
En passant, vorrei quindi ricordare i tre punti salienti della sua agiografia, riassunti poeticamente da Dante nel XXI Canto del Paradiso, dal verso 106 e seguenti.

- Era un momento particolarmente difficile per la Chiesa. Erano frequenti casi di simonia e gomorria nell'ambito ecclesiastico. Su questi due argomenti san Pier Damiani scrisse il Liber gratissimus (contro la simonia) e il Liber gomorrhianus. Nel 1057 Stefano IX, anche lui monaco e divenuto papa per forza, lo creò cardinale vescovo di Ostia. Seguì due linee guida poste al centro della sua attività apostolica: "il ritorno alla tradizione intesa come metro su cui la Chiesa deve continuamente misurarsi e il riferimento alla sede apostolica in funzione di guida di verità, perchè munita del sigillo della vicaria di Cristo". "Fu lui il principale ispiratore del famoso decreto del 1059 con cui Niccolò II stabilì che l'elezione papale fosse fatta dai soli cardinali".

- Iniziò ad essere il cardinale di movimento. Inviato a Milano, con un soluzione geniale pose fine allo sciopero liturgico che era scoppiato nel 1059 perchè "quasi tutti i chierici erano stati ordinati simoniacamente". Compì poi missioni in Francia, dove risolse diatribe al limite del possibile. Fu due volte a Montecassino, e a Firenze dove fu chiamato per risolvere il caso del vescovo Pietro accusato di simonia. Già vecchio e malato, nel 1069 si recò in Germania davanti all'imperatore Enrico IV e ne impedì il divorzio.


- "Difese la libertà di parola nella Chiesa, il dovere di reciproca correzione fra i suoi membri fino all'ultimo laico". "Diede grande importanza all'aspetto socioeconomico, affermando che i beni della terra appartengono a tutti e che le ricchezze della Chiesa spettano per diritto ai poveri". "Ricordava ai monaci che, se nel comprare un vestito spendono troppo, hanno rubato, perchè si sarebbe potuto aiutare un povero".

Tra' due liti d'Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto, ché troni assai sonan più bassi,

e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria"

Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continuando, disse: "Quivi
al servigio di Dio mi fei sì fermo,

che pur con cibi di liquor d'ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne' pensier contemplativi.

Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.

In quel loco fu' io Pietro Damiano (...)

A parte la divagazione di carattere strettamente personale, legata a quanto accaduto a mio padre, penso che San Pier Damiani piacesse a Marcello, con il quale, quando si dovessero incontrare in Paradiso, s'instaurerà tra loro una forte amicizia. C'è infatti una frase nel commentario del post La provincia Terra di Lavoro, che mi fa supporre tutto questo. Dice Marcello: "la mia è una considerazione personale, se vado per ascoltare una messa, di cui praticamente conosco tutta la liturgia, in una chiesa, come quelle di cui stiamo parlando, mi distraggo per ammirare i capolavori esposti. Ci sono chiese con dei soffitti incredibilmente belli che, più li guardi e più scopri particolari che, in antecedenza, non avevi notato, dicasi ugualmente per quadri e statue.Tutto questo non agevola certamente la concentrazione sul rito che si sta officiando".

Detto questo, come appare anche da questo articolo pubblicato sulla rivista on-line dell'ANTIUAAR, di cui faceva parte, Marcello aveva particolare preferenza per le messe officiate in latino.

In tema di grandi dilemmi, tra gli animi più dediti all'introspezione nasce talvolta il desiderio di cercare una qualche prova scientifica dell'esistenza di Dio, ciò che era avvenuto in me e Marcello, e con lui avevamo così quasi deciso di addentrarci in tale ricerca. La prima idea l'ebbe lui quando pubblicò il post Entanglement (cliccare per leggere), presente nel suo Zibaldino. Un articolato post dalla complicata assimilazione, che però andrebbe letto per farsi l'esatta idea di chi fosse realmente Marcello: persona dedita continuamente a profonde meditazioni, che poi esternava anche nelle mordaci vignette a firma Sarcastycon. Un mio fugace tentativo è invece riscontrabile nel post Possibile prova scientifica dell'esistenza di Dio,

dove il bagliore luminoso provocato dal corpo di Cristo nel quadro di Tiziano Vecellio, conservato nella chiesa San Salvador di Venezia, sembra quasi voler anticipare e quasi prevaricare di 4 secoli la nota legge di Einstein, la cui mirabile sintesi è racchiusa nella famosa formula E=mc2 .
Sembra infatti che Tiziano in tale quadro abbia voluto inconsciamente crearsi la propria prova scientifica dell'esistenza di Dio: la massa corporea di Cristo che si trasforma in bagliore, quasi in virtù della celeberrima formula.

La dipartita in così giovane età di Marcello (70 anni, appena compiuti alla fine di gennaio, non erano poi così tanti) ha bloccato per sempre tale progetto, perchè desistemmo; forse anche a seguito di un commento di Josh, che ci aveva in certo qual modo dissuasi dal proseguire.

Postilla conclusiva.

Mia figlia, a conoscenza della grande amicizia tra me e Marcello nata sul filo di internet, insiste pressantemente affinchè trasformi in libro tale storia, promettendo di darmi una mano. Non prometto nulla, e ci penserò.

link utili: per accedere all'indice della sua saggistica, cliccare qui / a proposito del suo agnosticismo, leggere qua / a proposito della sua posizione in merito, leggere qua / per accedere a qualche suo spunto filosofico, cliccare qui / A proposito del suo agnosticismo cliccare qui

In alto: Marcello - Foto gentilmente offertami dalla famiglia

Seconda foto dal basso: Eremo di Gamogna - Appennino Romagnolo

lunedì 21 febbraio 2011

L’ORIGINE DEL CARNEVALE


Carnevale, festa dell’eccesso, è considerato tradizionalmente il momento privilegiato dell’anno in cui vengono abolite le regole consuetudinarie e ogni smodatezza permessa; tutti i ruoli sono capovolti e qualunque inversione accettata; è consentita ogni beffa e ogni bizzarria e ammessa qualsivoglia forma di baldoria: come dire l’avvento della sfrenatezza assoluta, durante il quale l’uomo può dare sfogo a tutti gli istinti repressi e mortificati nel resto dell’anno dalle convenzioni sociali.


Questi caratteri inducono a ritenere che il carnevale rappresenti una festa di liberazione delle inibizioni, una sorta di disordine permesso dalle istituzioni affinché gli umori anti istituzionali e sovvertitori possano catarticamente consumarsi in modo da consentire, dopo, la riaffermazione e il ristabilimento dell’ordine costituito. Ma tale funzione, attribuita oggi al carnevale e impostasi dopo un lungo processo dovuto all’azione censoria e moralizzatrice della Chiesa da una parte, a quella desacralizzante del sociologismo scientista dei nostri tempi dall’altra, appare riduttiva e fuorviante rispetto al significato originale della festività, al suo valore antropologico e alla ricchissima simbologia mitologica che essa esprime. Osteggiata in passato dalla Chiesa, che la considerava un’occasione di deplorevoli comportamenti sregolati e orgiastici da cui il popolo di Dio doveva guardarsi, il carnevale è in realtà una celebrazione che trova la propria origine e la propria funzione in quella religiosità cosmica o archetipica che induce l’uomo a rinnovare ciclicamente il senso del suo essere nel mondo, riaffermando l’ordine superiore del cosmo e il suo diritto di farne parte, in quanto artefice di quello stesso ordine per mezzo dei propri antenati capostipiti, quei primi uomini, ormai avvolti nell’aura del mito o della divinità, che introdussero l’ordine e la misura nel mondo in sostituzione del caos primigenio e crearono le condizioni per l’esistenza stessa degli uomini e delle loro comunità. Forse c’è un influsso della Chiesa nel nome stesso del carnevale, se è vero che esso deriva dall’abbreviazione di carnes levare, dalla lettura di una sequenza, ad levanda carnes (“a sospendere l’uso alimentare della carne”) che si pronunciava nella messa della domenica precedente la Quaresima. A conferma di questa interpretazione ci sarebbero i termini equivalenti usati in Sicilia (Carnilivari) e nell’antico toscano (Carnasciale, da “carne lasciare”). Più rispondente al significato originario sembrerebbe invece il termine Fasnacht, usato nei paesi sassoni per indicare la notte fra il martedì grasso e le Ceneri, che meglio attesta il tripudio orgiastico carnevalesco poiché deriva da un verbo, faseln, che significa vaneggiare, delirare o impazzire.
Un’altra possibile origine del nome possiamo trovarla nella lontana civiltà babilonese, dove risiede uno dei modelli di riferimento più antico del carnevale. A Babilonia la festa celebrava il passaggio dal vecchio al nuovo anno, il cui avvento corrispondeva all’equinozio di primavera. Il momento culminante di quella celebrazione era rappresentato dall’attraversamento della città da parte di una nave munita di ruote, il car naval (da cui, dunque, carnevale) su cui troneggiavano i simulacri del sole e della luna. Scortato dal popolo festante, il battello montato su ruote approdava al santuario del dio Marduk, colui che, dopo essere sceso agli inferi, risorgeva vincendo il caos e riportava l’ordine nell’universo. Il percorso del car naval raffigurava simbolicamente il viaggio degli astri dal vecchio al nuovo anno e alludeva al passaggio dall’oscurità e dalla confusione prodotte nel cosmo dal declinare del tempo trascorso alla ri-creazione e alla luminosità del tempo rinnovato. Durante il viaggio l’anno morente – e con esso l’ordine del cosmo – si dissolveva nel nulla, causando la regressione al caos primordiale in cui si determinavano l’inversione naturale, per cui l’uomo si tramutava in animale, in donna o in fanciullo e viceversa; l’inversione sociale, che consentiva ai servi di diventare padroni; e l’inversione temporale, dove i defunti, evocati dai viventi indossando una maschera, potevano tornare in vita per “sfrenarsi” come al tempo della loro esistenza e della loro giovinezza. Incontriamo riuniti qui, in sostanza, gli elementi fondamentali del carnevale, gli stessi che ritroviamo, in forme più o meno simili, nei Saturnalia romani, durante i quali gli schiavi diventavano padroni e ogni licenza era permessa, ma soprattutto (quale probabile conferma dell’origine del nome della festa) nei riti celebrati in Grecia in onore di Dioniso e in Egitto in onore di Iside, contrassegnati da cortei di carri a forma di nave, quegli stessi carri, d’altronde, che si sono tramandati nel corso dei secoli fino ai giorni nostri, come testimoniano la presenza di carri mascherati in molti carnevali del nostro paese, da Ivrea a Cento a Viareggio.



Ma accennando al ritorno in vita dei defunti abbiamo introdotto uno degli elementi principali del carnevale, quello che gli conferisce il suo carattere più appariscente e che testimonia una volta di più l’arcaica sacralità delle sue origini. Si tratta dell’usanza di indossare la maschera, un’usanza che tutti gli studiosi di antropologia culturale hanno indicato come il mezzo adottato dalle popolazioni primitive per comunicare con l’Aldilà. Nelle società arcaiche la maschera rappresenta invariabilmente un antenato che è, al tempo stesso, un essere mitico, un fondatore della dinastia degli uomini che ha contribuito assieme agli dei a stabilire le regole dell’esistenza. E saranno per l’appunto questi antenati, riportati in superficie grazie alle maschere proprio nel momento in cui l’umanità è regredita al caos primigenio a causa del tempo morente, a prestare ai vivi l’energia vitale sovrumana che ha già permesso loro di costituire l’ordine naturale e sociale nei tempi mitici, per rifondare e ricostituire il tempo nuovo e rigenerare la vitalità stessa degli uomini, a sua volta logorata e deteriorata dal tempo trascorso. Naturalmente per i viventi c’è un pericolo nell’evocare i defunti, la cui presenza sulla terra deve durare quel tanto che basti a riportare alla luce la forza del mondo di sotto, quella forza che, tra l’altro – ricordiamolo – permette alle piante di spuntare dal seme e ai primi germogli di schiudersi, segnando quindi l’avvio di un nuovo ciclo vitale della natura. Già l’invenzione della maschera, se serve a materializzare simbolicamente quell’altro dal quale l’uomo deve attingere l’energia per rinnovarsi, consentendogli di identificarsi con lui e di ridurlo alla propria portata,vale anche a tenerlo a bada, a mantenerlo separato da sé. Sovrapponendo l’effigie dell’altro al proprio volto si possiede la sua forza, ma al tempo stesso se ne resterà posseduti, correndo il rischio di non riuscire più a controllarla. Per questo occorre una cesura definitiva tra il caos momentaneo carnascialesco e il ritorno all’ordine abituale dell’esistenza, un’interruzione drammatica e propiziatoria che si configura nell’offerta di un essere vivente, col quale le anime dei trapassati, placate, facciano ritorno docilmente al mondo di sotto. La gioia sfrenata e orgiastica del carnevale trova così la sua stridente conclusione nella messa a morte di un capro espiatorio, quella messa a morte che oggi viene rappresentata simbolicamente (ma originariamente il sacrificato era senza dubbio un uomo in carne ed ossa) col bruciamento, o con la lacerazione e l’annegamento, di un fantoccio battezzato Martedì Grasso o Re del Carnevale.

Nell'ordine: "La Sartiglia" di Oristano; carnevale a Venezia; carnevale "Bagoss" a Bagolino; "femminielli" della Zeza a Avellino; carro mascherato a Cento; "mamuthones" di Mamoiada; carnevale del Diavolo a Tufara.

Miriam

lunedì 14 febbraio 2011

Hieronymus Bosch, pittore religioso





















Delle svariate interpretazioni che hanno visto via via nella pittura di Hieronymus Bosch il prodotto d’uno stravagante inventore di mostri e chimere, il frutto di meravigliose e singolari fantasie più ripugnanti che piacevoli, il riflesso di pratiche esoteriche ispirate da movimenti eretici dediti all’alchimia e alla stregoneria o, in tempi più recenti, la raffigurazione delle forme più inquietanti partorite dalla profondità dell’inconscio, facendo quindi del grande pittore fiammingo una sorta di anacronistico adepto del Surrealismo o addirittura delle teorie psicoanalitiche di Freud, aveva già fatto giustizia, se andiamo a vedere, il sacerdote spagnolo Fray Josè de Siguença, il quale, nel 1605, affermava che se gli altri pittori effigiavano l’uomo come è eternamente, Bosch aveva avuto l’audacia di dipingerlo come è internamente; portando alla luce, bisogna aggiungere, il groviglio di male e di bene che è nell’uomo per sublimarlo in altissima poesia e realizzare una delle visioni più affascinanti della pittura europea.





La mentalità di Bosch era quella comune agli uomini del suo tempo, quell’autunno del Medioevo in cui il terrore dell’Apocalisse era ancora presente e vivo nelle coscienze, e il suo universo catastrofico e convulso si alimenta interamente delle ansie e delle angosce di quell’epoca. Lo sgomento della fine del mondo e del Giudizio Divino si rispecchia nella proliferante selva di ossessioni e simbologie mistiche e infernali, coi suoi risvolti di orrore per il peccato e di anelito all’ascesi, che appare nel cosmo urlato e straziato del pittore, in cui l’ordine delle cose è scardinato e sconvolto e dove si assiste ad orrende metamorfosi e ad oscene congiunzioni. La flora e la fauna, antropomorfizzate e talvolta metalizzate, ridotte comunque a forme aliene e inquietanti, braccano un’umanità spaventata e derelitta, quando non sono gli stessi diavoli ad afferrarla e punirla mentre è dedita al sollazzo più turpe o ad ogni genere di violenza, e intanto nei cieli sulfurei non volano gli uccelli ma nuotano pesci feroci e navigano imbarcazioni minacciose.



Noi moderni abbiamo dimenticato il linguaggio fantastico e simbolico del passato, per questo non riusciamo a comprendere facilmente il mondo di Hieronymus Bosch, al punto che taluni, in tempi recentissimi, si sono spinti perfino a ritenerlo il frutto d’una condizione allucinatoria dovuta all’assunzione di stupefacenti, forse perché la povertà d’immaginazione contemporanea riesce a concepire la fantasia solo associandola a quello scardinamento della mente e dei sensi corrispondente al cosiddetto stato di trance prodotto dalla droga. Invece quel mondo era facilmente accessibile ai contemporanei del pittore perché al suo tempo la realtà era tutta leggibile per simboli ed immagini spesso iperboliche; ed era una realtà nutrita d’un sentimento religioso fortissimo e quasi violento, dove il senso della lotta implacabile tra bene e male, tra Dio e Satana si rifletteva nel contrasto irriducibile tra la forte sensualità e il misticismo intransigente dei fiamminghi. In quel tempo predicatori visionari rappresentavano i peccati con l’immagine di bestie dotate di orribili organi genitali, da cui scaturivano torrenti di zolfo e di fuoco; i religiosi conducevano una lotta spietata contro le pratiche magiche ed esoteriche (cosa che, per inciso, azzera ogni possibilità di un Bosch dedito alla stregoneria, poiché i suoi committenti erano sempre membri del clero o di consorterie religiose, a una delle quali, peraltro, apparteneva lui stesso); cantastorie e canovacci usati dai saltimbanchi che si esibivano davanti alle folle dimostravano un gusto particolare per il grottesco e il mostruoso: si immaginavano capre e asini capaci di cantare, lupi intenti a suonare il flauto, uccelli volar via dalla bocca di draghi e uomini vomitati dal ventre della balena com’era accaduto a Giona ai tempi della Bibbia: le stesse immagini partorite dalla fantasia di Bosch, insomma, solo che lui era capace di tradurre tutto in grande pittura, d’una finezza cromatica e d’una ricchezza e concretezza formale che conferisce a quelle fantasie, allora come oggi, una verità stupenda che, se impressiona e allarma, seduce anche, e incanta sovente.

D’altronde non mancava al Bosch una capacità d’osservazione puntuale e in certo modo realistica dell’umanità che poteva osservare quotidianamente nelle folle di storpi e mendicanti che si aggiravano ovunque, e di trovar spunto per rappresentarla nelle loro fisionomie che apparivano spesso grottesche e ripugnanti già solo per le bocche precocemente sdentate, poiché all’epoca l’arte dentaria non aveva nemmeno avviato i primi passi. Lo constatiamo, ad esempio, nella tavola del Cristo porta croce, un insieme di facce in primo piano vociferanti e quasi imbestiate, atteggiate in smorfie e ghigni crudeli, e dove solo il Cristo e la Veronica che gli ha appena asciugato il volto rimasto impresso nel telo conservano fattezze umane e dolenti.

Intendiamoci, questo mondo così stravolto e per nulla rassicurante non è privo, se si esamina non superficialmente la vulcanica produzione bosciana, d’un pizzico d’ironia o di sarcasmo, perché all’occhio attento non può sfuggire, nella sua opera, la dilettazione nel dar corpo a un universo fantasmagorico e sorprendente, il piacere di confezionare una pittura con estrema sapienza e perizia, e la ilare vivacità di spirito d’un artefice che, mentre ammonisce i suoi simili a temere il giudizio dell’Altissimo, non disdegna di sciorinare davanti ai loro occhi, col gesto sornione del prestidigitatore, i frutti multicolori del suo ingegno e di abbagliarli con la magia della sua prodigiosa fantasia. Basta guardare, per capirlo, i grandi trittici bosciani che il tempo ci ha restituiti intatti (perché si sa che, purtroppo, buona parte della produzione di questo artista è andata distrutta o perduta), primo fra tutti quel Giardino delle delizie che, volendo raffigurare e stigmatizzare la lussuria, appare come una vera e propria festa di colori e di immagini dove lo sguardo si smarrisce sbalordito e ammaliato, e dove, soprattutto nel pannello centrale, si respira, sì, un’atmosfera erotica e un senso di diffusa sensualità, popolato com’è da un’infinità di nudi maschili e femminili, ma così algidi e goticizzati da renderli del tutto asessuati e che, atteggiati nelle pose più svariate alludenti all’atto sessuale (come quando insieme mordono fragole enormi o si circondano di ciliege, simboli del piacere carnale, mentre sono osservati da pettirossi che rappresentano la lascivia e da civette che rimandano al peccato di concupiscenza) appaiono depurati da ogni sospetto di morbosità. Il pannello laterale di sinistra rappresenta uno scorcio del Giardino dell’Eden con Adamo ed Eva accanto al Creatore in atteggiamento benigno, mentre già gli animali in primo piano sono dediti alla violenza e il paesaggio minaccioso alle loro spalle cinto da montagne innaturali, e quella strana pianta-fontana a mezza strada tra un rettile e un corallo dentro cui si annida ancora la civetta, alludono chiaramente alla prossima cacciata. Nel pannello posto a destra, invece, si respira ormai l’aria fetida e cupa dell’inferno, coi soffi incandescenti d’un incendio e la rappresentazione dei vari supplizi a cui espone la libidine sfrenata, come l’esser posseduti da un maiale o sbranati dai cani, mentre su tutto domina la misteriosa figura dell’uomo albero col simbolo fallico della zampogna sul capo e nel ventre tondo che allude forse all’eresia dell’uovo primordiale, da cui saremmo scaturiti noi umani ai primordi del tempo, alberga una bettola su cui si arrampica un individuo col sedere trafitto da una freccia.

Impossibile inseguire la sterminata inventiva bosciana se non per dire ancora che, sia nelle opere di grandi dimensioni, sia nelle tavole di medie e piccole proporzioni, la bellezza cromatica e la felicità dell’impaginazione delle scene che consente sempre, anche dove l’impianto appaia monumentale, la minuta lettura d’ogni dettaglio, raggiunge spesso vette di virtuosismo pittorico che eguaglia, se non supera, la sfrenata carica immaginativa dell’artista. Forse dal punto di vista del valore puramente pittorico il primo posto spetta, tra tutti gli altri, al trittico dell’Epifania, che rapisce soprattutto per la bellezza dei particolari, come l’abito prezioso di Melchiorre con gli acanti spinosi che ne ornano il colletto e la spalla, il mantello riccamente ornato del secondo re con fregi che rappresentano episodi della Bibbia, i doni dei tre magi preziosamente cesellati e la calma solennità del biondo paesaggio con una tenue città sullo sfondo, irta di torri fantastiche. A prima vista, una scena tranquilla e quasi idilliaca, ma, anche qui, a rammentarci che la salvezza dell’anima è ardua da conseguire e che neppure la venuta del Salvatore è bastata a redimere l’uomo dalla durezza del cuore e dall’inclinazione alla violenza e al peccato, il limpido paesaggio appare percorso da eserciti in marcia verso la guerra e la scena della natività, così familiarmente serena, è guastata dalla presenza di pastori dall’aria losca e maligna che osservano l’adorazione dei magi con sfrontatezza e sospetto, mentre dalla porta della vecchia capanna fa capolino un bizzarro personaggio seminudo carico di oreficeria e di sinistri ninnoli barbarici, chiaro simbolo d’un paganesimo che sarà duro da debellare.










Dionisio

lunedì 7 febbraio 2011

Aldilà, Nekyia, Inferno


Nella storia della letteratura s'incontrano spesso figurazioni dell'aldilà, oltretomba, o dell'Inferno (concetti tra loro distinti), adoperate come pretesto narrativo. L'idea che se ne ricava non è unitaria, presenta svariate connotazioni e stratificazioni culturali. 
Nella letteratura occidentale si trova un aldilà cristiano, un aldilà pagano d'origine tradizionale-mediterranea, uno greco-romano, ma molto spesso una fusione tra più concezioni, altre volte contaminazione con altre idee, dallo Sheol ebraico all'Ade, da un'idea di Inferno non come luogo di pena ma semplicemente come dimora dei morti, a un'idea di Inferno di pene astratto o fisico. 
Differenze ci sono anche nella stessa mistica cristiana in diverse epoche.
"Inferno" è dal lat. "infernus", "posto in basso", "inferiore", sinonimo di "inferus". Col termine "inferno" ci si riferisce di solito solo alle 3 rel. monoteiste, invece "inferi" si riferisce a tutte le altre culture pagane antiche e moderne. Nel mondo greco-romano non compare l"Inferno", ma "Inferi"a indicare il sotterraneo "regno dei morti", il cui re era il dio Ade/Plutone o Dite/Proserpina, da cui il nome Ade, intesa come regno degli inferi, con il nome del dio esteso anche al luogo. Il regno dei morti greco-latino era un luogo fisico, raggiungibile seppur vago e immaginifico, dove soggiornavano ombre, senza divisioni morali di meriti. Sarà Virgilio nell'Eneide che inventerà una topografia infernale complessa, dividendo gli Inferi tra Tartaro e Campi Elisi, in cui è presente una divisione morale tra le ombre; Virgilio inventa anche la 'Città di Dite', presa a prestito da Dante per la Commedia.


(William Blake, tavola per l'Inferno di Dante)

Nell'Ebraismo originario l'Inferno rispetto ad altre culture assume nuove connotazioni. Il principio del male, Satana, angelo caduto, non è un dio (come invece in altre culture), ma in quanto angelo una figura inferiore a Dio e da Lui emanata che tradisce, più potente dell'uomo, e viene nominato anche con gli appellativi di culture vicine, quasi per sottolinearne l'alterità e la pericolosità: Belzebù (figura fenicia), e Hinnom (la Gehenna) diviene il nome dell'Inferno al posto di Sheol (il luogo dei morti sottoterra). Hinnom era in origine il luogo d'adorazione pagana di Moloch, raffigurato in bronzo, sotto cui s'apriva una fornace dove venivano mandati ad ardere giovani per sacrifici umani.
Nel NT il testo greco originale distingue tra Ades (intesa come tomba) e Gehenna (come fuoco, come valle di Hinnom), ma non sempre nelle traduzioni è rispettata la differenza lessicale-concettuale. Numerosi comunque i passi nei Vangeli in cui Gesù in persona parla di Inferno, direttamente o servendosi di metafore in fondo molto chiare ('dove sarà pianto e stridore di denti', 'nel fuoco eterno') anche se la parola precisa, in sè, non compare nella Bibbia.
Per la teologia e la mistica cristiana, dopo un primo periodo in cui l'esegesi non era distaccata in toto da culture eterogenee, anche la teologia cattolica (come in seguito quella ortodossa e in parte protestante) interpreta l'Inferno come un luogo-non luogo più metafisico che fisico, comunque molto reale, di lontananza da Dio e pena, fiamma eterna (tranne l'eresia modernista trasversale che ha messo in dubbio tutti gli articoli di fede storici) dal momento che il testo sacro chiarisce molto bene cosa intende, ma non ne dà una descrizione precisa.

Per il viaggio infernale in letteratura, non si potrà prescindere da Dante, che ha informato di sè gran parte dell'immaginario collettivo non solo italiano, e già qui i temi non sono adatti ad un breve post, si tratterà quindi solo di osservazioni fugaci. L'Inferno di Dante è cristiano? Dipende che valore diamo alle parole. In un certo senso, no affatto.
Per Dante il mondo fisico era diviso in 2 emisferi, uno formato da terre emerse, l'altro coperto dalle acque. Dante mutua queste idee dalle conoscenze incomplete del suo tempo, ma non dalla Bibbia, in cui non si fa cenno a nulla del genere: il testo biblico non dà indicazioni cosmologiche se non sulla non misurabilità dell'Universo, ma non dice affatto che la terra fosse al centro del sistema solare -questa era invece idea tolemaica abbracciata da Dante-, nè che fosse piatta, o immersa in acque esterne, ma l'unica cosa biblica affermata a riguardo è risultata anche scientificamente esatta: 
in Isaia 40:22 si afferma "Egli(Dio) è Colui che è assiso sul globo della Terra" col termine chug (globo, sfera)...e ci sono altri passi biblici in cui veniva messa in evidenza la sfericità del pianeta.


(raffigurazione dell'Inferno dantesco)
Tornando a Dante, la conformazione infernale della Commedia è dovuta a suo avviso alla ribellione di Lucifero, al suo essere precipitato sulla terra dal Paradiso, che per Dante era un luogo fisico oltre il sistema di rotazione geocentrico. Nel punto in cui cadde Lucifero, il terreno si sarebbe ritratto per contatto con il demonio, creando così l'enorme imbuto dell'Inferno (dantesco). La porzione di terra ritratta, riemerse nell'emisfero delle acque agli antipodi e formò la Montagna del Purgatorio che si erge dal mare nell'emisfero opposto. Lucifero è per Dante quindi conficcato al centro della Terra, nel punto più lontano da Dio, immerso nel lago sotterraneo Cocito, perennemente ghiacciato a causa del vento freddo prodotto dal continuo movimento delle sue sei ali.
Nella Bibbia gli unici punti solo in parte in comune con la visione dantesca sono in Apocalisse, la figura del Dragone incatenato per i 1000 anni dall'Arcangelo Michele, e la caduta degli angeli ribelli in Ezechiele, molto differenti comunque dalla Commedia.
Sempre nella Commedia, innumerevoli invece sono i demoni o i mostri indicati da Dante: alcuni di sua invenzione, altri da fonti mitologiche per lo più greco-romane. Minosse, il Minotauro, Caronte tristo nocchiero, i Centauri, le Arpie, le Furie, Cerbero...in questo Dante si rivela poeta prettamente medievale. Indubbiamente parte dell'esegetica fino alla Scolastica di San Bonaventura, San Tommaso d'Aquino, Alberto Magno e molti padri precedenti hanno rielaborato alcune figurazioni classiche in chiave simbolica. Altre fonti dantesche però sono anche i racconti trobadorici, la Chanson de Geste.
In questa ottica la Commedia va situata come il culmine della tradizione medioevale, come l'esito letterario più alto dell'epoca, ma anche come la sua fine. Ma quando Dante compone la Commedia ha alle spalle una lunga tradizione di Viaggi agli Inferi, con la comune origine del pretesto narrativo della Nekyia, già in Omero e Virgilio. Sarebbe il caso di cominciare a considerare la Commedia come un incontro di codici molto differenti, e non solo come 'poema cristiano' come talvolta viene fatto, perchè in senso strettamente teologico non lo è, o per lo meno non solo, quanto invece aspira ad essere una Summa enciclopedica, questo sì anelito medievale al centone d'arte, riassuntivo di tutta la cultura del tempo.

(Gustave Dorè, incisione)


Nekyia, dal greco νέκυια, (da νέκυς, arc. di νεκρός «morto») era presso i Greci antichi il rito (necromatico appunto) con cui si evocavano i morti a scopo divinatorio.
Nel XI canto dell'Odissea, Ulisse racconta di aver raggiunto l'Ade per interrogare l'indovino Tiresia e conoscere la propria sorte: i morti sono presentati come ombre mute che per parlare, quindi per riacquistare una parvenza di vita, devono abbeverarsi con il sangue. Ulisse allora compie un sacrificio rituale, raccoglie il sangue delle vittime, e mentre le ombre assetate gli si fanno intorno come vampiri, si difende con la spada; terrà gli spiriti lontani durante l'incontro con un compagno morto, poi quando interrogherà l'ombra di Tiresia, infine quando parlerà con la propria madre; solo a questo punto concederà agli altri morti di bere il sangue e dunque di raccontare la loro storia.
Nel Libro VI dell'Eneide Virgilio segue in buona parte la narrazione di Omero: anche Enea incontra nell'aldilà un compagno morto, si difende con la spada (ma dai mostri infernali, non da anime assetate), cerca inutilmente come Ulisse di abbracciare un'ombra. Con la sua descrizione degli inferi, l'Averno, Virgilio si colloca idealmente sulla linea di congiunzione tra paganesimo greco-romano e cattolicesimo; Virgilio fa propria la credenza della reincarnazione in qualche modo, e tuttavia associa all'aldilà il sogno, elemento decisivo per la successiva tradizione medievale: il vestibolo dell'Averno è ombreggiato dall'Olmo dei sogni vani, e Enea, compiuto il suo viaggio, lascia l'oltretomba passando per la Porta d'Avorio dei sogni.
Già nei primi secoli del medioevo si diffondono i resoconti di viaggi nell'aldilà in forma di Somnium, i sogni, o di visione, che alla lunga seguono uno schema fisso: il protagonista ha un malore o una febbre alta, resta per ore in uno stato di morte apparente e nel frattempo compie il viaggio nell'aldilà, per poi ritornare tra noi e raccontare. Spettatore più che attore, non scambia parole con le anime dei morti, che sono per lo più figure esemplari o tipi. Questo tipo di narrazione diventa un'abitudine letteraria, e nelle volgarizzazioni viene purtroppo facilmente accostata al racconto di San Paolo asceso al terzo cielo, o all'Apocalisse di Giovanni, o alle visioni di Daniele. 
Nel Trecento, quando il brevissimo versetto del "quasi per ignem" paolino di 1 Cor. 3:15 ha già generato nell'immaginazione occidentale la tripartizione geografica dell'aldilà, Dante, sulla scorta della tradizione ma anche della patristica non può che sancire la nascita del Purgatorio, luogo intermedio tra dannazione e beatitudine, più che non renderlo come ipotetico luogo intermedio metaforico e 'a tempo'. 
Dell'aldilà classico greco-romano ancora in Dante rimangono atmosfera e mostri, di quello medievale rimangono la suddivisione delle pene in base ai peccati, dei premi in base alle virtù, con le contaminazioni pagane più varie.
Altro influsso nella Commedia e della letteratura medievale è il Somnium Scipionis, brano del "De Re Publica" di Cicerone del 54 a.C. dalla forte valenza morale e immaginifica insieme: in questa parte dell'opera si tratta dell'immortalità dell'anima, del premio ultraterreno destinato ai grandi uomini, a una visione mistica-filosofica dell'aldilà secondo i valori romani. 
Ebbe enorme risonanza in tutto il medioevo. Il contenuto è organizzato come racconto di Scipione Emiliano cui appare in sogno il nonno Scipione Africano, predicendo il futuro, testimoniando una visione di sfere celesti, immortalità dell'anima.
Per il resto, se la Commedia si allontana da testi precedenti in alcuni ambiti, il Purgatorio, come l'oltretomba tradizionale greco romano, è ritmato dai 7 peccati capitali, l'Inferno è tripartito. Nei primi 6 cerchi ci sono gli incontinenti, nel 7° i violenti, nell'8°e 9° quei della frode. Per chi insiste sull'origine solo cristiana dell'aldilà dantesco, vanno opposte alcune prove. 
Non c'è nessuna figurazione composta 'a gironi' dell'aldilà cristiano. 
Inoltre la tripartizione dell'Inferno dantesco risale da una parte all'Etica Nicomachea di Aristotele, dall'altra al "De Officiis" di Cicerone, mediato secondo la concezione del diritto e del dovere attraverso il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano
la struttura dell'Inferno dantesco dunque non deriva come comunemente inteso dal dettato ebraico o cristiano, ma in gran parte è suggerito dalla filosofia greca, dal diritto romano, da teorie medievali 'ecumeniche'. 
Continui infatti sono gli echi dei viaggi nell'oltretomba pagano, quello dell'Odissea, conosciuta da Dante indirettamente solo attraverso vulgata latina, e dell'Eneide, di gran lunga tra i testi più presenti in filigrana nella Commedia; vanno aggiunti gli influssi da Apuleio, dalle Argonautiche di Apollonio Rodio con il tema del viaggio, del viaggio iniziatico, della trasformazione di sè e dell'anima, da Plotino e di culti pagani misterici quanto di percorsi gnostici veri e propri.
Ulisse protagonista in Dante nel canto XXVI dell'Inferno, è un doppio di Dante, il viaggiatore che ha tentato di raggiungere l'aldilà senza essere assistito dalla Grazia; Virgilio è la guida attraverso i primi 2 regni dell'oltretomba dantesco, poeta pagano, ma visto nel medioevo come fuso con il cristiano. La fede medievale in un unico Dio separa Dante dai predecessori politeisti pagani, pur usando lui tutto il loro bagaglio di temi in una sorta di grande centone enciclopedico delle credenze d'allora, e garantisce ovviamente il successo del suo viaggio, con la complice Beatrice morta e risorta in qualche modo che intercede per lui.
La discesa agli inferi, la visione d'aldilà, l'evocazione dei morti sono (anche) pretesti letterari, di cui qui abbiamo visto pochi esempi. Divengono anche nella Commedia, come noto, non solo un mezzo per conoscere il futuro con arti più o meno magiche, ma anche per leggere il presente trasportato nell'aldilà, non scevro da favoritismi e vendette personali: 
così l'Europa medievale viene apparentemente osservata da una prospettiva eterna, sottratta al tempo della storia perchè già sottoposta all'immaginario giudizio di Dio/filtrato da Dante/narratore.

Josh