lunedì 29 novembre 2010

Colonne Sonore e Film, Frammenti di Immaginario

Cos'è in fondo il cinema, oltre che...'storie', al di là delle teorie analitiche e della critica, per noi individualmente, se non frammenti di immaginario, di interiorità rappresentata che si confonde spesso con la percezione della nostra vita?
O meglio quanto c'è di noi in quei momenti privilegiati,
costituiti dalla somma di un'inquadratura, un gesto, un volto, parole e alcune note musicali culminanti?


Ci sono più elementi che concorrono alla riuscita, o meno, di un'opera cinematografica: letteratura/sceneggiatura, découpage, montaggio, fotografia, regia, recitazione...perchè un film è comunque un punto di intersezione tra più arti e linguaggi. O, secondo altri, può anche essere anche un 'tritatutto' di vari codici espressivi più alti.

Pur se di solito un po' in secondo piano per chi si occupa di linguaggio cinematografico, anche le colonne sonore hanno importanza basilare: ce ne sono alcune che sono solo funzionali al film (ne costituiscono cioè solo il 'fondo sonoro' come le chiamava talvolta Buñuel negli anni 60-70 quando non ne faceva quasi uso).
Eppure ce ne sono altre che a volte hanno un valore maggiore del film stesso, o hanno una tale personalità da fuoriuscire dal loro ambito, costituire un'opera d'arte indipendente e diventare classici, altre volte ancora s'integrano perfettamente con i contenuti del film attraverso la resa puntuale di un clima emotivo, psicologico.
Altre non sono state composte appositamente per il film, ma provengono dalla storia della musica, e sono materiale di pregio preesistente scelto per alcune scene, di solito per intensificare e impreziosire una sequenza.
In questo ultimo caso si ricorda l'uso enorme, da parte di Visconti,



(nella foto, Romy Schneider in 'Ludwig', 1973)

di Wagner, Strauss, Mahler e altri grandi pezzi di classica, che non esemplificheremo ora, perchè servirebbe un'enciclopedia solo all'uopo. Molti di questi classici servono ad ambientare meglio la vicenda dei singoli in un'epoca e a contestualizzare, altre volte vengono però usati anche 'in modo improprio', almeno all'orecchio di un cultore musicale, perchè rifunzionalizzati a voler significare altro da ciò che il musicista dei secoli passati voleva dirci, anche se almeno nel caso di Visconti c'è una maniacale cura nella ricostruzione storica.

Oppure si incontra l'uso strategico, come contrappunto tra le sequenze, di Schubert in 'Barry Lyndon' (1975) di Stanley Kubrick.

O ricordiamo il caso peculiare di un film come 'Anonimo Veneziano' (1970) di Enrico Maria Salerno, che oltre al famosissimo tema di Stelvio Cipriani, rinfrescò la memoria classica con l'uso del Concerto per oboe e archi di Alessandro Marcello, che gode da allora di una seconda (o meglio, ennesima) giovinezza.

Gli esempi sono tra i più disparati. Qui si tenta di ricordare alcuni momenti privilegiati di colonne sonore, di valore già di per sè, magari non solo secondo il banale schema 'canzone e film', ma il meno possibile scontati all'interno della questione espressiva 'cinema e musica'.

Un caso particolare è il film 'Diva' di Jean Jacques Beineix (1981), che tra l'altro riflette sul tema del divismo in epoca contemporanea, in relazione alla musica lirica, ma anche al copyright, all'unicità della performance d'arte, alla riproducibilità (reale o meno) dell'evento musicale 'vivo e vero' nelle registrazioni: la colonna sonora ha bei brani di Vladimir Kosma, ma anche un'interpretazione 'iconica' dell'aria 'Ebben...n'andrò lontano' tratto dalla 'Wally' di Alfredo Catalani, cantato da Wilhelmenia Wiggins Fernandez nello stesso girato del film.

Un ulteriore rapporto privilegiato musica/film è "Tè nel Deserto" di Bernardo Bertolucci (1990): al di là del giudizio sull'opera, la colonna sonora di Ryuichi Sakamoto ha animato letteralmente molte sequenze, dato vita a momenti a volte quasi panoramico-documentaristici, aggiungendo un'idea di destino incombente, comunque presente nel film, con quel modo di comporre attento alle atmosfere, alle minime variazioni degli stati d'animo, fino a rendere la musica metafora e co-significante al film, a suggerirci che il 'deserto' di cui si trattava era prima di tutto un deserto interiore, un senso di perdita di sè che diventava 'Sheltering Sky'.
Sakamoto è un notevole compositore, che da anni si è imposto sia per colonne sonore straordinarie, sia nelle collaborazioni con David Sylvian, o nel jazz colto, e nella musica pop (ma di qualità), oltre ad essere un pianista (di tutti i generi) fuori dal comune.

Sempre da Bertolucci, invece per il film "Io ballo da sola" (96) è stata scelta una colonna sonora mista di brani pop-rock contemporanei, non tutti all'altezza a mio avviso, tra cui il ripescaggio degli ottimi, ma adoperati ormai ovunque, film e spot, Portishead.
Da segnalare invece lo straordinario brano "Alice" dei Cocteau Twins, che si dipana in diversi piani sonori grazie alla voce angelica di Elizabeth Fraser, icona della new wave inglese, inventrice del dream pop etereo fin dai primi anni 80.
Un'altra piccola perla audio è 'Take me with you' di Elizabeth Fraser per il film/fiaba esistenziale 'The Winter Guest/l'Ospite d'Inverno' (97, reg. A. Rickman), con musica di Michael Kamen, che fa rivivere quella Scozia letteraria e poetica, intimista e morale, così diversa dall'attualità urlata o dal cinema 'da rotocalco'.
Elizabeth è stata un'innovatrice, ma in fondo anche nello sperimentare è rimasta piuttosto vicina alla mistica particolare della sua terra. Chissà non sia anche questa la via maestra contro il deperimento delle arti:
distillare emozioni reincontrando il proprio animo e non negando le proprie origini, lontano da un mercato che appiattisce e omologa tutto, e che vorrebbe farci aderire a modelli spersonalizzanti, preconfezionati e mercificati, pre-decisi da altri.

Ancora Sakamoto è autore della notevole colonna sonora del discusso film 'Merry Christmas Mr. Lawrence/Furyo'(di Nagisa Oshima, 83) con il notissimo brano Forbidden Colours, anche in versione vocale, cantata da David Sylvian.




(fotogramma da "Il Ventre dell'Architetto", 87, Peter Greenaway)

Per tornare a 'classici contemporanei' vanno ricordate le scelte musicali particolarmente mirate per molti film di Peter Greenaway, da sempre interessato ai legami tra cinema e lettere, arte, architettura, pittura, geometria, moda, campi che ha indagato via via nei vari film.

'Il ventre dell'architetto' per esempio sviluppa la trama unitamente ad un percorso visivo nell'architettura, romana specialmente, avendo come contrappunto le musiche coinvolgenti di Wim Mertens e Glenn Branca.

Michael Nyman (a parte la ricca carriera di compositore in proprio) oltre a lavorare in molti successivi film di Greenaway, per 'Drowning by Numbers' (88) in particolare scrive Trysting Fields che è una sorta di riflessione e ampliamento su temi mozartiani, e al contempo un pezzo suggestivo. Grande maestria che si ritrova anche in 'The Piano' per 'Lezioni di Piano'(93) di Jane Campion.

Da ricordare anche Wojciech Kilar per la sua fitta attività di compositore contemporaneo, grandi partiture per orchestre d'archi, e nel cinema per la sua colonna sonora al 'Dracula' di Coppola (92) in cui spicca 'Love remembered', ma molto di più per la colonna sonora drammatica per 'The 9th Gate/la Nona Porta' di Polanski (99), e l'intenso motivo Vocalese con il soprano Sumi Jo.

Sarebbe il momento di parlare del nostro Morricone, richiederebbe a sua volta un'enciclopedia a parte, ne sono già state scritte; tento di dire allora qualcos'altro: il suo influsso è stato molto forte, nei generi più disparati. Il suo modo di fare musica, dai lenti più sognanti alle tipiche chitarre cadenzate degli spaghetti-western (si pensi anche solo ai suoi lavori per Sergio Leone) sono fuoriusciti dall'ambito cinematografico, e ampiamente ripresi in vari generi musicali.
Nel Neofolk, Folk Apocalittico-Marziale e nel Military Pop dei gruppi degli ultimi 20-30 anni, valga su tutti l'evidenza dell'influsso morriconiano su alcuni brani dei Death in June, seppur frammisto a suoni più rituali e Old Europa di un'epica personale propria: "The Honour of Silence"




(scena da 'Fantasma d'Amore' di Dino Risi, 1981)

Non si parla mai molto invece del talento compositivo di Riz Ortolani, un'altra vita spesa per la musica al cinema. Innumerevoli sono le sue colonne sonore, alcune famosissime, altre ingiustamente sottovalutate: in questa sede ricordo il suo raffinato lavoro per 'Fantasma d'amore' (1981) di Dino Risi, film che appartiene alla fase drammatica-introspettiva del regista, e uno degli ultimi film della Schneider: attrice fuori dal comune ricordata però nel mondo più per la leziosa serie di Sissi, che non per i film, d'Autore e non, piuttosto intensi che girò da adulta.
Una parte della Soundtrack sono composizioni di Ortolani, virate a un jazz fumoso, coniate sulle atmosfere del film girato a Pavia, e illuminate da Benny Goodman, guest star dell'operazione.
Ma i brani più suggestivi e lussureggianti sono di Ortolani e la sua orchestra, giocati sull'ossessione dei sentimenti, del tempo e delle persone perdute nella nebbia della memoria, tra fantasmi e follia.

In ambito musica/cinema affrontiamo il jazz stavolta solo di sfuggita, evitando il musical e Broadway, il rapporto classico tra Jazz e Noir, ma almeno alcune colonne sonore sono memorabili e rimaste nella storia:

'Ascensore per il patibolo' è un film noir di Louis Malle (57), con Jeanne Moreau.
Miles Davis creò la colonna sonora guardando il film, e improvvisandoci sopra in maniera stravolgente.



(Jeanne Moreau, fotogramma da 'Ascensore per il patibolo', di Louis Malle, 1957)

'Let's get lost' è un film di Bruce Weber (88) sulla vita del trombettista jazz Chet Baker, la colonna sonora è costituita da vari brani di Chet, che diventano la narrazione stessa della sua vita in un b/n sgranato.

Da 'One from the heart' di Francis Ford Coppola (82), da notare la collaborazione tra Tom Waits & Crystal Gayle (con Jack Sheldon e Chuck Findley alla tromba).

'Taxi Driver' il famoso film del 76 di Martin Scorsese ha una colonna sonora del genio del secolo in questo ambito, Bernard Herrmann (già storico compositore Hitchcockiano, si pensi solo al ruolo della musica ispirata ma così precisa nel contrappunto ritmo/montaggio in Psycho, Vertigo)qui impreziosita dal sax fluido di Tom Scott.

In jazz e dintorni ancora non posso non citare the Divine Sassy, ovvero l'enorme Sarah Vaughan, con una sua perla, in collaborazione con Quincy Jones, per il film 'Fiore di Cactus' (1969, Gene Saks);
o non ricordare l'esplosiva Shirley Bassey, l'icona degli 007 dalle enormi possibilità vocali, tuttora in attività.




(fotogramma da 'Il cielo sopra Berlino' di Wim Wenders, 87)

Cambiando genere, va segnalata l'originalità anche di una sorta di Road Movie Music unita al forte senso di fatalità del noir USA riletto però in Nord Europa nell''Amico americano' (77) di Wim Wenders, tratto da Patricia Highsmith, che mostra tra l'altro una Amburgo e Monaco di Baviera raggelate, mai inquadrate in quella maniera. La colonna sonora particolare e carica di tensione è dell'ottimo Jürgen Knieper, presente ancora per decenni in collaborazioni con Wenders, che qui gioca con gli archi e una melodia quasi intimistica per chitarra, rotta da improvvisi pieni orchestrali.

In seguito Wenders si appoggerà anche a colonne sonore composte di brani svariati di gruppi rock-d'avanguardia contemporanei, molto riuscito il brano per 'Until the end of the world' (91) dei Crime + City Solution 'The Adversary'; da notare anche la presenza di David Darling, violoncellista di classe, (e certo, dei famosi U2 su cui invece glissiamo volentieri).
Ancora va ricordata la cura nelle musiche per l'epocale e poetico 'Il cielo sopra Berlino' (87) che contiene anche uno dei pezzi migliori di Nick Cave.



(fotogramma da 'Il cielo sopra Berlino' di Wim Wenders, 87)

Sempre nell'ambito cinema e rock di spessore, per l'inquietante 'Lost Highway'(97) David Lynch usa un bel brano di David Bowie 'I'm deranged',
e Nine Inch Nails 'the perfect drug', volutamente allucinati, oltre alle parti in collaborazione ormai storica con Angelo Badalamenti (già in Twin Peaks).

Per 'Batman returns' (92) Siouxsie scrive una conturbante 'Face to face' con Danny Elfman, giocato sul tema del doppio.
Nella colonna sonora di 'The Crow'(94) c'è uno degli ultimi brani benriusciti dei Cure 'Burn'.

'Miriam si sveglia a mezzanotte/the Hunger' di Tony Scott (83) è stato un film simbolo estetizzante per una generazione: non molto considerato dal punto di vista di contenuti e regia, pare ai più una sorta di videoclip con un montaggio molto moderno per l'epoca, un delirio formale di erotismo patinato, vampirismo contemporaneo in senso lato in relazione con la sessualità.
Forse meno leggero di quel che si dica, in realtà la colonna sonora è curata, composta da brani classici (Lakmè di Léo Delibes) e rock-darkwave, entra nello stesso narrato:
il film si apre con Peter Murphy dei Bauhaus, in un locale notturno, che interpreta 'Bela Lugosi's dead'(ripresa ampiamente anche in spot pubblicitari, come le scelte tecniche-stilistiche per il montaggio del suono sulle immagini).



(Catherine Deneuve in 'Miriam si sveglia a Mezzanotte'/'the Hunger' di Tony Scott, 1983)

In questo modo, tentando di riconciliare il passato col presente, cosa che non sembra riuscire molto bene, nei rispettivi film, ai personaggi di Miriam, nè a Nino nel 'Fantasma',
concludiamo, anche se molto altro ci sarebbe da dire, e forse proseguirà in post futuri. Nei film citati, per un motivo o un altro, la musica ha un ruolo notevole, oltre la funzione di vaga sottolineatura della visione.
L'ideale sarebbe avere questi dischi sottomano, e aver presenti tutti i film,
ma tutto può essere lo stesso divertente facendo il percorso insieme, e cliccando sui vari links.

Josh

lunedì 22 novembre 2010

Lelio Luttazzi, la classe non è acqua



Qui sul Giardino, manca un po' di musica. E colgo questa occasione per porvi rimedio. La musica non è come la scrittura o come la pittura, non lascia tracce (a parte gli spartiti) e vola, ma ci rende il cuore lieto.
Non ho scritto un post alla morte di Lelio Luttazzi che è avvenuta sommessamente l'8 luglio scorso, perché non amo i coccodrilli, ma in questo paese distratto e irresponsabile, mi pare che un tributo, ancorché tardivo a un vero Signore d'alta classe del jazz-swing italiano , della buona musica leggera, gli vada garantito.

C'era una volta la tivù elegante. Quella che al sabato sera vestiva in smoking i presentatori e in abito lungo le cantanti. Lelio Luttazzi fu anche presentatore discreto. Presentatore e non "conduttore" come è in voga oggi, dove si pippobaudeggia istrionicamente cercando di oscurare gli ospiti. Lelio no, lui si limitava a introdurre con un sintetico: "Signori.....Minaaaa!".
Luttazzi ha una vena stramba, folle e surreale. Le sue canzoni parlano di zebre che invece delle strisce, hanno i pallini (pois), di giovanotti matti. Di colpi di luna invece di colpi di sole che ti fanno mettere in testa la borsa del ghiaccio quando ti innamori , di giovanotti che a squarciagola cantano anche se sono stonati, di cani triestini che si ubriacano davanti a "un fiasco de vin". Insomma, anche l'amore che è il soggetto principale di tutte le canzonette è cantato con stravagante scanzonata ironia.

Nato a Trieste e morto a Trieste, città dove al largo del suo mare, ha voluto che dopo morto,  venissero disperse le sue ceneri, dalla sua barca chiamata Oblomov, in una ristretta cerimonia per pochi intimi.
E a proposito di Oblomov il personaggio principale di Ivan Alexandrovic Goncorov, Lelio ha una sua personalissima teoria. Oblomovismo è infatti quell'atteggiamento passivamente blasé di chi ritiene non valga la pena di lottare contro l'umana idiozia. Leggere questo significativo passaggio per saperne di più.
Durante la sua lunga e prestigiosa carriera Lelio Luttazzi è stato musicista, cantante, compositore, direttore d'orchestra, attore e presentatore tv.
Nato a Trieste il 27 aprile 1923 è figlio di Sidonia Semani (maestra elementare a Prosecco, paesino nelle vicinanze di Trieste) e di Mario Luttazzi. E' grazie al parroco di Prosecco che il giovane Lelio si avvicina alla musica e allo studio del pianoforte. Studia presso il Liceo Petrarca di Trieste, dove instaura una profonda amicizia con il compagno di classe Sergio Fonda Savio, nipote di Italo Svevo.

Prosegue gli studi iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Università di Trieste; durante questi anni - in cui scoppia la Seconda Guerra Mondiale - Lelio Luttazzi inizia a suonare il pianoforte a Radio Trieste; compone inoltre le sue prime canzoni.
Il 1943 è caratterizzato da un incontro che cambia la sua vita: assieme ad altri compagni di ateneo, Lelio si esibisce al teatro Politeama in uno spettacolo musicale; i ragazzi aprono il concerto di Ernesto Bonino, cantante torinese molto in voga all'epoca. Quest'ultimo rimane tanto colpito da Luttazzi che al termine dell'esibizione gli chiede di comporre una canzone per lui. Lelio accetta la sfida: dopo poco tempo invia il suo pezzo e Bonino nel 1944 lo incide su vinile. La canzone è la celeberrima "Il giovanotto matto", che diventa un grande successo.
 
Finita la guerra, la SIAE riconosce a Luttazzi un guadagno di 350.000 lire, che allora era davvero da considerarsi una somma notevole. Lelio non ha più dubbi, vuole intraprendere la carriera di musicista, così decide di abbandonare l'università. Nel 1948 si trasferisce a Milano e inizia a lavorare come direttore musicale, presso la casa discografica CGD. Per Teddy Reno nel 1948 scrive "Muleta mia", in triestino "ragazzina mia".
Due anni più tardi (1950) diventa direttore d'orchestra a Torino per la RAI. Lelio Luttazzi dà il via a una strepitosa carriera che lo vedrà imporsi come artista a tutto tondo. Tra il 1954 e il 1956 lavora nel programma radiofonico a quiz "Il motivo in maschera", presentato da Mike Bongiorno. Intanto scrive canzoni dal carattere apertamente jazz, piene di swing, interpretandole al pianoforte e cantandole in uno stile molto personale: tra le più note ricordiamo "Senza cerini", "Legata ad uno scoglio", "Timido twist", "Chiedimi tutto", "Sono pigro". Compone brani sempreverdi quali "Una zebra a pois" (cantata da Mina), "Vecchia America" (per il Quartetto Cetra), "Eccezionalmente, sì" e "Mi piace" (per Jula De Palma), "You'll say to-morrow" (registrato in italiano da Sophia Loren). "Souvenir d'Italie", il citato "Bum Ahi! Che colpo di luna" (ancora per Mina).  "El can de Trieste", da Lelio cantata in dialetto triestino, la simpaticissima "Canto anche se sono stonato" rifatta anche da Christian De Sica.
Come conduttore televisivo presenta trasmissioni quali "Studio 1" (con Mina), "Doppia coppia" (con Sylvie Vartan), "Teatro 10". Lelio Luttazzi è anche attore: recita ne "L'avventura" di Michelangelo Antonioni. Cosa c'entrava con i temi dell'incomunicabiltà Luttazzi? Eppure la sua presenza era pur sempre pertinente e coerente con l'atmosfera del film. Poi "L'ombrellone" di Dino Risi. Compone inoltre la colonna sonora di diversi film tra cui "Totò, Peppino e la malafemmina", "Totò lascia o raddoppia?" e "Venezia, la luna e tu".
La trasmissione che più d'ogni altra gli procura grande fama è la radiofonica "Hit Parade", una vetrina settimanale dei dischi più venduti, andata in onda ininterrottamente per 10 anni dal 1966 al 1976.

Proprio mentre si trova all'apice del suo successo, nel giugno del 1970 la vita di Lelio Luttazzi viene scossa da un fulmine: con l'accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti l'artista viene arrestato, assieme all'attore Walter Chiari. Dopo 27 giorni di carcere è libero di uscire, completamente scagionato e prosciolto da ogni accusa. Durante gli anni successivi a questo fatto, che profondamente lo segna,  rimane amareggiato dalla lapidazione mediatica cui viene sottoposto e si inabissa nel male oscuro della depressione. Ne risente anche l'amicizia con Walter Chiari e la sua vita di relazione.  Lavora saltuariamente tra radio e tv, preferendo alla fine ritirarsi a vita privata, consapevole della caducità  ingannevole di una vita troppo esposta ai riflettori. E allora l'elegante personaggio di Oblomov gli verrà in soccorso per farsene uno schermo.
Dopo il 2000 torna a essere ospitato da varie trasmissioni sia radiofoniche (W Radio2 di Fiorello) che televisive. Torna sul piccolo schermo come interprete nel febbraio 2009, quando durante il Festival di Sanremo 2009 (condotto da Paolo Bonolis), Lelio Luttazzi - in qualità di ospite illustre - accompagna la giovane Arisa (nella foto a sinistra), la quale vincerà il Festival con il brano "Sincerità" nella categoria delle "Nuove proposte". Fu in quell'occasione che a Lelio venne conferito il Premio speciale alla carriera. Sono le ultime scintille di una carriera prodigiosa di questo signore di gran classe.
Nel maggio del 2008 Lelio Luttazzi, dopo oltre 57 anni trascorsi tra Milano, Torino ma soprattutto a Roma, dove ha abitato dal 1953, decide di trasferirsi definitivamente insieme alla moglie nella sua città natale, a Trieste. Ed è proprio in quella sua amata Trieste  che il maestro morirà  all'età di 87 anni a causa di una neuropatia. La barca Oblomov ora non solca più l'Adriatico.

Riascoltiamolo in questi strepitosi File musicali:
http://www.youtube.com/watch?v=lwgN5cJxw8A&feature=related (Luttazzi e Lionel Hampton in jam session).

Hesperia

lunedì 15 novembre 2010

Veronica Gàmbara, la poetica del tutto


Nota introduttiva

Data la complessità dell'argomento, per questione di brevità ho dovuto operare parecchi tagli; l'alternativa sarebbe invece stata quella di pubblicare il post in almeno tre volte. Ho così appena accennato ad argomenti basilari per la comprensione della trattazione; ad esempio, come alle amicizie con Pietro Bembo, Vittoria Colonna, Bernardo Tasso, Isabella d'Este; o gl'incontri folgoranti con lo statuario Francesco I, e il carismatico Carlo V, o la corrispondenza intrattenuta con i vari pontefici dell'epoca. Dell'incontro con Ludovico Ariosto ne ho accennato in questo post. Trascuro addirittura degli scambi punzecchianti avuti con Pietro Aretino; punzecchiato e domato a sua volta dalla Gàmbara. Del ciclo conclusivo della Poetessa, quello della religione, e dell'abbandonarsi alla fede cattolica, pubblico soltanto una poesia in conclusione di post: data l'abbondanza e complessità di avvenimenti storici di quel periodo, è mia intenzione tornare sull'argomento.
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In un tempo in cui il poetare era prerogativa solo maschile, e riservata ai nobili, la contessa di Correggio e la marchesa di Pescara, in quanto donne, furono due notevoli eccezioni. Quasi coetanee, Veronica Gàmbara era nata nel 1485, Vittoria Colonna nel 1490, ebbero del matrimonio esperienze totalmente diverse, i cui sentimenti riversarono fulgidamente in poesia: per la contessa un'esperienza esaltante e felice, per la marchesa travagliata e tormentosa.

La Gàmbara, cresciuta in un ambiente stimolante per un letterato, cominciò a comporre versi fin da bambina, arte che poi, crescendo, le tornò anche utile.

In età matura, facendo leva sui versi e su lettere dall'impostazione poetica, ha cercato, per mezzo di essa, di dirimere anche dissidi esterni al regno, che si trovò a dover governare. Anche se lei non scrisse mai con l'intenzione di vedersi poi pubblicare le proprie lettere private, gli altri, secondo una prassi comune del tempo, corrispondevano in maniera pomposa e ricercata, col preciso scopo che poi la loro corrispondenza privata sarebbe diventata oggetto di stampa. Appena ebbe le redini di Correggio, nel mentre sulle acque del Lario, a Musso, in Brianza e in tutto il Milanese si svolgevano le vicende anche sanguinarie legate al Medeghino, qui raccontate, e la Romagna era appena stata scossa dalle imperiose gesta del Valentino, nel piccolo regno di Correggio, posto nel mezzo dei due, la contessa Gàmbara governava la piccola contea in maniera totalmente diversa che non a quei due, con blando uso di armi, o forza. Infatti, durante i 32 anni di suo governo, nella contea fu registrata una sola condanna capitale, e si ricorda di un ricorso alla forza ed alle armi nel 1526 quando, per difendersi dall'aggressione di ottocento fanti, comandati da Fabrizio Maramaldo, fu necessario mobilitare tutti i cittadini, invitandoli ad imbracciare le armi. Gli ottocento fanti furono poi cacciati, ma lasciarono comunque dietro di se morte, fame, desolazione e pestilenza.

Veronica Gàmbara era di indole pigra, le piaceva la buona tavola, ed era pingue di corporatura; sarà stato anche per questo che aveva avuto una certa difficoltà a maritarsi, tanto che dovette intervenire sua madre, che chiese aiuto in tal senso alla propria famiglia d'origine, i Pio di Carpi. E sarà stato forse anche per la sua pinguedine che di lei non c'è alcun ritratto, nonostante Antonio Allegri, detto il Correggio, fosse il pittore ufficiale di casa Gàmbara. Aveva ventiquattro anni, e fu un gran sollievo per i suoi, quando si celebrarono le nozze, dapprima per procura, col quasi cinquantenne Giberto X da Correggio. Questi era anche il
vedovo di Violante dei Pico della Mirandola, dalla quale aveva avuto due figlie e, come detto, era anche imparentato con la sposa per parte della madre di lei, Alda dei Pio di Carpi. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, per via della forte differenza d'età, per Veronica fu la svolta della vita, e la felicità, anche se di breve durata; rimase infatti vedova dopo nemmeno dieci anni di matrimonio. Ciò non di meno il loro fu un matrimonio stabile e reso felice dalla nascita di due figli, che sarebbero potuti diventare di più, se un intervento chirurgico, resosi necessario per salvarle la vita, la privò del piacere di diventare madre ancora. Al contrario dell'amica Vittoria Colonna, infelice per quel marito giovane e forte, ma sempre in giro per il mondo in cerca di battaglie e di femmine, il marito di Veronica, ormai non più giovane nè forte, aveva deposto le armi ed aveva dedicato alla moglie ed alla prole il resto dei suoi anni. Il matrimonio per procura, senza che i due non si erano forse mai visti prima, era avvenuto il 6 ottobre 1518, una ricorrenza che la poetessa ricorderà sempre, anche e soprattutto nei 32 anni di vedovanza. Veronica era rimasta abbagliata dal di lui aspetto al primo vederlo, tanto che in seguito scrisse "di bellezza adone / cede al suo paragone". Dello stesso tenore di questi versi è il seguente struggente brano, che, presumibilmente, compose nel periodo dell'avvenuto matrimonio per procura, quando forse non si erano ancora visti.

Poscia che 'l mio destin fermo e fatale
Vuol pur ch'io v'ami e che per voi sospiri,
Quella pietà nel petto Amor v'ispiri
Che conviene al mio duol grave e mortale

E faccia che 'l voler vostro sia eguale
A gli amorosi ardenti miei desiri;
Poi cresca quanto vuol doglia e martìri
Che più d'ogn'altro ben dolce sia 'l male.

E se tal grazia impetro, almo mio sole,
Nessun più lieto e glorioso stato
Diede amor o Fortuna al mondo mai.

E quanti per addietro affanni e guai
Patito ha il cor, ond'ei si dolse e duole,
Chiamerà dolci, e lui sempre beato.

Nella primavera del 1509, gli sposi sono a Napoli, dove, nella Cattedrale di Amalfi, celebreranno il rito nuziale religioso. In occasione di quel viaggio Veronica ebbe modo di rivedere l'amico Bernardo Tasso, futuro padre del celebre Torquato, conosciuto quand'egli era a Ferrara, al servizio degli Estensi. Con lui, da giovani, c'era stato un fitto scambio di missive in gergo e in versi poetici. Per ragioni di lavoro, come diremmo oggi, Bernardo s'era trasferito a Salerno.
Come il Tasso, anche Pietro Bembo che era, e che sarà ancora, dopo la vedovanza, il mentore prediletto di Veronica, negli anni del felice matrimonio verrà messo un pò in disparte.

In quel periodo storico era di moda motteggiare ad imitazione del Petrarca, ma farlo non era da tutti, e soprattutto era prerogativa esclusivamente maschile: alle donne era riservato l'accudimento familiare. Veronica Gàmbara e Vittoria Colonna ruppero però quel tabù.
Nel 1509 Veronica aveva lasciato il paese natale nel bresciano alla volta dell'Emilia. Si era sposata per procura nell'ottobre precedente con il conte Giberto X, signore del piccolo regno di Correggio .

Di quel periodo sono state ritrovate solo poesie dedicate al marito, e di questo genere: "le parole / Dolci ad udir del suo bel foco ardente".
Pare anche che nel frattempo si fosse dimenticata perfino degli amici più cari, del Bembo, in particolare. Il 26 agosto 1518 conte Giberto moriva e Veronica, facile supporre al culmine della disperazione, scriverà:
Quel nodo in cui la mia beata sorte,
Per ordine del ciel, legommi e strinse,
Con grave mio dolor sciolse e discinse
Quella crudel che 'l mondo chiama morte.

E fu l'affanno sì gravoso e forte,
Che tutti i miei piaceri a un tratto estinse;
E se non che ragione alfin pur vinse,
Fatto avrei mie giornate e brevi e corte.

Ma tema sol di non andare in parte
Troppo lontana a quella ove il bel viso
Risplende sovra ogni lucente stella,

Mitigato ha il dolor, che ingegno od arte
Far nol potea, sperando in paradiso
L'alma vedere oltra le belle bella.

Restò così vedova all'età di 33 anni, non si risposò più, e mantenne il lutto totale per il resto della vita. Del suo corpo faceva vedere solo il viso. Fece perfin dipingere di nero la carrozza, facendola trainare solo da cavalli neri o morelli; anche la stanza e il letto fece addobbare di nero listato per sempre a lutto. Nei primi tempi di vedovanza, è probabile avesse anche meditato al suicidio, ma forse fu il pensiero dei due figli ancora in tenera età a distoglierla dalla turpe idea. E fu così che aspettando la loro maggiore età, prese in mano le redini del piccolo regno, assolvendo al compito con inusuale determinazione e maestria, per una donna di quei tempi. Le vicissitudini della vita, portarono poi i figli ad occuparsi di tutt'altro, diventando il maggiore un condottiero, e il minore un cardinale. Toccò così a Veronica di governare il Regno per gli oltre trent'anni in cui visse. E fu così che gli anni dal 1519 al 1532 li dedicò gran parte alla politica, ed estera in particolare. Scriveva in prosa, o motteggiando, a Francesco I e a Carlo V. Di Francesco I ammirava l'aspetto statuario, di Carlo V invece il grande carisma. L'ammirazione reciproca tra la contessa di Correggio e l'Imperatore fu tale che questi, nelle sue tre venute a Bologna, per ben due volte volle passare da Correggio, ospitato con tutti gli onori dai cittadini e da casa Gàmbara.

Componeva motti e sonetti e lettere per tutti; molte andate perse, ma parecchie ci sono pervenute, fornendoci tra l'altro preziose testimonianze sulle abitudini e modi di vivere del tempo, e una ricca testimonianza sull'evoluzione della nostra lingua che andava pian piano sganciandosi dal latino negli scritti di ufficialità. La grande stima e soggezione che aveva per Carlo V la trasferì in un sonetto che compose nel 1526, all'indomani della pace di Madrid siglata tra i due re. Con quel trattato di pace, Veronica si era illusa che, finalmente, si sarebbe giunti alla pace universale tanto agognata da tutti. Questo il sonetto:

Vincere i cor più saggi e i Re più alteri,
Legar con l'arme e scioglier con la pace,
Dargli e tor libertà quando a voi piace,
Esser dolce agli umili, acerbo ai fieri;

Che pajan falsi appo de' vostri veri
Gli onori altrui; che di virtù la face
Viva si accesa in voi, che ancor vi spiace
De l'error l'ombra e del vizio i pensieri;

Nasce, Signor, da unir la salda mente
Con l'eterno voler; far poca stima,
Che ceda al suo valor l'empia fortuna.

Onde sarà la gloria vostra prima
In terra, e l'alma il ciel sovra ciascuna,
Quella d'onor, questa d'amore ardente.

Nel luglio del 1532, tornando Verola in possesso della sua famiglia d'origine, fece un viaggio di ritorno al paese natio. Vi mancava da più di vent'anni e l'impressione unita a commozione fu tale, che compose la seguente poesia in suo onore, di chiara intonazione petrarchesca:

Con quel caldo desio che nascer suole
Nel petto di chi torna, amando, assente
Gli occhi vaghi a vedere, e le parole
Dolci ad udir del suo bel foco ardente,
Con quel, proprio voi, piagge al mondo sole,
Fresc'acque, ameni colli, e te, possente
Più d'altra ch'l sol miri andando intorno,
Bella e lieta cittade, a veder torno.

Salve, mia cara Patria, e tu, felice,
Tanto amato dal ciel, ricco paese,
Che a guisa di leggiadra alma fenice,
Mostri l'alto valor chiaro e palese;
Natura, a te sol madre e pia nutrice,
Ha fatto a gli altri mille gravi offese,
Spogliandoli di quanto avean di buono
Per farne a te cortese e largo dono.
In "Fresc'acque, ameni colli" si scorge chiaramente l'influsso del Chiare, fresche et dolci acque.
Da lì in poi, e quindi dal 1532 al 1540, si dedicherà alla poesia impegnata, quasi aborrendo i frivoli versi scritti nell'età giovanile. Nel sonetto che segue descrive infatti tutto il rammarico e disappunto per essersi persa in gioventù in quelle "sciocche rime". Ed è chiaro il riferimento a quando scriveva mottetti per il buffone Baron, di corte Gonzaga, o le canzonette per Isabella d'Este in Gonzaga, che da giovane si dilettava in canzonette, e prediligeva i versi composti da Veronica. Insomma, da quel 1532 la Poesia per Veronica Gàmbara è diventata una cosa molto seria, e scriverà, tra le sue innumerevoli composizioni:

Mentre da vaghi e giovenil pensieri
Fui nodrita, or temendo, ora sperando,
Piangendo or trista, ed or lieta cantando,
Da desir combattuta or falsi, or veri,
Con accenti sfogai pietosi, e seri I concetti del cor, che spesso amando
Il suo male assai più che 'l ben cercando,
Consumava dogliosa i giorni interi.

Or che d'altri pensieri, e d'altre voglie
Pasco la mente, a le già care rime
Ho posto, ed a lo stil, silenzio eterno.

E se allor vaneggiando, a quelle prime
Sciocchezze intesi, ora il pentirmi toglie
Palesando la colpa, il duolo interno.

Nella parte conclusiva della sua vita (1540-1550) c'è da rilevare l'abbandonarsi di Veronica alla religione. Questo è quel periodo, accennato all'introduzione, sul quale torneremo. Qui trascrivo solamente un suo significativo sonetto:
Ite, pensier fallaci, e vana speme,
Ciechi ingordi desiri, accese voglie;
Ite, sospiri ardenti, acerbe doglie,
Compagni sempre a le mie eterne pene;

Ite, memorie dolci, aspre catene
Al cor che pur da voi or si discioglie,
E 'l fren de la ragion tutto raccoglie,
Smarrito un tempo, e 'n libertà ne viene.

E tu, povr'alma in tanti affanni involta,
Slegati omai, e al tuo Signor divino
Leggiadramente i tuoi pensier rivolta;

Sforza animosamente il fier destino,
E i lacci rompi; e poi leggiera e sciolta
Rivolgi i passi a un più sicur cammino.
Nonostante, come detto, Il Correggio sia stato il pittore ufficiale di corte Gàmbara, pare non vi sia di Veronica alcun ritratto. Si ha soltanto notizia certa di un quadro da lei commissionato all'Allegri, che doveva rappresentare una Maddalena nel deserto; ma esso è andato disperso.
Bibliografia: La Signora della Poesia, di Daniela Pizzagalli, Editore Rizzoli, 2004.
Immagini - dall'alto: Ritratto di dama; Correggio (1517-1518), da Wikipedia
Francesco I di Francia - 1525 circa - da Wikipedia
Carlo V - da Wikipedia
Ulteriori fonti d'informazione: Cristinacampo.it

Cliccando qui, si accede alle Rime di Veronica Gambara, tramite il sito Letteratura Italiana.

lunedì 8 novembre 2010

KATHERINE MANSFIELD, EVOCATRICE DI ATMOSFERE DOLENTI


Katherine Mansfield, nata in Nuova Zelanda da una famiglia di pionieri e cresciuta negli studi e maturata nella vocazione letteraria in Inghilterra, trovò la sua linfa di narratrice nei due elementi che componevano la sua personalità: la spontaneità nativa e istintiva del raccontare e l’adesione quasi fisica all’oggetto della narrazione, coniugate a un gusto classico della forma e dello stile; un insieme che si tradusse in una scrittura apparentemente pacata e piacevole, ma in realtà aderente alla vita rappresentata con grande passione e pathos evocativo. E’stata una maestra della short story e si è affermata, pur nella brevità della sua esistenza (è morta di tisi a soli 35 anni), come una delle narratrici più singolari del primo Novecento, di quel Novecento che sperimentava nuovi modi di raccontare e che la colloca, per la sua capacità di svelare in un brevissimo lasso di tempo e in ambienti circoscritti un carattere o il destino di un’intera vita (tra l’altro fu una delle prime a ricorrere alla tecnica del flashback di gusto cinematografico quando la cinematografia era praticamente al suo nascere) accanto ad autori del calibro di D. H. Lawrence, Virginia Wolf e James Yoice. La sua caratteristica peculiare è quella di ridurre al minimo l’intreccio preferendo, come precisò lei stessa in una pagina del suo Diario, “intensificare le cosiddette piccole cose perché davvero tutto sia significativo”. I suoi racconti sono arguti, talvolta caustici schizzi psicologico-ambientali, struggenti ritratti di figure femminili, toccanti abbozzi d’esistenze minime schiacciate dalla ruota implacabile e spesso crudele della vita. La sua scrittura scandaglia minuziosamente i moti più intimi e delicati dell’animo, ma sa anche restituire con tocco magistrale un ambiente e la sua atmosfera. Per questa sua capacità è stata spesso accostata ad un altro grande autore di racconti come il russo Anton Cechov (da lei stessa definito il “suo prediletto”), ma non bisogna dimenticare l’influsso di un altro fine evocatore di atmosfere come Henry James, da annoverare senz’altro tra i suoi maestri.
Alla Mansfield non interessano i fatti, gli avvenimenti, gli accidenti, ma, appunto, ricreare atmosfere che illuminino uno stato d’animo o rappresentino un ambiente, evitando, se non marginalmente, l’introspezione psicologica. Ma il mondo che evoca non è mai consolatorio, pur dietro il tono da intrattenimento colto e suadente mediato dalla novellistica ottocentesca. Le sue forbite descrizioni di luoghi e di ambienti celano un senso di minaccia per le piccole quotidianità soffocanti che ospitano, talvolta suscitando in chi legge un brivido improvviso di orrore. Il suo humour nasconde spesso una sorta di horror vacui di fronte alla vita e un senso dolente di smarrimento rispetto alla sua imponderabilità, al cospetto della quale ci scopriamo privi di difese.
Così, in Garden-Party, una delle sue novelle più significative, il piacere della festa in giardino della famiglia facoltosa di Lara, la giovane protagonista, viene improvvisamente guastata dalla notizia della morte per incidente di un operaio che vive nel piccolo nucleo di misere casupole prospicienti la bella tenuta dei genitori di Lara. E la madre della ragazza non trova di meglio da fare, come gesto di solidarietà per quella morte, di mandare Lara nella casa del defunto con un paniere pieno delle buone cose avanzate dalla loro festa. Lara va avvertendo tutta l’inopportunità di quel gesto e sentendosi fuori posto col suo vestito di pizzo quando entra nella casa dei parenti del trapassato. Ma quando vede il morto, un giovane addormentato ormai lontanissimo da tutti loro, “così remoto, così tranquillo”, rimane sconcertata. “Stava sognando… Che cosa gliene importava delle feste in giardino, dei panieri e dei vestiti di pizzo? Era a mille miglia da tutte quelle cose. Era stupendo, bellissimo”. E quando, tornando a casa, incontra il fratello maggiore, non trova le parole per esprimere il sentimento che ha provato e scoppia a piangere. Riesce solo a ripetere confusamente: “La vita è… vero che la vita è…”
Altro racconto significativo è Felicità, in cui Bertha e il marito Harry ricevono per una cena alcuni amici tra cui miss Fulton che Harry dimostra chiaramente di detestare, mentre Bertha si accorge proprio quella sera di avere con lei impensate affinità di sentimenti e di gusto. Poi, al momento del congedo, ella, per puro caso, non vista, scopre il marito mentre ha un gesto di intimità con miss Fulton. “Le narici di Harry palpitarono; le sue labbra si contorsero in una smorfia disgustosa mentre mormorava: “Domani” e con le palpebre miss Fulton disse: “Sì”.
O la storia, dolentissima, di Miss Brill, un’insegnante zitella che la domenica si reca al parco dove, osservando i tanti quadretti di vita familiare che le si presentano davanti agli occhi, si sente come fosse a teatro, un teatro in cui tutti impersonano un ruolo e di cui lei stessa è parte. “Erano tutti sul palcoscenico. Non erano soltanto il pubblico, non stavano soltanto a guardare… Perfino lei aveva una parte e la recitava tutte le domeniche. Certamente qualcuno se ne sarebbe accorto se lei non fosse venuta”. Poi, un ragazzo e una ragazza vengono a sedersi sulla sua stessa panchina. “No, adesso no” disse la ragazza. “Non qui, non posso”. “Ma perché? Per quella vecchia scema là in fondo? Chissà cosa viene a fare qui - chi la vuole? Dovrebbe starsene chiusa in casa, con quel muso da vecchia scimmia che si ritrova”.

Miriam

martedì 2 novembre 2010

Il Capolavoro Sconosciuto


Nel Capolavoro Sconosciuto, racconto di Balzac ingiustamente ignorato dal grande pubblico, viene preconizzato il destino dell’arte figurativa nel secolo successivo a quello in cui visse il grande scrittore, il suo declino da quel linguaggio o strumento di comunicazione di un uomo con altri uomini, che era stato fin dalle sue origini, all’esercizio solipsistico, egocentrico, solitario e arrogante in cui si sarebbe configurato in epoca moderna. Balzac, oltre ad essere quel grande orchestratore di storie accumulatesi nella sua vastissima produzione di romanzi e racconti ch’egli chiamò, con giustificata fierezza, la sua Commedia Umana, era anche un eccellente osservatore dell’evoluzione del pensiero e dei costumi e, da genio lungimirante qual era, intuì dove sarebbe approdato il capzioso ragionare e arrovellarsi degli artisti, presente già al suo tempo, sul rapporto tra artista e opera d’arte, tra arte e realtà. Guardiamo alle date. 
Honoré de Balzac (foto sottostante) nasce nel 1799 e muore nel 1850; Il Capolavoro Sconosciuto viene composto a Parigi nel 1832, trent’anni prima dell’esplosione di quella stagione dell’arte che passerà alla storia col nome di Impressionismo e che, pur restando ancora vincolata alla rappresentazione della realtà sensibile, costituisce il primo scossone alla riproduzione naturalistica della forma, segna cioè l’avvio di quel processo concettuale che, dalla scomposizione del soggetto rappresentato, porterà alla sua dissoluzione. Balzac, facendo negare a Frenhofer, il protagonista principale del suo racconto, l’esistenza in natura della linea, del contorno degli oggetti, definiti in realtà dalla luce che avvolge dinamicamente superfici e volumi, anticipa già, per l’appunto, la visione impressionistica basata sulla rappresentazione d’una realtà mobile e mutevole con la scomposizione della superficie pittorica in macchie e tocchi di colore, configurandosi in un gioco di ombre e riflessi colti a colpo d’occhio per restituire la dissoluzione del colore locale in valori tonali, prospettici e atmosferici.


I personaggi più importanti del Capolavoro sconosciuto sono tre artisti, Porbus, il pittore socialmente affermato che gode dei favori d’una committenza importante, Poussin, il giovane artista di belle speranze trasferitosi dalla provincia a Parigi per trovare il suo posto di rilievo nel mondo dell’arte della capitale e, appunto, Frenhofer, l’artefice più anziano che, nella sua volontà prometeica di ricreare sulla tela il palpito e il mistero della vita “rubando a Dio”, come dice lui stesso, “il suo segreto” per cogliere lo spirito, l’anima, l’immagine profonda degli oggetti e delle creature, si è estraniato completamente dalla vita e dal pubblico per darsi totalmente alla sua ricerca dell’assoluto nell’espressione artistica. Subito, nella scena d’esordio del romanzo, in cui i tre personaggi si incontrano nello studio di Porbus, di fronte a una Maria Egiziaca dipinta con tocco magistrale dallo stesso Porbus, Frenhofer ha parole di disprezzo per l’opera dell’amico. “La tua creazione è imperfetta: non hai saputo infondere che una parte della tua anima alla tua opera prediletta” gli dice. “La fiaccola di Prometeo ti si è spenta più di una volta fra le mani e molti particolari del tuo quadro non sono stati toccati dalla fiamma celeste”. E, di fronte all’obiezione proferita in tono scandalizzato dal giovane Poussin: “Ma questa santa è sublime, signore!”, chiede per tutta risposta la tavolozza e i pennelli di Porbus e si mette a correggere il suo quadro con rapidi tocchi di colore, illustrando al ragazzo il perché dei suoi interventi. “Vedi come, con tre o quattro tocchi e una lieve velatura bluastra, si poteva far circolare l’aria intorno alla testa di questa povera santa, che doveva sentirsi soffocare, oppressa in questa atmosfera pesante! Guarda come questo drappeggio ora svolazza, e come si capisce che è il vento a sollevarlo. Prima, pareva una tela inamidata e appuntata con gli spilli”. Porbus non ha nulla da recriminare per gli interventi del maestro più anziano, anzi, recandosi più tardi nel suo studio insieme al giovane, gli chiede di lasciar loro vedere l’opera a cui Frenhofer lavora da dieci anni senza averla mai mostrata ad alcuno, il ritratto d’una donna ch’egli chiama La Belle Noiseuse. “Così” dice “forse potrei dipingere una nobile pittura, grande e profonda”. Ma il vecchio rifiuta energicamente: “Devo ancora perfezionarla. Ieri credevo d’aver finito: i suoi occhi mi sembravano umidi, la carne palpitava, le trecce dei suoi capelli si muovevano: ella respirava!.. Stamattina, alla luce del giorno, ho riconosciuto d’aver sbagliato”.


A questo punto il giovane Poussin freme di curiosità: è convinto, come Porbus, che la visione dell’opera sconosciuta di Frenhofer gli aprirà la strada per accedere alla conoscenza della grande pittura. Per raggiungere lo scopo, non esita a chiedere alla sua ragazza di lasciarsi condurre dall’anziano maestro per proporgli di ritrarla, così da avere accesso alla visione del suo quadro e ai segreti della sua arte. Pur di fronte alla riluttanza della giovinetta, che prende la richiesta del fidanzato come una sorta di prostituzione della sua bellezza all’avidità pittorica del maestro anziano, egli l’accompagna ugualmente davanti a Frenhofer, rischiando di perdere il suo amore. Ma Frenhofer, pur affascinato per qualche istante dalla bellezza della giovane donna, subito riporta l’attenzione sul suo quadro, quel ritratto di donna che rappresenta l’unico interesse della sua vita e, in un certo senso, il suo vero amore. E questa volta decide di consentirne la visione ai due colleghi pittori per godere del trionfo che la bellezza della sua creazione riporterà su quella della giovinetta in carne ed ossa. Ma il quadro si rivelerà nient’altro che un incomprensibile groviglio di macchie di colore sovrapposte che formano una muraglia di pittura, sotto la quale si intravvede appena un frammento di piede nudo, un piede delizioso, di forma perfetta. “C’è una donna là sotto!” esclama Porbus, facendo notare a Poussin gli strati di colore che Frenhofer ha di volta in volta sovrapposto credendo di perfezionare la sua opera. “Ma finirà pure per accorgersi, prima o poi, che non c’è niente sulla tela!” commenta Poussin. Dal tono scandalizzato del ragazzo, e dall’atteggiamento deluso di Porbus, Frenhofer riesce a vedere per la prima volta con occhi lucidi il suo quadro, e tutte le sue sicurezze vacillano. “Niente! Niente!” prorompe, scoppiando in lacrime. “E ci ho lavorato dieci anni!” L’indomani Porbus, preoccupato, torna a cercare Frenhofer, e scopre che è morto quella notte, dopo aver bruciato tutte le sue tele.

Balzac ha previsto, con questo racconto magistrale, quale sarebbe stato il destino dell’arte e la sua inevitabile involuzione verso l’astrazione, il concettuale e l’informale, col loro corollario di equivoci sfocianti spesso nell’impostura; individuando così perfettamente le conseguenze che deriveranno dell’estraniarsi dalla vita e dal pubblico e comprendendo quale minaccia nascondesse l’estetismo e il nichilismo esasperati legati a una concezione dell’arte superomista intesa unicamente come esercizio privato e individualistico, col pericolo di incomunicabilità e distruttività che conteneva; una minaccia divenuta, in epoca moderna e post moderna, una drammatica realtà.

Dionisio