mercoledì 30 giugno 2010

INCONTRO NEL SAHEL (un racconto scritto per coloro che portano con sé il PC anche in vacanza)

Avevo trascorso la giornata presso il grande raduno di allevatori nomadi transumanti nei territori desertici e i contadini insediati nelle savane coltivabili che si svolge nella regione del sahel situata nel nord del Niger all’inizio della primavera, in occasione della festa organizzata dai peuhl, pastori di grandi mandrie di buoi e cammelli, durante la quale i giovani eseguono danze prolungate per la conquista d’una moglie. Nella società peulh i ruoli appaiono invertiti: non sono le ragazze a dover sedurre i giovanotti col trucco e col gesto, ma i maschi, i quali, coi volti sontuosamente truccati, si esibiscono in danze cerimoniali per essere scelti dalle fanciulle. Ma il raduno era anche un’occasione di mercato dove ogni gruppo offriva in vendita la propria merce: ceste ricolme di miglio e di manioca; pile di patate dolci, di manghi e papaie; mucchi di datteri; ampi blocchi di sale, riportati dai tuareg in pericolosi viaggi compiuti fino alle lontanissime distese del deserto salato; stoffe, stuoie, gioielli e calebasses, i grandi recipienti ricavati da gusci di zucca seccati, quindi intagliati e dipinti per essere adibiti ad uso domestico. Avevo affrontato un interminabile viaggio in pulman per trasferirmi da Niamey, la capitale del Niger, in quell’arida regione a cavallo tra il Sahara e la savana, per osservare e fotografare quel coloratissimo e animatissimo spettacolo di folla impegnata nei commerci più diversi, vagando incessantemente tra i vari gruppi, sostando davanti alle scene – le danze, le conversazioni, le contrattazioni e gli approcci tra uomini e donne – che, dopo il calar del sole, il guizzare dei fuochi o delle luci a petrolio mi restituivano trasfigurate. A notte inoltrata mi ritrovai verso la periferia del grande assembramento, nei pressi di alcuni tendaggi tuareg. Mi sentivo troppo stanco per continuare a stare in piedi e mi guardavo intorno cercando un posto appartato dove stendere la mia stuoia per trascorrere la notte. Il luogo era tranquillo perché l’occasione era di quelle istituzionalmente pacifiche, ma, essendo l’unico esponente d’una cultura generalmente non presente in raduni di quel genere, avevo un certo ritegno a mettermi a dormire in mezzo agli altri; per cui mi guardavo in giro dubbioso, esitando sul da farsi. La mia incertezza doveva essere percepibile, perché una voce mi interpellò in tono incoraggiante: “Olà, ça va?” La domanda era formulata in un francese perfetto, ma lì per lì non mi sorpresi, giacché avevo incontrato molti africani capaci di parlare la lingua degli ex dominatori con proprietà e buon accento. Chi mi aveva rivolto la parola era un giovane tuareg sorridente, un bel ragazzo sui venticinque anni con una rada barbetta disordinata intorno al mento e gli occhiali a stanghetta sul naso, seduto fuori dalla sua tenda accanto a una bellissima donna dagli occhi a mandorla e a una bambina completamente nuda di due o tre anni col capo raso, salvo per un ciuffo di capelli alla sommità della nuca. “Oui, ça va” risposi, guardando senza grande interesse la famigliola tuareg intenta a godersi quel po’ di fresco portato dal buio dopo la giornata infuocata (a quelle latitudini la primavera corrisponde all’inizio della stagione torrida). Una teiera bolliva su uno strato di carbonella ardente. “Asseyez-vous (si accomodi)” disse il giovane indicando la teiera, gesto col quale ero invitato inequivocabilmente a prendere il tè con la sua famiglia. Non avrei mai rifiutato un invito di quel genere, non solo perché sarebbe stato inteso come una scortesia incomprensibile, ma perché esso mi svelava l’atteggiamento amichevole e ospitale dell’uomo, da cui ritenni di poter trascorrere senza timore la notte se non proprio dentro la sua tenda (cosa che invece più tardi mi fu offerta), almeno accanto ad essa. “Merci” dissi sorridendo con gratitudine e mi accosciai di fronte all’uomo. Per alcuni istanti restammo in silenzio, mentre la donna, col bellissimo volto atteggiato alla impenetrabilità serena e distaccata d’una sfinge, armeggiava intorno alla teiera, introducendovi quietamente alcune perle di zucchero, rimestando all’interno con un cucchiaio e richiudendo il coperchio di smalto con un piccolo scatto metallico. Presso i tuareg la conversazione non inizia fino a quando il tè non è pronto e l’ospite non ne ha sorseggiato almeno una tazza; ma nello sguardo rivoltomi dall’uomo, pur pacato e venato d’un filo di divertimento e d’ironia, indovinavo come un’intesa, una comprensione e una simpatia mischiati a un senso d’attesa, a qualcosa di allusivo tra me e lui che non riuscivo ad afferrare e che perciò mi spinse a rompere il silenzio: “D’ou venez-vous (da dove venite)?” Egli, rispondendo, fece con la mano un gesto vago verso il nord: “Du cotè de Taoudenni, pour approcher du sel ici”. Taoudenni è la località sahariana dove si trovano le miniere di sale a cielo aperto presso le quali i tuareg si recano a dorso di cammello ad estrarre il prezioso prodotto per venderlo nei luoghi di raduno come quello nel quale ci trovavamo in quel momento. Sapevo che solo dei grandi conoscitori del deserto come i tuareg osano avventurarsi sulle difficilissime piste dirette a Taoudenni attraverso un territorio conosciuto come “il deserto dei deserti”, vale a dire la parte più arida e temibile di tutto il Sahara, con pochissimi pozzi d’acqua salmastra lungo il cammino e dove le tempeste di sabbia si scatenano con una frequenza spaventosa e persecutoria (almeno, osavano quando realizzai quel viaggio, diversi anni fa; con l’evoluzione dei tempi e l’introduzione nel Sahara di moltissimi camion, non so se esistano ancora tuareg disposti ad effettuare quelle spedizioni preistoriche a dorso di cammello). Ma era l’uso raffinato della lingua francese da parte del mio interlocutore (aveva adoperato il verbo approcher, avvicinare, per indicare simultaneamente l’estrazione e il trasporto del sale fino al luogo dove metterlo in vendita), oltre alla sua dizione impeccabile, a stupirmi. “Ou avez vous appris le français (dove ha imparato il francese)?” gli domandai. “Oh, je suis français (Oh, io sono francese),” fu la risposta, apparentemente noncurante, ma con un leggero accento di canzonatura che valse a sconcertarmi più della risposta stessa. “Comment?” domandai, ancora incredulo. “Etes vous français?” Sporse in avanti il viso ridente, trasformato in una specie di maschera sardonica dalla luce baluginante delle braci. “Oui, je suis français, mais je suis meme touareg (sì, sono francese, ma sono anche tuareg)”. Rimasi a guardarlo interdetto, esaminando con diffidenza i suoi lineamenti, il naso diritto, le labbra sottili e i capelli e la barba color castano chiaro, in effetti più nordici che caucasoidi (talvolta i tuareg presentano anche qualche sfumatura negroide, ed era appunto il caso della moglie, che aveva labbra spesse e sporgenti, per quanto ben disegnate); finché, dopo aver assaporato con aria faceta il mio stupore, egli si decise a raccontarmi la sua storia.

“Mi chiamo Jean Philippe, o almeno così mi chiamavo quando vivevo in Francia coi miei genitori. Sono sette anni che vivo in Africa, dove ho scelto di diventare tuareg. Oggi mi chiamo Alahouda. Quando ho lasciato la Francia avevo diciotto anni. Dal quartiere parigino dove abitavo con mia madre e mio padre dovevo recarmi al liceo di Versailles, per sostenervi l’esame di maturità. Quell’anno avevo studiato molto poco e sapevo di rischiare la bocciatura. Per andare a Versailles dovevo prendere il treno ma, lungo la strada verso la stazione, senza dubbio per il timore di quello che mi attendeva, persi tempo, così arrivai quando il treno era già partito. Allora mi recai sulla strada, con l’idea di raggiungere la scuola in auto-stop, ma non stavo bene, non avevo nessuna voglia di arrivare in tempo per sostenere l’esame. Si fermò una Land Rover con a bordo una giovane coppia in vacanza, sprizzante felicità perché stava recandosi in Africa per compiere una traversata del Sahara occidentale. Appena salito su quell’auto, presi di colpo la mia decisione, scegliendo di rivoluzionare completamente la mia vita. Sicuramente non pensavo di mentire quando, uscendo di casa, avevo detto ai miei genitori: Ci vediamo stasera. Da allora non li ho più rivisti ed essi non hanno saputo più nulla di me fino a qualche mese fa, quando mi sono deciso a scriver loro una lettera dove ho raccontato tutta la mia storia. Quando domandai ai coniugi francesi se potevano portarmi in Africa con loro forse il mio fu un atto avventato, suggerito dalla paura di essere bocciato, ma una volta giunto in Africa mi sono accorto che non avevo più nessuna intenzione di tornare indietro, e ne ero talmente convinto che a El Ayun, lasciati i francesi coi quali ero arrivato fin lì, montai su uno di quei treni che trasportano bauxite attraverso la Mauritania in viaggi interminabili. Con me avevo solo 100 franchi e la mia carta di identità, valida però per viaggiare in territori già sotto protettorato francese, ma ciò nonostante venivo continuamente fermato dai militari, i quali, col pretesto che non possedevo un passaporto o che avevo troppo poco denaro, volevano farmi tornare indietro. Ma io mi mettevo in un angolo e aspettavo pazientemente che cambiassero idea. In genere, dopo un giorno o due, al passaggio di un altro di quei treni carichi di bauxite, mi lasciavano ripartire. Giunto nel nord del Mali, ho trovato ospitalità presso i tuareg, ed è stato allora che ho capito come la vita dei pastori nomadi fosse il genere di esistenza che mi affascinava di più e che desideravo conoscere fino in fondo. Così, restando accanto ad essi e condividendo la loro esistenza, ho deciso di farmi tuareg, abbracciando la religione islamica e poi fondando una mia famiglia con Kauila, la donna che ho preso in moglie e che mi ha dato Aicha, la mia bambina”.

Mentre il mio interlocutore parlava, continuavo ad esaminarne l’aspetto celtico, l’aria vagamente intellettuale conferitagli dagli occhiali a stanghetta, il suo linguaggio evoluto e quel qualcosa di indefinibile che ne svelava l’appartenenza al mondo occidentale con tutto il suo retroterra culturale, che portava addosso come un marchio indelebile. Eppure egli aveva deciso di rinnegare il suo mondo e di ridursi all’esistenza impervia e, almeno ai miei occhi, quasi disperata dei tuareg. Con l’immaginazione lo vidi arrancare per giorni e giorni in groppa al suo dromedario in territori infuocati, patendo atrocemente la sete e la fatica insieme ad altri sventurati come lui, per raggiungere località spaventose come Taoudenni dove raccogliere con sudore e sofferenza pesantissimi blocchi di sale, da vendere poi per una manciata di denari coi quali acquistare le provviste occorrenti appena a riprendere nuovamente il viaggio verso le miniere di sale, in un ciclo interminabile e sfiancante; e, dietro a questo andare e venire, non c’erano altro che pasti frugali composti da pane di semola di grano cosparso di burro rancido, miglio abbrustolito e latte di cammella; serate trascorse tutti insieme accanto al fuoco acceso con lo sterco delle bestie perchè nel deserto non v’è legna da ardere; e poi le chiacchiere indolenti, l’ascolto di qualche canzone per ingannare il silenzio incolmabile del Sahara, la promiscuità, la scarsa pulizia e il grave rischio delle infezioni e delle malattie senza farmaci adeguati per fronteggiarle. C’era ancora, naturalmente, l’amore sotto la tenda, ma era quello un compenso sufficiente a giustificare un’esistenza così aspra? Guardai la moglie, senza dubbio una giovane donna molto attraente, anche se con quell’alone vagamente selvatico conferitole da un sangue dedito da sempre, al contrario del marito, a un’esistenza estrema, condotta sul sentiero impervio e crudele della pura sopravvivenza. Certo l’amore con lei doveva essere piacevole, ma non c’erano mille altre donne altrettanto belle con cui intrattenere rapporti amorosi nel mondo che il mio ospite francese aveva voluto ripudiare?

“Perché ha deciso di scegliere questa vita?” non potei, a quel punto, trattenermi dal chiedergli, forse con un tono vagamente riprovatorio che non seppi nascondere.

“Ah, per la sensazione di libertà assoluta che mi dà!” mi rispose con un’enfasi che accolsi con scetticismo. “La giungla non è in Africa, ma a Parigi. Qui, se incontri qualcuno lo saluti; se arriva uno straniero lo sfami. A Parigi lasciano crepare per strada un uomo affamato o malato mentre nutrono con la carne e curano con grande impegno bestie come cani e gatti. Da quando vivo in Africa non mi ricordo una sola volta in cui mi sia stata negata l’ospitalità. E poi qui esiste una spiritualità naturale nei confronti della vita, un sentimento religioso che accomuna tutti gli esseri umani. In Francia non sapevo che cosa fosse la religione perché i miei genitori non mi hanno impartito un’educazione religiosa. Ho trovato nell’Islam la dimensione spirituale necessaria per una comprensione autentica della vita e per vivere in una comunanza fraterna coi miei simili”. Io continuavo a considerare senza entusiasmo le sue parole. Mi sembrava di ascoltare i soliti luoghi comuni espressi dagli europei infatuati dell’esistenza condotta dagli africani e della “spiritualità” ad essi attribuita, una spiritualità improntata a una sorta di religiosità della natura o misticismo panteista (appena venato di islamismo o di cristianesimo, a seconda delle influenze subìte); ma quegli altri europei esprimevano l’attrazione esercitata su di loro dall’Africa in modo blando, certo non con la radicalità del mio nuovo conoscente, che, invece, si era convertito totalmente alla vita tuareg, assumendola e facendola propria anche creandosi una famiglia in seno a quel popolo. Ero in presenza, evidentemente, di un caso di fuga dal proprio e di conversione all’altro da sé, un caso che accade forse più frequentemente di quanto si immagini. Ma è inevitabile domandarsi i motivi di scelte di questo genere, certo a causa della difficoltà di farcene una ragione. Per Jean Philippe la causa scatenante doveva essere stata, come possiamo intuire dalle sue stesse parole, il timore di non rivelarsi all’altezza di quella vita adulta e responsabile che presumibilmente i suoi genitori si aspettavano assumesse dopo la maturità; forse c’era anche un’insoddisfazione di sé e un senso di noia nei confronti dell’esistenza condotta fin lì. Più in generale, non v’è dubbio che scelte di vita drastiche come queste siano determinate da uno smarrimento di se stessi legato alla perdita dei propri valori di riferimento, morali, culturali o identitari che dir si voglia. Oggi, la diffusione in Occidente di quell’ideologia di derivazione rousseiana ispirata all’esaltazione della vita selvaggia ovvero della vita primitiva o “naturalistica” condotta in seno o più vicino alla natura, favorisce e moltiplica questo genere di fuga, ma forse l’impulso da cui nasce trova la propria collocazione più appropriata in quel grano di follia che l’uomo nasconde da sempre nelle regioni più oscure del suo intimo e che corrisponde a una sorta di istinto di negazione di sé o di stimolo ad affrancarsi dalla propria identità, vissuta, per una qualsiasi ragione, come una limitazione di libertà.

DIONISIO

lunedì 21 giugno 2010

La casa delle mie estati lontane...



Al Nord piove quasi ogni sera. E se non piove la sera, piove alla mattina. O al pomeriggio. Ci si alza la mattina con un pallido sole, ma già al pomeriggio il tempo si guasta e verso sera immancabilmente sembra di essere a Macao: piove e ripiove uggiosamente. Le ciliege del mio giardino non sanno di niente. Del resto, sono marcite in buona parte a causa della troppa acqua. I metereologi parlano già di un'estate senza estate dovuta probabilmente alla nube vulcanica. La perturbazione avrebbe lasciato postumi non facilmente metabolizzati. Che ne sarebbe della nostra vita senza sole? Soprattutto senza la stagione che infuoca i cieli e che indora i campi, che ha ispirato poeti, artisti, scrittori, musicisti e che ci riempie di rinnovato vigore ed energia, quando il giorno si allunga a dismisura e i meriggi sono "pallidi e assorti" accompagnati da uno stormire di cicale. Chi non ricorda le note languide e solatìe del Prelude à L'après midi d'un faune di Debussy, coi suoi toni pigri di dolce oziosità?

E il solstizio d' ogni estate era annunciato dalle lucciole, gli insetti fatati della nostra infanzia ricordati da Camillo Sbarbaro nei Versi a Dina, e che illuminavano le nostre serate insieme al profumo di tenue borotalco delle "belle di notte", quei fiori che per incanto, si aprono solo sul far della sera:

La trama delle lucciole ricordi
sul mar di Nervi, mia dolcezza prima?
(trasognato paese dove fui
ieri e che già non riconosce il cuore).
Forse. Ma il gesto che ti incise dentro
io non ricordo; e stillano in me dolce
parole che non sai d'aver dette.

Estrema delusione degli amanti !
invano mescolarono le loro vite
s'anche il bene superstite, i ricordi
son mani che non giungono a toccarsi.

Ognuno resta con la sua perduta
felicità, un po' stupito e solo,
pel mondo vuoto di significato.
Miele segreto di chi s'alimenta;
fin che sino il ricorso ne consuma
e tutto è come non fosse stato.

Oh come poca cosa quel che fu
da quello che non fu divide!
Meno
che la scia della nave acqua da acqua.



Di tutte le stagioni, certamente la mia preferita da sempre, perché coincideva con le vacanze. La fine della scuola e del lavoro.  Da studenti quando ci si trascinava svogliatamente negli ultimi giorni di scuola, si raccoglieva papaveri fiammeggianti ( "rosolacci" li chiamavano il Pascoli e il Papini)

e i fiordalisi sui bordi dei sentieri di campagna abbandonando i libri e la bicicletta. La forza della terra ci imponeva di fermarci a contemplarla, quale che fosse l'attività che ci assorbiva.
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca, stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi, dai oro ai più vasti sogni (Cardarelli)

Per consultare la poesie  dell'estate vedere il vecchio post di Josh, così esaustivo. Ma qui, in questo contesto, mi preme soprattutto analizzare i riti di passaggio della vita laddove l'elemento poetico c' entra sì, ma solo indirettamente, per metafore.  Oggi purtroppo con la vita che conduciamo viene bandito o messo sempre più ai margini. I tempi cambiano e i diserbanti hanno distrutto papaveri e fiordalisi, mentre le lucciole, causa l'inquinamento, sono sempre più rare. Anche le scansioni stagionali mutano. Troppi temporali in  maggio e in giugno, ci portano via i giorni più belli e  più chiari dell'anno: quelli della mezza estate. Inoltre non sono poche le spiagge risucchiate dalle maree o le scogliere franate che hanno di fatto inghiottito cale, calette e arenili.  Resisteranno almeno gli acri variopinti fiori di oleandri sferzati dalle intemperie, sulle  aiuole lungo le banchine? Sentiremo ancora il frinio delle cicale impazzite che ci ricordano tanto il nostro otium così latino e mediterraneo?



L'aspettavo tutto l'anno, l'estate. Con le sue  spensierate canzonette di stagione, con tanti sogni pazzi nella valigia insieme all' immancabile costume da bagno e agli indumenti leggeri e colorati. Con gli zoccoli di legno che fanno rumore sulle scalinate al mare, ma che fanno tanto bighelloneria estiva. Con la frenesia di tornare in villeggiatura (allora la vacanza si chiamava con questo bel nome) dai nonni, sempre così comprensivi e tolleranti rispetto ai genitori, nella casetta al mare e di ritrovare gli amici che avevo lasciato nella stagione precedente. "Mi raccomando, aspettatemi per giocare, non andate a giocare senza di me". E nel mio infantile entusiasmo, pretendevo quasi che quei poveri bambinetti dovessero aspettarmi per le altre tre stagioni dell'anno, prima di riprendere, solo al mio arrivo, i loro divertimenti. Con il naso spiaccicato contro i vetri del finestrino del treno, spiavo l'apparizione (è la parola giusta) del mare, la cui visione veniva interrotta dalle gallerie, per me una vera e propria punizione degli occhi. Poi, di nuovo l'immensa azzurrità serena si spalancava al mio sguardo dal treno in corsa che attraversava le stazioncine rivierasche così fiorite di leggere gaggìe e di tamerici.

Tutti noi abbiamo belle estati da ricordare. I giorni di azzurro e di oro dell'infanzia, dell'adolescenza, della giovinezza. Ma anche della maturità, poiché ogni stagione della vita ci riserva qualche dolce estate da trascorrere in serenità con gli amici e le persone più care.  Mi ha sempre stupito il tempo come si dilata e si dipana, durante questa stagione regina. Quasi un tempo senza tempo. Una durata che pare illimitata. Ma  poi come tutte le cose, finisce, lasciandoti uno strano indescrivibile desiderio-nostalgia di quel trascorso tempo senza tempo. Forse il ricordo di una casa lontana, con finestre dalle verdi persiane dalle quali filtrano arabeschi di sole e lo scintillìo rifratto d'acqua di mare che, vivido, brulica, tremola sulle pareti bianche, illumina i miei risvegli, quasi a invitarmi a vivere un nuovo sogno.


La casa delle mie estati lontane
ti era accanto, lo sai,
là nel paese dove cuoce il sole
e annuvolano l'aria le zanzare (Montale)



Buona Estate a tutti!

Hesperia

lunedì 14 giugno 2010

Rabarama






In questo blog s’è trattato spesso di argomenti classici o del passato….talvolta anche con un senso di sdegno per la sonnolenza, l’autoreferenzialità e povertà di certi passaggi dell’arte contemporanea. Ma non tutto langue in Italia oggigiorno.

Rabarama è una pittrice e scultrice italiana (Paola Epifani, Roma 1969). La parola dello pseudonimo deriva dal sanscrito Raba, che significa ‘segno, tatuaggio’, e Rama che vuol dire ‘divinita'’.


Pur giovane, ha già una ragguardevole carriera alle spalle, ed è tra i nomi e, parola che le piacerebbe, “identità”, che rendono importante il nome “Italia” nel mondo oggi. Tipiche della sua produzione sono sculture in metallo (bronzo, alluminio...), da dimensioni consuete a gigantesche, ricoperte da una sorta di tessere tatuate sui corpi - definizione alquanto riduttiva.

Figlia d’arte, già a 10 anni partecipa alla Mostra Internazionale per il 30° Anniversario della Nato.
Nel 1990 il Governo Messicano la sceglie come rappresentante italiana al concorso internazionale di Toluca: R. realizza una grande scultura, poi permanente presso il Museo di Arte Moderna. Il suo talento è ricco, sfaccettato, Rabarama è una creatrice di forme originali. Nel 1995 collabora con la galleria Dante Vecchiato. Dal 2000 le sue opere sono esposte presso i maggiori musei italiani e stranieri, negli Stati Uniti e a Parigi. Prende parte all’evento d’arte con Franck Muller a Ginevra (2007). Una sua scultura monumentale è stata acquistata dal Municipio della città di Shanghai, per la piazza del Governo cittadino, 1ma opera italiana acquistata dal Governo Cinese; personale alla Fundaciòn Sebastian di Città del Messico (2005); mostra al Museo d’Arte di He Xiangning a Shenzhen, nel museo d’Arte Contemporanea Millennium di Pechino e nel museo d’Arte Contemporanea di Shanghai (2004); riceve il premio per la giovane ricerca artistica Beijing International, alla Biennale di Pechino (2003); personale alla Fondazione Palazzo Bricherasio di Torino (2001). 3 statue: Trans-lettera (bronzo dipinto bianco/nero, 2000), Labirintite (bronzo dipinto bianco/verde, 2000) e Co-stell-azione (alluminio dipinto bianco/bordeaux, 2002) sono collocate presso il Lungomare Falcomatà di Reggio Calabria dal 2007 in occasione della mostra personale “Rabarama. Identità”



La particolarità delle sue opere scultoree è molteplice: la forma ancora classica adottata per i corpi, l'enigmatica ieraticità dei volti che sottolinea una forte valenza sacrale, la paziente e preziosa lavorazione della ‘pelle’ delle figure: textures, tessere di puzzle, ideogrammi, microcaratteri, segni ricoprono spesso interamente o quasi le figure, creando una tensione tra la forma dei corpi e la superficie, ora decoro ora rete imprigionante delle forme.

La pelle e l’anima, insomma, affinchè l’anima non sia espropriata nelle metamorfosi del moderno. Ma si tratta in questo caso di anima riconquistata, quasi sciamanica e veggente.



La preziosità presiede ad un decorativismo manuale che rivela particolare abilità: a volte si spinge a una ricerca del ‘segno’ contemporaneo, spazia dalle cifre della civiltà attuale e dell’astrazione, fino al richiamo ad ideogrammi e alle culture antiche, simboli ancestrali e primigenii della scrittura, o cita le popolazioni indigene di varie parti del mondo che ancora si dipingono la pelle con valenza rituale e tribale nei culti della terra.

L’effetto finale è sempre una sinergia tra la superficie decorata e tempestata di tessere e rilievi, e la tensione che anima i corpi, come di un’anima che volesse uscire dalla pelle delle opere. L’atmosfera che ne risulta è moderna e insieme antica, posta fuori del tempo, sacra.


I temi scelti sono classici, contemporanei ed eterni eppure attuali, rivisti attraverso le problematiche del presente: la mutazione genetica, l’ambiguità umana, l’identità dell’uomo contemporaneo. Identità sacra che sappiamo però storicamente dalle arti, dalle lettere, dalla filosofia, dalla politica, dai media moderni, dalla sclerotizzazione dei linguaggi ci è stata frammentata, texturizzata, micronizzata, frantumata…

Ma un’anima ancora si muove, si torce nei corpi, lotta per uscire allo scoperto.

Questo è forse il messaggio più universale e toccante di Rabarama. Con molta ammirazione per alcune realizzazioni in particolare.

Le sue statue di maggiori dimensioni collocate in piazze famose e storiche del mondo sembrano un riassunto dell’esperienza dello spirito umano. A corollario e in contrasto con le forme classiche presenti, come a dire: ecco a che punto siamo oggi. Eppure un'anima ancora pulsa, forse l'anima dell'uomo ci riserverà ancora molte sorprese.

Ed ecco tra piazze monumentali rinascimentali, barocche, ottocentesche come tra gelide architetture contemporanee emergere la figura viva della metamorfosi dei corpi in tensione che lottano con la loro stessa preziosa pelle, assorti ad indagare l’identità umana e il sacro dell’uomo mediante tasselli e incastri, immagini pulsanti di un mondo imprigionato che preme per librarsi in libertà. (qui, Ri-Nascita)



Forma, torsione, pelle e soprattutto Spirito e pensiero: così Bozzolo (2000), un bronzo dipinto che indica l’origine e la genesi della nuova forma umana; e Ri-Nascita, un bronzo dipinto del 2006, dove è suggerita un'ascesi, una tensione verso l'infinito; e Trans-rettile (1997), un bronzo dipinto che indica la mutazione del corpo e la mutazione dell'animo.



Corpi-fenice verrebbe da dire, nell’accezione del mitico animale che rappresenta sempre la rinascita dalle proprie ceneri e dalla propria storia, corpi 'plutoniani' mostrati nel loro ciclo vitalistico di rinascita, con i valori più totali della rigenerazione.

Josh

lunedì 7 giugno 2010

De Marchi, Pianelli e la loro città

Quando parlo di Milano, in maniera entusiastica, come di una delle più belle città del mondo, c'è sempre qualcuno che alfine mi contraddice, dicendomi: "Ma da quanto tempo manchi da Milano? Io non la vedo poi così bella".

In effetti, quando penso a com'era corso Buenos Aires, negli anni '70, rispetto ad oggi, un pò di ragioni forse le hanno. Il Corso era chiamato la vetrina dei milanesi, quando ancora non era scoppiato il boom dei supermercati. A quell'epoca dominava ancora incontrastata La Rinascente, quotata da decenni, e per tanti anni successivi ancora, alla borsa valori di Milano: era uno dei titoli più solidi e più sicuri.

In quegli anni '70 percorrevo il corso in lungo e in largo, passando incantato da una vetrina all'altra in cerca di novità, che in periferia, e nei paesi limitrofi non erano ancora arrivate. Era anche il tempo in cui facevo parte della claque, e, spesse volte, solo o in gruppo percorrevamo a piedi tutto il corso, passando dai portici di Porta Venezia, poi in corso Venezia, e quindi al Duomo, passando per San Babila: com'era bella Milano! Risale a quegli anni il mio grande innamoramento per la città. Poi, come mi dissero, la calata degli incivili aveva rovinato Corso Buenos Aires. Era diventato bivacco di ambulanti provenienti da ogni dove; l'avevano trasformata in emporio a cielo aperto, senza che le autorità fossero in grado o avessero il potere o la voglia di por fine allo stato di degrado. Di tale sorta di sfacelo me ne accorsi una domenica di fine anni '90, quando tentai, con la famiglia, di rifare quel fantastico percorso. Tentativo vano e andato a vuoto: marciapiedi occupati da lenzuolate distese, con esposte le loro mercanzie, per lo più i soliti occhiali, binocoli, cappellini, magliette. E i passanti, e i passeggiatori del Corso costretti a fare lo slalom tra quelle lenzuolate; e guai a chi le sfiorava, anche soltanto per una semplice distrazione con un piede; sarebbe equivalso ad un affronto da lavare col sangue delle parolacce, o anche peggio. Ma chi erano gl'invadenti? Noi che volevamo passeggiare come sempre fatto, o loro che avevano invaso i marciapiedi impedendoci di camminare? Da quel giorno non siamo più andati a passeggio per il Corso. Son passati almeno dodici anni da quell'episodio, e chissà se ora la situazione è migliorata?

Comunque sia, credo che Milano sia bella a prescindere da tutto questo, oltre che ad avere la pecca delle polveri sottili, che in taluni giorni ammorbano la città; e tutto questo, oggi più di ieri. Ma se poi la paragono a Londra, città che credevo più avanti di Milano in vari campi, o almeno per quanto riguarda la vivibilità, grazie al meticoloso e particolareggiato post di Nessie, Lost in London , scopro che invece è seconda a Milano in vari punti. Le esperienze di viaggio di Nessie, racchiuse in quel post, mi hanno fatto molto ricredere su quelli che credevo punti di forza di Londra rispetto a Milano; tanto da farmi ritenere che la città meneghina non abbia nulla da invidiare alle altre grandi metropoli del mondo. Tutto il mondo è paese, e nessuna città può fare tanto meglio più di altre in tema di vivibilità, viabilità, mezzi collettivi di trasporto: è sempre quel resoconto di Nessie, che mi porta a tale considerazione. Anche in tema di ruota panoramica , la grande attrazione londinese, il divario sembra sia stato colmato, o lì per esserlo. E' anche a seguito di tali considerazioni che mi azzardo, con maggior vigore, col dire che Milano è una delle città più belle del mondo, a prescindere. Al prescindere da che cosa, potrebbe essere il tema di qualche altro post.

Emilio De Marchi, lo scrittore che ho riscoperto di recente, mi ha fatto crescere l'innamoramento per Milano. Nel suo romanzo più famoso, Demetrio Pianelli, fa una descrizione particolareggiata della sua Milano, citando col loro vero nome locali, luoghi, vie, piazze, chiese. Parla delle vie del centro e di periferia (quella che però oggi fa parte del centro città); indugia su chiese, campanili e i suoni delle loro campane, sui tetti di Milano; descrive i navigli, all'epoca ancora a cielo aperto; declama i gatti di Milano e il cane di Cesarino, passato poi al fratello Demetrio. Una delle zone nevralgiche di Milano, richiamata in più riprese nel romanzo, è il Carrobio (scritto così, come ha fatto De Marchi nel romanzo).

Sono molti gli spunti di riflessione che si possono trarre dal romanzo. Si pensi soltanto al vecchio dazio, che De Marchi cita spesso nel romanzo e che sarà oggetto di un mio prossimo post. Meditavo su questi vari spunti, quando m'imbattei in un punto del romanzo che mi fece trasalire, facendomi abbandonare di botto ogni altra idea. Penso che Emilio De Marchi fosse andato anch'egli alla ricerca di una prova scientifica dell'esistenza di Dio. Trascrivo il brano, dal Demetrio Pianelli (parte quarta, Capitolo 2), che lo farebbe supporre. In tale brano par di intravvedere un suo nascosto desiderio di ricercare tale prova. L'approccio lo fa per mezzo di Marco, il celebre professor Fagiano di Sinigallia, il mago, come osava autodefinirsi lui, e assistente della medium Anita d'Arazzo, impareggiabile sonnambula. Rivolto a Paolino delle Cascine, andato là per un consulto, nel momento del commiato, nell'atto di presentare al cliente tutte le "attrezzature scientifiche" di cui il gabinetto della medium dispone, gli dice:
"La tavola psicografica segna col semplice contatto della mano in cinque minuti tutte le risposte che si desiderano. E' uno dei più forti argomenti per dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima. Profondi filosofi, speculatori metafisici e benefattori dell'umanità hanno scoperto che la terra e il cielo sono popolati di spiriti buoni e di spiriti mali..., di spiriti superiori e di spiriti inferiori e quando un soggetto, previa una calda aspirazione al Creatore di tutte le cose visibili e invisibili, invita nel raccoglimento del suo pensiero con sommissione uno di questi spiriti o l'anima eterna di un caro estinto, sia ombra di grande illustre o vuoi poeta o condottiero di eserciti o anima di parente sepolto..."..."lo spirito tratto dalla simpatia e dalla coercizione non può a meno..."
e qui s'interrompe il dialogo, Marco saluta Paolino delle Cascine, dopo averlo accompagnato alla porta.
Di quanto poi avviene, mi attengo al silenzio, per non togliere il piacere delle tante sorprese a quanti vorranno leggere il romanzo.

Dal brano si potrebbe ipotizzare che forse De Marchi, nel corso della sua vita, sia andato anche lui in cerca di una prova scientifica dell'esistenza di Dio. Un piccolo/piccolo tentativo è stato fatto da commentatori di questo e altri blog (vedere questo esempio).


De Marchi era nato a Milano, ma aveva fatto di Paderno Dugnano la sua città d'elezione. Vi si trasferiva sempre, negli ultimi due mesi delle vacanze estive, per il suo clima più mite rispetto a Milano. A Paderno Dugnano, nella parte est del suo bel quadrilatero, racchiuso tra via IV Novembre, via Roma, via Gramsci e proseguimento di via Grandi c'è la villa De Marchi - Tavecchio (vedi foto). Tutta la zona racchiusa nel quadrilatero ha avuto sviluppi e cambiamenti notevoli negli ultimi trent'anni. Via Gramsci, dove è situata la villa dello scrittore, è stata fino ad una trentina d'anni fa una strada intercomunale stretta e pericolosa; era parte di una carrozzabile, alternativa della più famosa Strada Comasina, che ha antiche origini Romane e preromane. La strada partiva idealmente dalla casa di Alessandro Manzoni a Brusuglio, per poi passare da Cusano (Milanino) e da lì, a Paderno, passava davanti la casa del De Marchi. Attraversate le quattro frazioni in linea di Paderno, Dugnano, Incirano, Palazzolo, si arrivava a Bovisio Masciago, dopo essere transitati da Varedo, nella cui frazione Valera, in località ancor oggi relativamente amena, Gaetana Agnesi da Milano vi si era trasferita oltre 100 anni prima, per attendere ai suoi studi di matematica e analisi in piena tranquillità.

Il visibile sforzo compiuto dalla comunità padernese nel corso degli ultimi trent'anni, per migliorare l'aspetto cittadino, ha ricreato di sana pianta il centro città, salvando però da demolizione il bello dell'antico, tra cui la casa del De Marchi, come risulta dalle foto pubblicate. Quel centro storico ricreato, dalla maggior parte dei padernesi è indicato come il quadrilatero di Paderno Dugnano. Al lato opposto del quadrilatero, rispetto alla casa dello scrittore, vi è la stazione ferroviaria, e vi scorre una ferrovia, la quale sta assumendo via via sempre maggior importanza. La linea che vi transita è presa d'assalto nelle ore di punta o in occasione di grandi eventi milanesi. Essa va a confluire nel Passante Ferroviario, che in quaranta minuti porta i passeggeri a Rogoredo, al capo opposto di Milano. Là, in località Melegnano e Chiaravalle, Emilio De Marchi vi aveva creato ambientazioni per il suo Demetrio Pianelli.

All'interno del quadrilatero di Paderno Dugnano scorre, a cielo aperto, il Seveso, fiume che ha avuto molta importanza nella storia di Milano; una storia che s'intreccia con quella dei navigli. Il corso cittadino del fiume è parecchio migliorato, rispetto a quegli anni '70-'80, anche se Legambiente ne denuncia il costante stato di degrado.
Nell'ultima foto vi è la tomba di Emilio De Marchi, che si trova nel cimitero di Paderno Dugnano, e non in quello di Maggianico di Lecco, come scritto nell'enciclopedia on-line Wikipedia. A Maggianico di Lecco vi andava solamente talvolta in vacanza. A Paderno aveva casa, e, nei mesi di agosto e settembre di ogni anno, ultimi due mesi di vacanze estive, vi andava ad abitare.

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Foto: in alto, scorcio del Carrobio di Milano. Dal sito Milano blogosfere
Le altre foto sono dell'autore.
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