mercoledì 28 aprile 2010

L'EGITTO DEI FARAONI, MATRICE DI ARTI


L’incontro al Museo Nazionale del Cairo con l’Egitto antico, quello dei faraoni, ti pone davanti a una miriade di statue, teste, cariatidi, sarcofagi, stele, vasi, gioielli, giocattoli e altri oggetti che ti svelano immediatamente il carattere dell’arte e più in generale del manufatto egizio, proponendoti in tutte le soluzioni possibili lo stile, unico e inconfondibile, di ogni creazione fiorita nella valle del Nilo in un tempo tanto lontano da apparirci favoloso. Uno stile che si è perpetuato, senza variazioni apprezzabili, all’incirca dal quarto millennio fin quasi alle soglie dell’era cristiana e che appare senza eguali nel suo genere, semplice e al tempo stesso prezioso, esatto e insieme indefinito, giacché il suo segreto e la sua grandezza consistono appunto in un’acuta rappresentazione della realtà (che, nei volti, non esclude nemmeno la riproduzione precisa dei tratti somatici, minuziosamente camitici ma talvolta tesi addirittura a restituire una sfumatura negroide per sottolineare un influsso di sangue proveniente dalla regione più a sud abitata dai nubiani cuscitici) coniugata in modo misterioso ad una visione intensamente ideale, capace di trasmettere un’impressione di sublime e solenne trascendenza. Ma, al cospetto di quel vasto materiale artistico e storico così lontano da noi si avverte anche qualcosa di sottilmente familiare, non ignaro d’un pizzico di sortilegio, che ti avvisa d’essere penetrato nel ventre materno delle arti e dell’oggettistica dell’Occidente, e non solo dell’Occidente, come se ti trovassi a tu per tu con tutti gli archetipi a cui si sono abbeverati via via gli artisti e gli artigiani delle civiltà successive a quella egiziana, dai sumeri ai greci e su su fino ai nostri giorni. Soprattutto la scultura, con tanti esemplari intagliati nelle materie più diverse, nel granito, nel calcare, nell’arenaria, nell’alabastro, nel legno e nel rame, rappresenta una sorta di rassegna esauriente delle diverse possibilità che da lì in poi l’uomo avrà di rappresentare la figura umana, dalla più banale, come certe figure non più espressive d’una bambola, alla più eccelsa, quali appaiono molte statue a tutto tondo dove l’osservazione della natura e l’euritmia delle forme si equilibrano in modo così perfetto e con una tale maturità di stile da farti sentire di essere, senza possibilità di dubbio, in presenza di uno dei vertici dell’espressività artistica raggiunta dall’uomo. Il museo costituisce insomma un contenitore esauriente della cultura materiale e artistica prodotta dalla civiltà egizia, dove sembra che tutto il popolo egiziano, coi suoi abiti, le sue acconciature, le sue armi, i suoi strumenti e i suoi oggetti sia convenuto per essere restituito magicamente dalla sua remota e solenne eternità all’attonita ammirazione dei nostri occhi di inconsapevoli e tanto lontani discepoli. Lo osserviamo in piedi, seduto, in atto di incedere solennemente; da solo, a gruppi di due, di tre o più individui; in posa rigidamente frontale, col torso nudo e il perizoma pieghettato attorno ai lombi, le spalle quadrate e la vita sottile, le braccia lunghe coi pugni stretti intorno a corti bastoncini e le gambe vigorose sui piedi nudi posati saldamente al suolo; talvolta, se si tratta d’una figura regale, con le braccia incrociate sul petto, stringendo in una mano il pastorale e nell’altra una piccola frusta, col capo sovrastato dalla mitra oppure avvolto nella sacra benda dalle larghe falde cadenti sulle spalle e con la stretta barba a cono, emblema di saggezza, applicata artificialmente al mento. Gli dèi esibiscono un corpo umano e una testa d’animale, come Anubi, il signore dell’oltretomba, col muso di sciacallo eretto severamente sul vigoroso torso maschile, o come Bastet, la dea felina reggitrice degli istinti primordiali, con la testa di gatta innestata su un corpo muliebre imperiosamente sensuale. Gli scribi, numerosissimi, a testimonianza di una civiltà che all’arte della scrittura – e quindi alla memoria del passato – attribuiva una grande importanza, stanno seduti con le ginocchia aperte per accogliere il papiro e con lo stilo in mano pronto alla scrittura, lo sguardo volto con altera condiscendenza verso chi sosta a contemplarli, quasi a sottolineare l’insostituibilità della loro missione.
Spesso le sculture conservano ancora la pittura della pelle, dei capelli e delle vesti stesa nei colori naturali in modo da aumentare l’illusione della vita, giacché tutte queste statue di re, di alti funzionari, di generali e di scribi, ma anche di semplici ancorché abbienti cittadini, avevano uno scopo non già ornamentale ma pratico, eminentemente utilitario: quello di conservare il corpo del defunto riproducendolo sontuosamente in effigie (oltre che, come si sa, mummificandone i resti mortali) per permettergli di continuare a vivere nell’aldilà. Non bisogna dimenticare quest’aspetto quando si considera la scultura dell’antico Egitto, cioè che essa era destinata in gran parte a garantire ai suoi esponenti la vita nell’oltretomba, specie di quelli più eminenti, quali, va da sé, i faraoni, i sacri figli del Sole destinati a ritrovarsi nell’alto del cielo accanto al Padre venerando una volta concluso il proprio numinoso soggiorno sulla terra. Ciò serve intanto a comprendere la ragion d’essere di quelle altrimenti assurde montagne di pietre quali potrebbero apparirci le piramidi, tanto imponenti ma nient’altro che solidi geometrici per essere considerati autentici monumenti dello spirito, ossia opere ascrivibili all’afflato della creazione artistica. Giacché la piramide, nient’altro che una tomba, la dimora sepolcrale del faraone così convinto della propria divina grandezza da desiderarne una eretta con centinaia e centinaia di massi di granito pesanti alcuni milioni di tonnellate, doveva servire a proteggere la mummia del faraone dalla corruzione del tempo e dalla profanazione degli uomini col peso eterno della sua mole grandiosa, ma altresì a propiziarne, attraverso il proprio apice puntato verso l’alto, l’ascesa al cielo onde ricongiungerlo rapidamente alla forza del globo solare da cui era stato generato.
Se lo scultore, in relazione allo scopo a cui era destinata la statuaria umana, veniva designato, in Egitto, come “colui che mantiene in vita”, l’architetto aspirava a una funzione ancora più importante e complessa, che, associandosi a quella dello scultore, forniva anche la dimora per invogliare gli dèi a soggiornare sulla terra accanto agli uomini, favorendo quel connubio tra umanità e divinità, e tra vita di qua e vita di là, che per il popolo egizio, forse più che per altri, qualificava l’esistenza e che spiega la predilezione per le dimensioni colossali, ritenute congrue al concetto di sovrumano, nella costruzione di dimore per la vita di qua, come a Luxor, “la città dei re”, e a Karnak e a Deir-el-Bahari, con i templi simili a immensi recinti caratterizzati da mura e colonne mastodontiche atte ad accogliere esseri appunto smisurati come gli dèi o i faraoni, loro figli e rappresentanti sulla terra; o a Sakkara e a el-Giza con le tombe imponenti per la vita di là, dove il dio defunto poteva intraprendere indisturbato il suo viaggio notturno per risalire alla luce solare.
In questa contiguità con la morte, quasi un vagheggiamento degli inferi intrattenuto dagli egizi continuamente e irresistibilmente, si potrebbe esser tentati di scorgere, come del resto facevano i greci e i romani, e prima di loro gli israeliti (per i quali l’Egitto era Sceòl, il regno dei morti), una possibile causa della mancata apertura sul resto del mondo d’una civiltà che, pur nella sua complessità e raffinatezza di costumi, non smise mai di civettare con l’idea del sonno eterno, certo condizionata in questo dalla limitatezza e labilità del suo mondo, circondato e isolato com’era da un deserto letale e sottoposto agli imprevedibili umori di un fiume-dio che poteva, con la pienezza o scarsità delle sue acque, decretarne la prosperità come l’estinzione, la vita come la morte. Eppure è proprio da quella società così sensibile alla caducità delle cose del mondo da non riuscire a dilatare il proprio orizzonte oltre l’eterno ritorno delle piene del Nilo – suo Nume ma anche suo imperscrutabile tiranno, bizzoso e incostante – che prenderà il via il vitalissimo percorso della cultura classica, a cui il vecchio Egitto aveva preparato il cammino sfrondando ampiamente l’arduo sentiero della civiltà. Quando ci si trova a tu per tu con le vestigia superstiti della cultura faraonica, apparentemente tanto remote e distaccate eppure, come dicevo, così familiari alla nostra sensibilità da farci ravvisare in esse il serbatoio archetipico della nostra memoria culturale, non possiamo nutrire dubbio alcuno sul ruolo di matrice ch’essa ha rivestito per tutti noi, in particolare per quella civiltà greca su cui si forgerà la coscienza luminosa dell’Occidente. Il debito della Grecia con l’Egitto apparirà manifesto, anzi irrefutabile a chiunque abbia avuto modo di esaminare la scultura ellenica delle origini, in particolare certe figure di kouros conservate in diversi musei greci, per il criterio strutturale della composizione rigorosamente geometrico e per la rigida frontalità della visuale; così come risulterà incontestabile la derivazione degli edifici greci da quelli faraonici – pur, questi ultimi, tanto più imponenti e concettualmente “sovrannaturali” – per l’uso al tempo stesso strutturale e ornamentale, ad esempio, delle colonne, fascinose unità architettoniche nate probabilmente proprio in Egitto e ideativamente derivate quasi certamente dai pali usati per innalzare e reggere la tenda dell’esistenza nomade, allorché l’uomo cominciò a costruire edifici permanenti ove trovare fissa dimora per sé e per i propri dèi dopo aver abbandonato la vita incerta ed errante del cacciatore-raccoglitore per quella stabile e più sicura dell’agricoltore. Così dovette accadere ai primi egiziani che decisero di prendere dimora definitiva presso il fiume che chiamarono Nilo, ravvisando in esso una fonte da cui trarre in permanenza il proprio sostentamento.

Dionisio

mercoledì 21 aprile 2010

La semplice arte della conversazione e chi cerca di ucciderla

Mi fu consigliato il libro di Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione. Scopo principale di questo volume è cercare di comprendere che non solo l'ozio non è il padre dei vizi, ma quando la gente aveva  tempo per bighellonare nacquero salotti, spazi privatissimi, dentro le case, il cui strumento basilare era la parola: la parola scambiata a voce, scritta nei diari, nelle memorie e in qualche romanzo, ma molto anche attraverso biglietti e lettere, scambi a metà tra il parlare e lo scrivere, usata come le generazioni odierne hanno usato il telefono e adesso la rete.



Più tardi arrivarono i caffé, ritrovi, piazze, giardini in cui ci si riuniva per parlare, per ritrovarsi e scambiarsi delle opinioni. E molte delle idee che si svilupparono nella nostra civiltà presero spunto da questi luoghi. Cosa c'è di più bello che conversare, passare del buon tempo scambiandosi delle opinioni con amici simpatici, senza prevaricarsi l'un l'altro e darsi sulla voce, come invece si vede fare stolidamente in tv? Eppure sembra che questa semplice arte che risale a quando è comparso l'uomo sulla faccia della terra, oggi sia costantemente messa in crisi da una serie di nuovi killer ammazza-conversazione:

  • la tv che coi talk show e i salotti politici imita le conversazioni dal vivo in versione esasperata e urlata per aumentare l'audience

  • i cellulari che quando si è con amici simpatici, si mettono a squillare proprio sul più bello di una conversazione interrompendola e frammentandola con sonerie e loghi. Inoltre hanno abolito la barriera della riservatezza.  

  • internet con le sua chat, i suoi social network, le sue community e i suoi forum che creano un falso rapporto di contiguità, di aggregazione fasulla e di interazione virtuale: insomma la fredda estetica della simulazione di quel che era fino a poco tempo fa, una normale chiacchierata "dal vivo".

  • un diverso riassetto urbanistico e la smodata urbanizzazione caotica delle città, che ha tolto o marginalizzato i più classici luoghi di incontro del nostro Paese.


  • non ultimo, la vita frenetica che conduciamo e l'aver ridotto i rapporti interpersonali a relazioni utilitaristiche, legate al lavoro. Pertanto, l'uomo moderno, finito il proprio lavoro, si ritrova nella condizione di monade isolata. Un caso tipico è dato dal periodo del pensionamento col sentirsi isolato dalle conoscenze che durante il tempo lavorativo facevano da riempitivo (ancorché surrettizio) all'esistenza.

Il modello di conversazione veicolato dai cosiddetti main streams è aggressivo, narcisista e crea un individuo ansioso e smanioso di mettersi solipsisticamente in mostra, del tutto incapace all'ascolto e al vero scambio di idee. Senza risalire alla Francia del '600 e '700 dell'Ancien Régime del libro della Craveri, ai diari, a i billets doux e ai bons mots, anche in epoche relativamente più vicine alle nostra esistevano ritrovi, luoghi, piazze dove, senza bisogno per gli individui, di attaccarsi al telefono prenotando l'incontro tra amici con qualche settimana di anticipo (perfino mesi, a volte) , era possibile incontrarsi.

I caffè letterari, sebbene frequentati da particolari élites, erano spazi in un certo senso "stanziali" e "fissi", opportunamente arredati per ospitare persone aventi il privilegio di avere molto tempo a propria disposizione per parlare. All'Accademia dei Pugni, nacque il Caffé dei Verri; a Trieste il mitico caffé degli Specchi (foto in bianco e nero, in alto al centro)  fu frequentato da Svevo e da Joyce. Poi i caffé letterari di Torino (il Baratti),  Firenze, di Venezia e del suo Florian, Cipriani e Harry's Bar. Roma era soprattutto nota  per le sue conviviali trattorie e ritrovi tipici per artisti in Via Margutta.  Impossibile stabilire una mappa dei caffé e ritrovi italiani legati alle lettere, alla musica e alle arti. Ma anche quali semplici luoghi di incontri.

Il Café de Flore a Parigi (St. Germain des Prés) venne frequentato dal gruppo esistenzialista di Sartre, Camus, Simone de Beauvoir, Juliette Gréco. E anche la Closerie des Lilas di Montparnasse, aperto nel 1847 divenne famoso sul finire del XIX secolo come luogo di incontro di artisti come Emile Zola, Cézanne, Théophile Gautier, Charles Baudelaire e i fratelli Jules ed Edmond de Goncourt .



La Closerie divenne leggendaria per aver accolto l'intellighenzia americana: Hemingway, Fitzgerald, Miller… Altri artisti che frequentavano questo locale erano: Amedeo Modigliani, André Breton, ancora Pablo Picasso, Jean-Paul Sartre, André Gide, Oscar Wilde, Samuel Beckett, Man Ray, Ezra Pound.  A Londra ad Hyde Park si mantiene ancor oggi il rito dello Speech Corner (foto piccola a sinistra) che ha origini antichissime e che è parte integrante della cultura britannica così attenta al freedom of Speech, anche nelle sue leggi.



Da questi esempi alti ed élitari, vorrei passare però, ad esempi di costume e stili di vita alla portata di chiunque. Il nostro è il paese del borgo, delle antiche corti e cortili e broletti, delle piazze, piazzuole e piazzette italiane, dei fatidici muretti e dobbiamo far rivivere il tutto. E' bello vedere dei capannelli di persone che si incontrano e stanno conversando insieme, in luogo dei poveri alienati smarriti in centri commerciali, outlet e "non luoghi", sotto le note di una musicaccia assordante, quasi  che gli uomini siano oggetti tra gli oggetti e  tra le merci.

Quando d'estate torno al mio paese alcuni antichi stili di vita riaffiorano alla mia memoria. C'era (e c'è ancora, per fortuna) una piccola cappella su per una mulattiera di mare, con una piazzetta dove le donne la sera (complice la bella stagione) si portano l'uncinetto o il ricamo chiacchierando amabilmente all'aperto sedute sulla lunga  panchina di pietra del sagrato mentre i bambini giocano allegramente intorno.

Durante il giorno gli uomini si mettono a trafficare intorno alle loro barche e mentre ne curano la manutenzione raschiando la vecchia vernice, restaurando le ordinate di legno e i pagliuoli con l'aiuto di qualche bravo maestro d'ascia, si crea intorno un capannello di amici che chiedono e danno consigli e si scambiano piccole tecniche di lavoro artigianale. Nel corso di questo tempo estremamamente dilatato, parlano di ciò che fanno e non di ciò che dicono i giornali, la tv, o i media sempre più intrusivi nelle nostre vite, fino a farne divenire vite inautentiche e "copiate". Ecco, questa è quella che io chiamo la "semplice arte della conversazione", senza null'altro scopo che saper stare in mezzo agli altri. Per imparare e per trasmettere, quello che i nostri mezzi di comunicazione di massa ci impediscono di fare. Poiché inutile negare che troppa comunicazione, nessuna comunicazione.

Hesperia

mercoledì 14 aprile 2010

Andiamo al MAR

Dal 28 febbraio fino al 6 giugno 2010, al Mar ,
Museo d’Arte Città di Ravenna, ha luogo la mostra
“I Preraffaelliti e il Sogno italiano. Da Beato Angelico a Perugino,
da Rossetti a Burne-Jones”
a cura di
Colin Harrison, Christopher Newall, Claudio Spadoni (catalogo Silvana Editoriale),
promossa dal Comune di Ravenna, Assessorato alla Cultura, Museo d’Arte della città, Ashmolean Museum di Oxford col sostegno Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, (dal 15 settembre al 5 dicembre 2010 presso l'Ashmolean Museum di Oxford).

Il progetto (1° sull’argomento in Italia) indaga il modello artistico e culturale italiano nel movimento Preraffaellita. Nasce in Inghilterra nella 2° metà dell’800, per un’arte vicina alla natura, apparentemente semplice, traendo ispirazione dai pittori prima di Raffaello.
Alcune costanti dei dipinti preraffaelliti: la scelta di colori vibranti, la semplificazione dei temi, un’espressività e concettualità ‘concentrate’ tipiche delle pitture dei tempi più antichi.
Ad influire sul movimento furono aspetti vari: l‘Italia e l’idealizzazione di una fase della nostra arte; il paesaggio italiano spesso mitizzato, la rappresentazione di figure letterarie
e le nostre arti visive fecero innamorare il gruppo di giovani artisti inglesi.
Il loro intento non fu solo citazionismo del passato, ma anche una proposta “d’avanguardia” contro l’accademismo sterile e le convenzioni delle arti inglesi dell’epoca,
per realizzare opere emotive, soggettive, personali, più sincere. (1)



(Dante Gabriel Rossetti "Dantis Amor")

I tratti definiti e pienamente composti delle immagini preraffaellite, quanto la scelta di luci spesso fredde ma diverse dalla luce 'accademica', il decorativismo accentuato, sono lontani anche dalle sperimentazioni di frammentazione e parcellizzazione del visibile dell’Impressionismo. Nonostante la connotazione più che tradizionale dei loro quadri, il loro stile fece scalpore all’epoca.

Negli anni in cui l'industrializzazione inglese esplode nell'Esposizione Universale di Londra (1851), si odono le prime critiche al sistema economico-sociale vittoriano.
Lo scrittore e critico d'arte John Ruskin (1819-1900) è in forte polemica con l'architettura industriale antiestetica, e un gruppo di studenti della Royal Academy prende il nome di "Confraternita dei Preraffaelliti" nel 1848:
William Hunt (1827-1910) di cui si ricorda "The Light of the World",
John Everett Millais (1829-96) autore della famosa Ofelia,
Edward Coley Burne-Jones (1833-98) autore della
Rinascimentale e Botticcelliana Scala D'Oro,
e il poeta pittore Dante Gabriel Rossetti (1828-82) la cui ispirazione è spesso dovuta a Dante
come negli acquerelli a illustrazione della Commedia, a temi biblici e non solo
(Autore della famosa Ecce Ancilla Domini quanto di Astarte Siriaca). (2)




(Dante Gabriel Rossetti "Dante che disegna un Angelo nel 1° Anniversario della morte di Beatrice")

Il Medioevo anche italiano cui si sentivano vicini comprendeva tradizioni patrie, Dante, Dolce Stil Novo, ingenuità primitiva: una dimensione in cui arte e artigianato erano vicini, in cui natura e cultura erano ancora alleati, un'epoca in cui non si fosse ancora frantumata l'unitarietà della percezione del mondo.
In pratica, il movimento Preraffaellita può essere interpretato anche come una delle ultime rivolte "against the modern world" incombente.
Ruskin condivide con il gruppo il disagio per la civiltà dell'industrializzazione selvaggia, critica il prevalere delle macchine e dell'automatizzazione su grande scala, nemiche di individualità e creatività.
Nel 1846 nel II Voll. "Modern Painters" Ruskin afferma che le bellezze naturali sono doni divini, e compito dell'arte è valorizzare il patrimonio religioso e spirituale della società.
Per la Confraternita e Ruskin il modello è il Medioevo inteso come età dell'oro della spontaneità, in cui il sentimento poteva ancora diventare protagonista della creazione d'arte (e non le convenzioni).
Questa chiave di lettura (scadimento di valori nel presente e nostalgia del medioevo come età autentica) erano già sentiti nella civiltà inglese: Walter Scott, William Blake.
Ma Ruskin crede nel vigore creativo dell'arte del presente come rimedio alla fine dei valori delle convenzioni vittoriane. I Preraffaelliti giungono anche a rifiutare l'arte Rinascimentale classica, specie Raffaello e i successivi grandi, che considerano già affetti da formalismo e accademismo (altra convenzione) diversamente dal medievalismo precedente più spontaneo.
Rossetti imposta anche le raffigurazioni sacre con attenzione al vero e al quotidiano, ma con l'andare degli anni il realismo dei particolari della sua pittura si sposa comunque ad atmosfere oniriche, sospese, oleografiche e un po' irreali, anche se affascinanti.
Lo studio insisitito dell'accostamento dei colori, del dettaglio più che realistico magari in figurazioni letterarie-mitologiche altrimenti sognanti, sottolinea alla fine l'irrealtà e aggiunge preziosismo che sfocia in alcuni casi in estetismo puro, preludio a simboli di movimenti e stili futuri.



(Burne-Jones "Musica")

La mostra segue più percorsi: l’affezione dei Preraffaelliti per l’arte italiana è rappresentata da opere di Beato Angelico, Perugino e altri pittori italiani dell'epoca, caratterizzati da rappresentazione del paesaggio storico e naturalistico italiano, in stile antiaccademico e amorevolmente spontaneo.
Il momento ultimo dei Preraffaelliti in Italia è nei lavori di Burne-Jones verso il 1880 nella Chiesa Episcopale di San Paolo entro le mura a Roma : la mostra comprende i disegni preparatori dei suoi mosaici.
Presenti anche i lavori della Scuola Etrusca, artisti seguaci del pittore Giovanni Costa.
L'itinerario distingue anche “Soggetti tratti dalla storia e letteratura italiane” ed “Estetismo, ispirazione Rinascimentale” (all'epoca dei Preraffaelliti il Quattrocento era ancora inteso nella storiografia come ascrivibile al Medioevo). L’ispirazione rinascimentale influenza la raffigurazione idealizzata della donna preraffaellita: la donna talvolta è mostrata come Angelo/Beata Beatrix Dantesca, in altri casi come bellezza magica/arcana tentatrice.

Accanto ai Preraffaelliti classici, va ricordato per i contatti che ebbe con i suddetti William Morris: a partire dalla sua idea di Medioevo ideale, la cattedrale con i suoi cantieri, come la bottega dell'artigiano di pregio, rappresentavano il modello opposto alla moderna 'fabbrica': con il suo neomedievalismo anti-industriale si battè contro l'estinzione dell'artigianato d'arte e per un'architettura di integrazione con l'ambiente e la storia, nel suo progetto delle Arts and Crafts.



(Il Giardino incantato di Messer Ansaldo, di Marie Stillman, dal Decameron di Boccaccio,
Giornata X Novella V)


Alcune delle opere esposte

(1)alcuni concetti sono stati liberamente rielaborati dalla presentazione della mostra;
(2) altri liberamente da 'Arte nel tempo' di De Vecchi-Cerchiari, Bompiani; 'Storia dell'Arte Italiana' Bertelli, Briganti, Giuliano, Electa, Mondadori

martedì 6 aprile 2010

Cinematografia: Voglio essere profumo

La Sacra di san Michele dal sito di Minniti info
Sotto: foto dal set di Voglio essere profumo, tratte dalla fototeca della GPG FILM

Sono stato incerto, se dedicare o meno questo mio spazio mensile all'argomento in titolo: parlare di cinema non è mai stato il mio forte; mi ha convinto Rai3, il 3 aprile. Nel programma del sabato, TGR Lombardia "Il Settimanale", in onda alle 12.30, è stato trasmesso il servizio completo del film "Voglio essere profumo", corredato di interviste al regista, agli attori protagonisti, e varie scene dal film. Ne avevo già parlato, in altro blog, nel luglio scorso, terminate le riprese. Quel giorno, 14 luglio, i telegiornali avevano dato ampio risalto al taglio del nastro inaugurale per la Cittadella del Cinema di Milano. Primo passo per creare a Milano il laboratorio del Centro Sperimentale di Cinematografia, che ha trovato sede definitiva negli edifici di archeologia industriale della ex Manifattura Tabacchi , in viale Fulvio Testi. La struttura, il cui progetto è in continuo divenire, è stata recentemente meta di visitatori, nei giorni 27 e 28 marzo, in occasione della diciottesima edizione della Giornata FAI di Primavera.
Giovedì 8 aprile, al cinema Excelsior di Lissone, verrà proiettato in prima visione il film di Filippo Grilli "Voglio essere profumo". Prodotto con scarsi mezzi finanziari, dalla GPG FILM, il lungometraggio è stato realizzato avvalendosi della partecipazione e collaborazione di uno staff di attori e operatori non professionisti. Ne ho seguito l'iter produttivo, e costoro, senza nulla percepire, ma animati unicamente dallo spirito di ben figurare, hanno dato il massimo di se, nell'interpretazione dei rispettivi ruoli, sia in qualità di attori protagonisti e non protagonisti, che di operatori di ripresa, tecnici del suono, e quant'altro, tra cui le centocinquanta comparse . La presentazione ufficiale è avvenuta il 23 marzo scorso, all'Auditorium di Palazzo Terragni, a Lissone. Informazioni sul Calendario delle proiezioni si possono ottenere da questo link .
Il film, costato appena 30.000 euro, è un esempio concreto di come si possano realizzare comunque buone opere, spendendo relativamente poco, e senza ricorrere ad aiuti e contributi statali. Dalle pagine di vari blog in collegamento con questo, ho spesso letto di film cosiddetti patacca, che hanno comunque beneficiato di aiuti e contributi statali, senza che avessero un minimo di requisiti educativi e formativi. Filippo Grilli fa parte di quella generazione di giovani coraggiosi registi emergenti, i quali potrebbero dimostrare come si possano realizzare buone opere, senza dover necessariamente spendere cifre esorbitanti. Di questo drappello di giovani coraggiosi registi ne ha parlato ad UnoMattina di ieri, 5 aprile, il regista Sergio Stivaletti, creatore e maestro di effetti speciali, che ha lavorato per 18 anni con Dario Argento.
Ricco dell'esperienza acquisita sul campo, con i suoi due film prodotti nel milanese, Filippo Grilli potrebbe anche dimostrare agli scettici nazionali e internazionali, come si può produrre del buon cinema anche a Milano, da Milano.
Procedendo con i lavori di adeguamento dell'ex edificio industriale-manifatturiero, in set cinematografici, i produttori milanesi di cinema potranno così disporre di strutture adeguate; le quali, unite agli innumerevoli scenari naturali di qualsiasi genere - monti, colline, laghi, fiumi, canali, campagna, cascine storiche, città d'arte - di cui la Lombardia dispone, Milano potrebbe acquisire un ruolo di primo piano mondiale anche nel settore cinema: idee, e giovani di talento, come Filippo Grilli, non mancano.
Fonti di idee? C'è solo l'imbarazzo delle scelte. Basti pensare ai numerosi romanzi di Andrea Vitali - tra i quali, La signorina Tecla Manzi, Un amore di zitella, La figlia del Podestà, Almeno il cappello - tutti ambientati sul lago di Como, ramo di Lecco, con epicentro a Bellano, per i quali nessuno ha finora pensato ad una loro trasposizione cinematografica. L'unico film, ispirato ad un romanzo di Andrea Vitali, è stato Il segreto di Ortelia, peraltro di tema un pò scabroso. Invece, film prettamente per ragazzi, ambientati a Milano, in Lombardia, o nella Bassa della Pianura Padana, si potrebbero ricavare dai numerosi brevi racconti di Giovannino Guareschi, traslandoli in una sorta di episodi stile amarcord: ricordi legati agli anni '60.
Leggendo la trama di "Voglio essere profumo", il mio pensiero è andato al ruolo avuto dalla Divina Provvidenza, nel contesto della storia. Ha infatti fatto si che si incrociassero i destini dei cinque personaggi del film, con quello del giovane seminarista lissonese, Francesco, al secolo Alessandro Galimberti, realmente vissuto e morto prematuramente un anno prima della consacrazione. Il tema della Divina Provvidenza, sfiorato forse inconsciamente da Filippo Grilli, è stato caro ai grandi Poeti della cristianità: Dante Alighieri, nell'XI Canto del Paradiso, con l'apoteosi di San Francesco e San Domenico; Alessandro Manzoni, col personaggio immaginario di Fra Cristoforo.
Ma il film sarà bello anche per le location che sono state scelte per le scene in esterni. In particolare, una scena cloù del film è stata girata alla Sacra di san Michele, antichissimo santuario, del quale, personalmente, ignoravo totalmente l'esistenza. Arroccata sulla cima del monte Pirchiariano, in provincia di Torino, la Sacra di San Michele è molto ricca di storia ("Vide l'uomo delle caverne a Vaie e a Villarfocchiardo, i pastori e gli agricoltori neolitici, i palafitticoli dei laghi di Avigliana e di Trana. Fortificato dai Liguri e poi dai Celti divenne, nell'epoca storica e fino al 66 d.C.,..."), e di bellezza straordinaria; per dare un'idea immediata, è come un Mont Saint-Michel, in scala leggermente ridotta; credo gli manchi solo il mare intorno. Dal trailer del film, e dai Percorsi fotografici Sacra di San Michele, potrete farvene un'idea.
Vi sono anche le scene girate a Montevecchia, una località che, distando solamente 30 km dal centro di Milano, farà ricredere a quanti pensano che la metropoli meneghina sia solo una città di cemento e di fabbriche.
Avendo parlato di laghi lombardi, nel film ce n'è per tutti i gusti. Infatti vi sono scene girate a Mandello del Lario, sul frontelago, in località Olcio, e in una baita sita su un'altura nei suoi pressi. Tra le scene in esterno, non mancano poi quelle girate all'interno del Seminario di Venegono Inferiore.

Scritta dal regista, trascrivo una breve trama del film:
"Ispirato alla vita di Alessandro Galimberti, giovane seminarista lissonese, morto prematuramente all'età di 24 anni, il film esplora e racconta le vicende di cinque personaggi, all'inizio sconosciuti tra loro, uomini e donne con aspirazioni e vite diverse ma tutti con l'analogo bisogno di comprendere come la loro esistenza si evolverà, alle prese con i dubbi che li accompagnano. Cinque giovani che potrebbero non incrociarsi mai se il caso non ne ponesse sulla loro strada una sesta, Francesco, alle soglie del sacerdozio, che con le proprie certezze e la forza di una fede e di una passione radicate nell'animo, riuscirà a diventare catalizzatore delle loro insicurezze tanto da incidere nelle coscienze altrui fino a marchiarle in profondità e ad ergersi ispirazione e strumento di crescita morale. Grazie alla sua vicinanza i dubbi dei protagonisti, giunti a contatto con il profumo della vita che Francesco simboleggia, lasciano il posto ad una consapevolezza che lui con il suo insegnamento continua a rappresentare per divenire un esempio, anche quando una terribile malattia avrà voluto sradicarlo dalla loro vita."
Commento personale: ai produttori Grilli-Perego-Grilli, va riconosciuto il merito di aver prodotto un buon film, senza pesare sulle casse dello stato. Gli unici contributi per "Voglio essere profumo" sono infatti arrivati con i preziosi patrocini dei comuni di Lissone e di Biassono, nonchè dell'Arcidiocesi di Milano e della Diocesi di Como. Il ricavato dalla vendita di biglietti, dvd e quant'altro andrà tutto in beneficenza per due progetti già prestabiliti.

Trailer ufficiale del film