Dopo aver letto questo post - che riporta un articolo dove è citata, con tutti gli strambalati particolari del caso, la balzana petizione scritta da luminari alla ministra Gelmini, affinchè abolisca lo studio di Dante nelle scuole - la tentazione di parlare della Divina Commedia è stata forte. Ma ho promesso di accennare a Girgenti amore mio, e quindi Dante lo rimando a dopo l'8 aprile, quando, quella sera di 710 anni fa, il Sommo aveva iniziato il viaggio fantastico attraverso il "suo" Inferno immaginario, scrivendo così:
Lo giorno se n'andava e l'aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m'apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate, / che ritrarrà la mente che non erra.
I lettori assidui di questi blog sapranno della mia passione per la Divina Commedia, ma, come detto, rimando ad altra data il riparlarne.
Per riprendermi dal malumore suscitatomi per quella stravagante idea, non c'è di meglio che parlare di Gianfranco Jannuzzo e del suo esilarante spettacolo, Girgenti amore mio, messo in scena nei teatri. Potrà sembrare un argomento e una questione sciocca, ma, chiarito che per me è stato un evento, si capirà appunto che non lo è. Devo pertanto precisare, che, da almeno dieci anni, anche per causa di un impedimento fisico, non ho più varcato la soglia di un vero teatro, mentre da giovane facevo addirittura parte di un gruppo di applauditori che giravano per i teatri milanesi. C'è voluta la verve trascinante di Gianfranco Jannuzzo, per farmi vincere la pigrizia e l'apatia per i teatri. La sera del 17 ottobre 2008, facendo zapping col telecomando, vidi casualmente su Rai 2 il suddetto mentre stava declamando il monologo Nord e Sud , registrato al Teatro Manzoni di Milano. Pensavo fosse uno dei soliti attori umoristi che mi ero ormai stancato di vedere in quei programmi di pseudo approfondimento che abbondano sui canali Rai. Anche per via dell'ora tarda di messa in onda (erano passate le 23), avrei spento il televisore. Ma, con vivo interesse, m'avvidi che non era come uno dei soliti umoristi bazzicanti in quelle reti. E, d'altronde, di Gianfranco Jannuzzo sapevo ben poco, e quindi, il semplice fatto che a recitare fosse lui, non era ancora per me garanzia di qualità. Avevo ancora solo una vaga conoscenza, soprattutto legata al fatto che era stato sposato con Gabriella Carlucci, la conduttrice di uno dei miei programmi preferiti, Mela Verde, un programma qualitativamente valido. Alla Carlucci, e al suo programma, avevo perfino dedicato il post d'inaugurazione del mio blog. Quella sera, con quelle scenette che sembravano squisite improvvisazioni sulle evidenti contrapposizioni tra Nord e Sud, Sud e Nord, Gianfranco Jannuzzo conquistò sul campo la mia simpatia, considerandolo da quel momento uno dei migliori attori viventi italiani. Saputo della sua venuta a Monza, nei giorni dal 18 al 21 febbraio scorso, mi sono premurato subito per andare a vederlo recitare dal vivo. E ne sono rimasto affascinato. Lo dicevano anche i vicini di post0: gli spettacoli di Jannuzzo hanno la particolarità che non si sente mai una volgarità, una parolaccia: sa anche far ridere senza mai usare tali riprovevoli mezzi. Oltre a non sparlare mai di politica, o di politici, di qualunque colore essi siano, nè di religione o di religiosi, non ne fa mai il benchè minimo accenno, neanche la più lieve scalfitura. Mentre tutti sappiamo che oggi, soprattutto in questo periodo, ci sarebbero argomenti a iosa per impostare un qualunque spettacolo umoristico satirico, soprattutto se si va a pescare nel torbido di tali argomenti. Ma chi va a teatro credo cerchi argomenti inediti o cose diverse da quanto viene propinato giornalmente dai programmi Tv; per i quali si è anche obbligati a pagare un canone. Gianfranco Jannuzzo l'ha capito meglio di altri, che la gente è stufa di tale andamento, e che è stanca di vedersi propinare in Tv comici/umoristi/satiri che si atteggiano a grandi moralisti, o che predicano le buone regole del vivere in comune. Scherza anche lui su questioni di mala creanza, sulla carenza d'acqua nella sua Agrigento, con la gente costretta far la coda per un bidoncino d'acqua e pagarla; sul pizzo, sulle opere publiche che servirebbero, o su quelle mai terminate, ecc., ma lo fa con grazia e senza mai offendere o tirare in ballo nessuno. Soprattutto, mai con i modi di fare del moralizzatore. Ci scherza sopra e basta; facendo ridere di vero gusto la gente; e non a comando, come invece avviene in certi programmi Tv.
Due ore e mezza ininterrotte di monologo - se non per un breve intervallo - e alla fine il pubblico non era stanco di sentirlo e sembrava non se ne volesse andare, tanto che ha dovuto riprendere scenette dal suo vecchio repertorio, per accontentarlo.
Lo giorno se n'andava e l'aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m'apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate, / che ritrarrà la mente che non erra.
I lettori assidui di questi blog sapranno della mia passione per la Divina Commedia, ma, come detto, rimando ad altra data il riparlarne.
Per riprendermi dal malumore suscitatomi per quella stravagante idea, non c'è di meglio che parlare di Gianfranco Jannuzzo e del suo esilarante spettacolo, Girgenti amore mio, messo in scena nei teatri. Potrà sembrare un argomento e una questione sciocca, ma, chiarito che per me è stato un evento, si capirà appunto che non lo è. Devo pertanto precisare, che, da almeno dieci anni, anche per causa di un impedimento fisico, non ho più varcato la soglia di un vero teatro, mentre da giovane facevo addirittura parte di un gruppo di applauditori che giravano per i teatri milanesi. C'è voluta la verve trascinante di Gianfranco Jannuzzo, per farmi vincere la pigrizia e l'apatia per i teatri. La sera del 17 ottobre 2008, facendo zapping col telecomando, vidi casualmente su Rai 2 il suddetto mentre stava declamando il monologo Nord e Sud , registrato al Teatro Manzoni di Milano. Pensavo fosse uno dei soliti attori umoristi che mi ero ormai stancato di vedere in quei programmi di pseudo approfondimento che abbondano sui canali Rai. Anche per via dell'ora tarda di messa in onda (erano passate le 23), avrei spento il televisore. Ma, con vivo interesse, m'avvidi che non era come uno dei soliti umoristi bazzicanti in quelle reti. E, d'altronde, di Gianfranco Jannuzzo sapevo ben poco, e quindi, il semplice fatto che a recitare fosse lui, non era ancora per me garanzia di qualità. Avevo ancora solo una vaga conoscenza, soprattutto legata al fatto che era stato sposato con Gabriella Carlucci, la conduttrice di uno dei miei programmi preferiti, Mela Verde, un programma qualitativamente valido. Alla Carlucci, e al suo programma, avevo perfino dedicato il post d'inaugurazione del mio blog. Quella sera, con quelle scenette che sembravano squisite improvvisazioni sulle evidenti contrapposizioni tra Nord e Sud, Sud e Nord, Gianfranco Jannuzzo conquistò sul campo la mia simpatia, considerandolo da quel momento uno dei migliori attori viventi italiani. Saputo della sua venuta a Monza, nei giorni dal 18 al 21 febbraio scorso, mi sono premurato subito per andare a vederlo recitare dal vivo. E ne sono rimasto affascinato. Lo dicevano anche i vicini di post0: gli spettacoli di Jannuzzo hanno la particolarità che non si sente mai una volgarità, una parolaccia: sa anche far ridere senza mai usare tali riprovevoli mezzi. Oltre a non sparlare mai di politica, o di politici, di qualunque colore essi siano, nè di religione o di religiosi, non ne fa mai il benchè minimo accenno, neanche la più lieve scalfitura. Mentre tutti sappiamo che oggi, soprattutto in questo periodo, ci sarebbero argomenti a iosa per impostare un qualunque spettacolo umoristico satirico, soprattutto se si va a pescare nel torbido di tali argomenti. Ma chi va a teatro credo cerchi argomenti inediti o cose diverse da quanto viene propinato giornalmente dai programmi Tv; per i quali si è anche obbligati a pagare un canone. Gianfranco Jannuzzo l'ha capito meglio di altri, che la gente è stufa di tale andamento, e che è stanca di vedersi propinare in Tv comici/umoristi/satiri che si atteggiano a grandi moralisti, o che predicano le buone regole del vivere in comune. Scherza anche lui su questioni di mala creanza, sulla carenza d'acqua nella sua Agrigento, con la gente costretta far la coda per un bidoncino d'acqua e pagarla; sul pizzo, sulle opere publiche che servirebbero, o su quelle mai terminate, ecc., ma lo fa con grazia e senza mai offendere o tirare in ballo nessuno. Soprattutto, mai con i modi di fare del moralizzatore. Ci scherza sopra e basta; facendo ridere di vero gusto la gente; e non a comando, come invece avviene in certi programmi Tv.
Due ore e mezza ininterrotte di monologo - se non per un breve intervallo - e alla fine il pubblico non era stanco di sentirlo e sembrava non se ne volesse andare, tanto che ha dovuto riprendere scenette dal suo vecchio repertorio, per accontentarlo.
Lo spettacolo in questione è andato in scena al Teatro Manzoni di Monza .
Scritto con con Angelo Callipo, Girgenti amore mio "è il tentativo sincero e appassionato di dialogare con le proprie radici". E' la rappresentazione teatrale de "la più grande di tutte le esperienze, quella dell'amore per la propria terra", dove Girgenti, antico nome di Agrigento, ciascuno può sostituirlo col nome della propria città del cuore, quella dove affondano le proprie radici, e dialogare con essa.
Declama la sua Agrigento, come culla della civiltà preromana in terra di Sicilia, della quale rimane la viva testimonianza nella Valle dei Templi; declama la sua spiaggia, terra di sbarco di Greci, Romani, Arabi, Normanni, ed ora di extracomunitari in quel di Lampedusa. Declama Girgenti, città natale di Pirandello, e Girgenti, sua città natale quando già si chiamava Agrigento, e la stessa, città natale dei suoi genitori quando ancora si chiamava Girgenti; il tutto con un recitativo da attore stagionato, come per i grandi monologhi alla Giorgio Albertazzi o Vittorio Gassman.
Nello spettacolo Jannuzzo rappresenta la propria terra in tutte le sue possibili sfaccettature. Ciascuno può fare lo stesso con la propria città, come in un gioco, sostituendo a Girgenti il nome della città delle proprie radici. Si otterrebbe così, ad esempio, "Milano amore mio", "Varese amore mio", "Livorno amore mio", ecc.
Per ognuno, il luogo è quello che solitamente coincide con quello di nascita, bello o brutto che sia. E anche se poi si è stati sbalzati via, come è capitato a me; o come è capitato all'attore che da ragazzo si è dovuto trasferire a Roma, con la propria famiglia d'origine. Ma ad Agrigento, Girgenti, ha mantenuto il cuore. E' là dove, se vuole, può ancora assaporare l'essenza vera della vita.
Io, ad esempio, che sono nato in un paesino della Pianura Lombarda, a mò del gioco suggerito da Jannuzzo, potrei mettere il suo nome al posto di Girgenti e così scavare tra i ricordi delle mie origini, delle mie radici. Provo così ad immaginare quel luogo, la sua gente, le sue caratteristiche peculiari. Ci sono molto affezionato, anche se non vi trovo nulla di esteticamente bello. M'accorgo però che non lo vedo più da tanti anni, e quindi sarà molto cambiato; non conoscerò più nessuno. Ma se ci dovessi tornare, sono certo che riassaporerei, almeno per un giorno, l'essenza vera della vita. In effetti, a pensarci, tutto il mio vissuto è legato a nomi di ben altre località, ma in quel borgo dalle vecchie case e asserragliate in cascine, come quella in cui sono nato, è là che ho respirato il primo alito di vita; è là dove, come accecato da un vivido bagliore che ancora ricordo d'aver visto, da quel momento, da quel giorno è iniziata la vera esistenza, fatta di quei tenui ricordi infantili.
Nel monologo, Gianfranco Jannuzzo inscena i suoi ricordi di giovinezza, e rappresenta anche quella sorta di conflitto interiore che, come lui, ha vissuto e vive chi viene sbalzato in una nuova città, dove non ci è nato. Vive da molti anni a Roma, una città che gli ha dato molto, ma è Girgenti che ama. Ha imparato ad amarla anche grazie all'amore che ne hanno i suoi genitori. E così, recitando, racconta che vi si reca di tanto in tanto, cercando negli sguardi della gente, nelle loro movenze, nei loro tic ed abitudini, l'essenza vera della città.
Dopo due ore e mezzo ininterrotte di monologo spettacolare, la gente non se ne voleva ancora andare. Jannuzzo era però atteso per il nuovo spettacolo delle 21, e così noi delle ore 16 abbiamo dovuto giocoforza prendere la strada dell'uscita.
Scritto con con Angelo Callipo, Girgenti amore mio "è il tentativo sincero e appassionato di dialogare con le proprie radici". E' la rappresentazione teatrale de "la più grande di tutte le esperienze, quella dell'amore per la propria terra", dove Girgenti, antico nome di Agrigento, ciascuno può sostituirlo col nome della propria città del cuore, quella dove affondano le proprie radici, e dialogare con essa.
Declama la sua Agrigento, come culla della civiltà preromana in terra di Sicilia, della quale rimane la viva testimonianza nella Valle dei Templi; declama la sua spiaggia, terra di sbarco di Greci, Romani, Arabi, Normanni, ed ora di extracomunitari in quel di Lampedusa. Declama Girgenti, città natale di Pirandello, e Girgenti, sua città natale quando già si chiamava Agrigento, e la stessa, città natale dei suoi genitori quando ancora si chiamava Girgenti; il tutto con un recitativo da attore stagionato, come per i grandi monologhi alla Giorgio Albertazzi o Vittorio Gassman.
Nello spettacolo Jannuzzo rappresenta la propria terra in tutte le sue possibili sfaccettature. Ciascuno può fare lo stesso con la propria città, come in un gioco, sostituendo a Girgenti il nome della città delle proprie radici. Si otterrebbe così, ad esempio, "Milano amore mio", "Varese amore mio", "Livorno amore mio", ecc.
Per ognuno, il luogo è quello che solitamente coincide con quello di nascita, bello o brutto che sia. E anche se poi si è stati sbalzati via, come è capitato a me; o come è capitato all'attore che da ragazzo si è dovuto trasferire a Roma, con la propria famiglia d'origine. Ma ad Agrigento, Girgenti, ha mantenuto il cuore. E' là dove, se vuole, può ancora assaporare l'essenza vera della vita.
Io, ad esempio, che sono nato in un paesino della Pianura Lombarda, a mò del gioco suggerito da Jannuzzo, potrei mettere il suo nome al posto di Girgenti e così scavare tra i ricordi delle mie origini, delle mie radici. Provo così ad immaginare quel luogo, la sua gente, le sue caratteristiche peculiari. Ci sono molto affezionato, anche se non vi trovo nulla di esteticamente bello. M'accorgo però che non lo vedo più da tanti anni, e quindi sarà molto cambiato; non conoscerò più nessuno. Ma se ci dovessi tornare, sono certo che riassaporerei, almeno per un giorno, l'essenza vera della vita. In effetti, a pensarci, tutto il mio vissuto è legato a nomi di ben altre località, ma in quel borgo dalle vecchie case e asserragliate in cascine, come quella in cui sono nato, è là che ho respirato il primo alito di vita; è là dove, come accecato da un vivido bagliore che ancora ricordo d'aver visto, da quel momento, da quel giorno è iniziata la vera esistenza, fatta di quei tenui ricordi infantili.
Nel monologo, Gianfranco Jannuzzo inscena i suoi ricordi di giovinezza, e rappresenta anche quella sorta di conflitto interiore che, come lui, ha vissuto e vive chi viene sbalzato in una nuova città, dove non ci è nato. Vive da molti anni a Roma, una città che gli ha dato molto, ma è Girgenti che ama. Ha imparato ad amarla anche grazie all'amore che ne hanno i suoi genitori. E così, recitando, racconta che vi si reca di tanto in tanto, cercando negli sguardi della gente, nelle loro movenze, nei loro tic ed abitudini, l'essenza vera della città.
Dopo due ore e mezzo ininterrotte di monologo spettacolare, la gente non se ne voleva ancora andare. Jannuzzo era però atteso per il nuovo spettacolo delle 21, e così noi delle ore 16 abbiamo dovuto giocoforza prendere la strada dell'uscita.
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Le foto dello spettacolo sono tratte dal sito del Teatro Manzoni di Monza , cui viene chiesta l'autorizzazione a pubblicarle.
Fuori tema, allego il link della bislacca petizione alla ministra Maria Stella Gelmini
Aggiornamento susseguente al commento di Sympatros (leggere spiegazione nel commento)
29 commenti:
Vado da anni a teatro, ma non mi è ancora capitato, nel mio abbonamento un titolo di spettacolo recitato da Gianfranco Jannuzzo. Accetto volentieri la tua dettagliata segnalazione e magari qualche volta mi premunirò di andarlo a vedere. Non sapevo che eri un assiduo spettatore di spettacoli teatrali, Marsh.
Anche a me la notizia su Dante a messo parecchio di cattivo umore, tant'è vero che ho creduto a una bufala. Hai fatto bene a distrarti con un altro argomento un po' meno...biliare. Di questi tempi, bisogna sempre trovare dei diversivi. Ciao.
Oh si, Hesperia,
da ragazzo sono stato assiduo frequentatore di teatri, soprattutto La Scala. Fu una breve ma esaltante esperienza,che purtroppo durò solo due stagioni teatrali. Facevo parte della clak (gli applauditori) di un CRAL aziendale. Un gruppo di una ventina di ragazzi che dovevano essere sempre pronti, sempre disponibili ad ogni evenienza di chiamata del "capo". Doveva sempre poter disporre di almeno sette o otto elementi da portare con se a spettacoli dove veniva richiesta la presenza di una clak (ma molto spesso ci s'andava anche senza essere stati invitati, e ci facevano entrare gratis ugualmente, come nel caso dei Legnanesi, che non avevano certo bisogno di clak di sostegno). Conosceva a memoria opere, sinfonie, concerti, commedie; e dovevamo sempre aspettare il suo via per applaudire (ricordo di certi scontri a suon di applausoni e urla di sostegno, in contrasto alle frange opposte che invece fischiavano. In quei casi ricevevamo encomi dai direttori di teatro). Mai applaudire prima di lui, che conosceva assai bene la tempistica, soprattutto durante l'esecuzione di concerti e sinfonie. E come applaudiva! Aveva certe grosse mani!
Di quella bella esperienza ricordo d'aver conosciuto Herbert Von Karajan e Claudio Abbado. E poi attori alle prime armi come Gigi Proietti (nell'Alleluia brava gente) e un giovane Andrea Giordana alle prese con Le farfalle sono libere, scorrazzante dietro le gonne della fascinosa Alida Chelli.
A dopo.
Ciao.
p.s. lo trasferisco come post sul mio blog.
"I legnanesi" di Musazzi li ho visti anch'io. E pur "El nost Milàn" di Bertolazzo per la regia di Strehler. Sempre con Strehler, l'Arlecchino, i vari Brecht, Il Giardino dei ciliegi di Cecov e Il Temporale di Strindberg col grande Tino Carraro. Re Lear con Gianrico Tedeschi (te lo ricordi, che bravo?) ecc. Ho fatto parecchie annate con abbonamento al Piccolo Teatro. Ma adesso, francamente un po' di quella magia si è persa. Su un abbonamento di sei spettacoli se ne salvano sì e no, uno o due e non vale più la pena.
Papà come scrivi bene. MI ha fatto piacere leggerti qui e ti porto a teatro di nuovo se vuoi. Un abbraccio. F.
Ciao F.,
che piacere sentirti! Finalmente ti fai viva!
Ok accetto la proposta. Per quando vorrai, e potrai, tu.
Ciao.
La retorica del ritorno al paese natio
Premetto, a scanso di equivoci, che ne sono affetto anche io, o, perlomeno, non ne sono del tutto guarito.
La nostalgia come dolore della mente o etimologicamente come desiderio struggente di tornare al proprio paese è topos diffusissimo nella letteratura
Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
Per non parlare della canzone napoletana e di tutta l'epopea canora degli emigranti.
Stranamente il dolore della nostalgia è piacere, non è dolore, ha insito in sè il ricordare, il riportare, non alla mente o all'intelletto, ma al cuore, come dice etimologicamente il verbo ri-cordare. Nel ricordo entra in gioco la fantasia che proietta il tutto in un passato mitico, dai contorni vaghi e indefiniti, E il vago e l'indefinito è quello che provoca piacere, in quanto immagine e metafora di quel desiderio di infinito e di assoluto, a cui è condannato l'animale-uomo.
Demitizziamo il piacere perverso della nostalgia e del ricordo, mandiamo al macero tutta la mielosa retorica del paesello natìo.
Ma poi che resta? Ditemelo voi.. che resta?
E bravo Sympatros,
che ci hai ricordato uno dei tanti passi più belli della Divina Commedia.
Noi delle serali, assieme al nostro insegnante, un sacerdote salesiano, per rendere ancor più piacevole l'appprendimento dell'Opera Summa della letteraturta italiana
(e forse mondiale, dato che ci sono studenti cinesi, giapponesi, macedoni, albanesi, ecc., che vogliono imparare l'italiano per studiare la Divina Commedia. E c'è a chi dà fastidio nelle scuole: ahimè!),
con l'aggiunta di una virgola, alla terzina dantesca, avevamo reso ancor più memorizzabile la stessa:
"Era già l'ora che volge il disio / ai navicanti 'ntenerisce il core / lo dì c'han detto AI DOLCI , AMICI ADDIO;"
- "Vedete come cambia il discorso, con l'aggiunta o lo spostamento di una virgola!": ci diceva poi l'insegnante!
Comunque,
tu che mi hai fatto conoscere il Don Lisander (Alessandro Manzoni), avresti potuto ricordarmi il brano che è l'apoteosi della nostalgia:
L'ADDIO AI MONTI,
di Renzo e Lucia.
E qui è giocoforza interrompere, perchè mi si stanno aprendo le cateratte, e poi perchè mi attende l'impegno domenicale.
A dopo.
Ciao.
Marshall
Io non riesco a capire come sia possibile che degli individui,non li chiamo professori per rispetto ai miei antichi insegnanti, che tanto mi hanno dato,possano fare una petizione per abolire lo studio di Dante.
Io fossi la Gelmini abolirei questi insegnanti.
ciao
Sarc.
nostalgia per nostagia...
"Nè più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
Del greco mar da cui vergine nacque...."
Nè più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
Del greco mar da cui vergine nacque
Qual è il motivo per cui è insito in noi una naturale tendenza a soffermarci sul tema del ricordo e sulla melanconia del tempo passato, sugli amori perduti, sul paesello lasciato? Sono tutte cose che sottoposti ad un'analisi fredda e feroce dell'intelletto non reggono, rispondono però alla logica della ricerca del piacere, a volte sublimato, altre volte surrogato, altre volte morboso. E anche nell'arte il tema del ricordo, della melanconia, della fuga nel passato, in tempi per lo più mitici e trasformati dalla fantasia, può rappresentare una brutta bestia..... se questo tema non viene dosato con equilibrio e imbrigliato in una forma che solo i veri poeti possiedono, si finisce inesorabilmente nel morboso e nel compiaciuto! La mitologia del ricordo può nascondere in sè una forza pedagogica corruttiva, specie se data ai ragazzi in dose massive e languide.... non il ricordo della storia, che è sempre salutare.. ma quello del sentimento e della nostalgia del tempo che fu!
PS Avete ricordato Foscolo e Manzoni, e Giacomino dove lo mettete? Lui il più grande specialista del ricordare, del rimembrare umano..... poeta e filosofo delle ricordanze.
Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!
Sympatros,
con i tuoi diminutivi, mi stavi traendo in inganno anche oggi (l'altra volta è stata quella del don Lisander, che non sapevo chi fosse, e mi costringesti a quella ricerca). Oggi, con Giacomino, pensavo ti riferissi al Giacomino di Pirandello, poichè Jannuzzo nel monologo di cui al post, cita alcune opera composte dall'erudito agrigentino. Ma poi, per fortuna, hai citato le Ricordanze
- Sarcastycon è un appassionato studioso di Leopardi (leggere la sua ricerca su L'Infinito, che è un post di eccezionale valore culturale) -
che mi hanno messo sulla pista giusta!
E allora, caro Marshall, parliamo di Girgenti. Jannuzzo non lo sa e nemmeno Pirandello lo sapeva... cosa non sanno? Non sanno che l'amore per il gioco funambolico,cervellotico e cerebrale con la parola, comico in Jannuzzo, folle e drammatico in Pirandello, deriva loro dall'essere nati proprio in quella parte di Sicilia, in quella Sicilia greca, amante della sofistica e patria di Gorgia da Leontini
Sympatros,
ammetto la mia ignoranza su Gorgia da Leontini. Quindi, rimando il tutto a più tardi, quando me ne sarò minimamente documentato. Adesso devo dare la precedenza ad una certa "volontaria" che s'è prestata di farmi da cicerona per un certo evento.
A dopo.
Marshall
Sympatros,
interessante la tua disquisizione su Gorgia da Leontini, così ho avuto modo di leggere qualcosa di lui, principale esponente della corrente filosofica dei sofisti.
Al contrario di quanto dici di Jannuzzo (e di Pirandello), credo che nello spettacolo scherzi anche su tale corrente filosofica, dimostrando così anche il suo grado culturale. Infatti, l'ultima foto del post si riferisce alla più bella scenetta dello spettacolo (unitamente a quella sul boss: terza foto). Jannuzzo inscena un professore che porta in aula un papiro arrotolato - ritrovamento archeologico risalente al periodo dei filosofi greco-siciliani - e ne fa la gustosa parodia. La traduzione del papiro viene fatta accostando le parole del testo antico a quelle della celebre canzone moderna di Orietta Berti: Finche la barca va.
Comunque, volendo, una spiegazione esauriente ce la potrà dare Jannuzzo stesso, se si farà vivo nel blog, così come ha fatto nel caso dell'altro post che ho scritto su di lui.
Hesperia,
a proposito del tuo secondo commento, sto preparando un post, nel quale cercherò di ricordare alcuni degli spettacoli cui ho partecipato in veste di clakker (applauditore). Tra gli aneddoti più interessanti potrei ricordare di quando noi del gruppo della clak vedemmo entrare Enzo Biagi e consorte allo spettacolo dei Legnanesi. Oppure quando vedevo Karajan, o Abbado dirigere alla Scala. Ciao
Sarcastycon,
quel gruppo di ragazzi macedoni, che ho sentito parlare di Dante in Tv, si sono rivelati molto più avanti che non quei luminari di cui parlo e parli.
Sono qui in Italia, a spese delle loro famiglie, che non credo siano più ricche di tante famiglie italiane, per studiare la nostra lingua, con lo scopo di leggere e studiare la Divina Commedia in lingua originale, che adorano.
Ciao
A proposito di nostalgia di quel periodo, e a proposito di Foscolo, ti vorrei rammentare i suoi sublimi versi che fanno:
...Io quando il monumento vidi, ove posa il corpo di quel grande...
Troppo grande! Grandioso!
Marsh, non riesco a capire cosa c'entri Orietta Berti e Fin che la barca va che hai aggiunto alla coda del post :-).
A proposito di quanto scrivi sulla tua esperienza, le varie claque (si scrive con la q alla francese e non con la K) esistono ancora ufficialmente?
Marshall
grazie per lo studioso!! ma sono semplicemente un cultore del bello e non v’ è alcun dubbio che la poesia del Leopardi appartenga alla sfera del sublime. Se da parte mia ti avessi proposto dei versi di Leopardi sarebbe stato troppo scontato.
Pensando a quegli individui, che hanno proposto di eliminare lo studio di Dante, mi sono chiesto quale sia la ragione recondita di questa richiesta. L’unica risposta, per me plausibile e credo che anche Hesperia condivida il mio pensiero, è che sia un attacco della sinistra razza, intellettualmente inferiore, alla nostra cultura e alla religione cristiana, in nome di un multiculturalismo globale che si rivelerà tragicamente impraticabile.
Oggi Dante, domani Leonardo da Vinci, Galilei, Leopardi etc. fino alla completa ecpirosi della cultura italiana: dal fuoco creante dei nostri geni al magma amorfo, che tutto distrugge, della sottocultura reificata.
Tornando alla nostalgia, ti propongo una breve poesia originariamente scritta in dialetto emiliano, se non erro. L’autore, sia per il suo stile di vita che per la sua appartenenza politica, è , o meglio era, agli antipodi del mio pensiero. Sono cmq certo che, se oggi fosse ancora in vita, non approverebbe quella petizione.
Ciao
Sarc
Canto delle campane
Quando la sera si perde nelle fontane,
il mio paese è di colore smarrito.
Io sono lontano, ricordo le sue rane,
la luna, il triste tremolare dei grilli.
Suona Rosario, e si sfiata per i prati:
io sono morto al canto delle campane.
Straniero, al mio dolce volo per il piano,
non aver paura: io sono uno spirito d'amore,
che al suo paese torna di lontano.
(Pier Paolo Pasolini)
Ciant da li ciampanis
Co la sera a si pièrt ta li fontanis
il me país al è colòur smarít.
Jo i soi lontàn, recuardi li so ranis,
la luna, il trist tintinulà dai gris.
riscrivo la poesia
prima è venuta troncata
Ciant da li ciampanis
Co la sera a si pièrt ta li fontanis
il me país al è colòur smarít.
Jo i soi lontàn, recuardi li so ranis,
la luna, il trist tintinulà dai gris.
A bat Rosari, pai pras al si scunís:
jo i soj muàrt al ciant da li ciampanis.
Forèst, al me dols svualà par il plan,
no ciapà pòura: jo i soj un spirt di amòur
che al so país al torna di lontàn.
(Pier Paolo Pasolini)
Hesperia,
finalmente ho capito come si scrive claque (e non clak), e ti ringrazio molto: infatti non ne avevo trovato l'esatta dicitura in nessun vocabolario, scrivendola così sempre all'incirca in quel modo, anche nei miei precedenti post.
Orietta Berti e Finche la Barca va c'entrano in quanto nel monologo Jannuzzi ha fatto la gustosa parodia della canzone, riga per riga, creando il simpatico parallelismo con l'immaginario reperto archeologico col quale il professore ha spiegato quel modo di filosofare criticato da Sympatros.
Sarcastycon,
non conoscevo Pasolini in questa veste: e questa è luce che lo rivaluta abbondantemente alla mia vista. Se non erro era di origini friulane e quindi credo che quello sia il dialetto di quella terra. Ci vorrebbe quella ragazza di trieste, avente a che fare col museo di Trieste dedicato a Italo Svevo, per confermarcelo.
Grazie per la bella "scoperta" che mi proponi.
Ciao
Marshall
penso che tu abbia ragione, P è nato a Bologna ma ha ha vissuto la giovinezza in Friuli.
Scusa ma non sono un esperto di dialetti, infatti avevo scritto in modo dubitativo.
Certo è che rispetto ai sx odierni era di molte spanne superiore.
ciao
Sarc.
quel modo di filosofare criticato da Sympatros.
No, caro Marshall, io non ho criticato niente, anzi direi che ho fatto l'opposto.... io ho detto che Jannuzzo e Pirandello, essendo figli di quella terra, patria della sofistica, sono gli eredi e i testimoni di quel luminoso periodo, con il loro funambolismo linguistico, per la destrezza espressiva e il possesso sicuro della parola, che permette loro di essere stupendamente paradossali, con risultati comici in Jannuzzo e drammatici o comico-amari in Pirandello. L'influsso dell'antica Sicilia greca non è ancora finito!
Sympatros,
per risponderti mi hai costretto a rileggere tutti i commenti, e di tutti: non riuscivo a trovare la frase incriminata.
Chiedo scusa per quel "refuso", ma l'intenzione mia sarebbe stata di scrivere "spiegato" e non "criticato"; che poi suonerebbe anche meglio, in quel contesto. Nella foga di scrivere, la prima parola che m'era venuta sul momento è stata quella.
Comunque, rileggere i commenti è stato un bene; ho trovato i tuoi ben costruiti ed altrettanto istruttivi. Non sono certo i commenti di un blogger qualunque, come potrei essere io. Anche se in altri post, con altri blogger, ti mostri alquanto asprigno e molto criticoso.
Al di la di tutto, grazie per i commenti, e un cordiale saluto.
“Per me la memoria volontaria, che è soprattutto una memoria dell’intelligenza e degli occhi, non ci dona del passato che facce prive di verità; ma quando un odore, un sapore ritrovati in circostanze diversissime risvegliano in noi, nostro malgrado, il passato, noi sentiamo quanto questo era diverso da come credevamo di ricordarlo, e che la nostra memoria volontaria dipingeva - come i cattivi pittori - con dei colori sprovvisti di verità." (Marcel Proust)
E come non ripensare, appunto, alla famosa madeleine, da cui parte la gigantesca epopea della Recherche...
" Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? "
Anonimo (neanche tanto...)
E' tutto Marcel Proust? O c'è qualcosa di qualcun'altro?
La prima parte proviene da un'intervista con Elie-Joseph Blois, in Le Temps, 12 novembre 1913, riprodotta in Contre Sainte-Beuve, Paris, Gallimard, Pléiade, 1971.
“Da questo punto di vista il mio libro sarà forse come il saggio di una serie di “Romanzi dell’Inconscio”: non provo alcuna vergogna a definirli “romanzi bergsoniani”, poiché in ogni epoca succede che la letteratura tenti di agganciarsi - après coup, naturalmente – alla filosofia dominante. Ma ciò non sarebbe esatto perché la mia opera è dominata dalla distinzione tra la memoria involontaria e la memoria volontaria, distinzione che non solo non compare nella filosofia di Bergson, ma anzi viene da questa contraddetta.”
- Come stabilite questa distinzione?
“Per me la memoria involontaria, che è soprattutto una memoria dell’intelligenza e degli occhi, non ci dona del passato che facce prive di verità; ma quando un odore, un sapore ritrovati in circostanze diversissime risvegliano in noi, nostro malgrado, il passato, noi sentiamo quanto questo era diverso da come credevamo di ricordarlo, e che la nostra memoria volontaria dipingeva - come i cattivi pittori - con dei colori sprovvisti di verità. Già in questo volume voi vedrete il personaggio che racconta e dice “Io” (e ben intenso, quell’ “Io” non sono io) ritrovare di colpo anni, giardini, esseri dimenticati, nel gusto di un sorso di tè in cui ha intinto un pezzo di madeleine; e senza dubbio egli li ricordava tutti, ma senza i loro colori e il loro fascino. Io ho potuto fargli dire che - come in quel piccolo gioco giapponese in cui si intingono dei bordi di carta in una boccia e che non appena immersivi si ritirano, si contornano e diventano fiori o personaggi – tutti i fiori del suo giardino, le ninfee della Vivonne, le brave persone del villaggio e le loro piccole case, e la chiesa, e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto ciò che prende forma e solidità, è uscito - città e giardini - da una tazza di tè.
Vedete, io credo che sia solo ai ricordi involontari che l’artista dovrebbe domandare la materia prima della sua opera. In primo luogo, perché essi sono involontari, si formano da sé, attratti dalla somiglianza di un minuto identico, essi soli hanno la firma dell’autenticità. Poi, essi ci riferiscono le cose in un dosaggio esatto di memoria e di oblio. E infine, poiché ci fanno gustare la stessa sensazione in una circostanza del tutto diversa, essi la liberano da ogni contingenza, e ce ne danno l’essenza extratemporale, quella che è propriamente l’essenza dello stile – quella verità generale e necessaria che solo la bellezza dello stile può tradurre. Se posso permettermi di ragionare così sul mio libro è perché esso non è in alcun modo un’opera di ragionamento, poiché i suoi elementi ancorché minimi mi sono stati forniti dalla mia sensibilità, perché io li ho prima percepiti nel fondo di me stesso, senza comprenderli, avendo grande pena a convertirli in qualche cosa di intelligibile che se fossero stati tanto estranei al mondo dell’intelligenza quanto, come dire, un motivo musicale. Mi sembra che voi pensiate trattarsi di sottigliezze. Non è così, ve lo assicuro. Ciò che non abbiamo dovuto chiarire a noi stessi, ciò che era chiaro davanti a noi (per esempio le idee logiche), tutto ciò non è veramente nostro, noi non sappiamo neppure se è la realtà: rientra nell’ordine del possibile, da cui attingiamo in modo arbitrario. E d'altronde, come sapete, ciò si vede immediatamente dallo stile. Lo stile non è affatto un abbellimento come credono certe persone, e non è neppure una questione di tecnica, ma – così come il colore per i pittori – una qualità della visione, la rivelazione dell’universo particolare che ciascuno di noi vede, e che agli altri sfugge. Il piacere che ci regala un artista, è quello di farci conoscere un universo in più”
La seconda parte è tratta da questo link :
http://it.answers.yahoo.com/question/index?qid=20070703102153AARkZI0
"Così per molto tempo, quando, stando sveglio di notte, ripensavo a Combray, non ne rividi mai se non quella specie di lembo luminoso, che si tagliava in mezzo a tenebre indistinte, simili a quelle che la vampa d'un fuoco di bengala o qualche proiettore elettrico illuminano e sezionano in un edificio, di cui le altre parti restino immerse nel buio"...
A me pare proprio Proust... e a te ?
Anonimo Sim.,
non ho ancora letto nulla di Proust, per cui non ti saprei dire.
Se non altro, il risvolto interessante di questo commento è che me lo fai conoscere.
E adesso vado a leggere l'altro commento, molto più lungo.
Anonimo,
ho letto abbastanza, ma di Proust ancora nulla perchè l'ho sempre ritenuto un "mattone". Dalla tua presentazione m'accorgo che forse non è così. O almeno, forse, perchè ora mi sentirei pronto per affrontare tali "profondità di pensiero" (vedi anche il mio post "http://ecopolfinanza.blogspot.com/2010/03/possibile-prova-scientifica.html" sull'esistenza di Dio, giunto quasi in un vicolo cieco).
Tu parli di quell'intervista del 1971. A quell'epoca ero un ragazzo, ma credo d'aver seguito, a quell'epoca, un lungo servizio televisivo su Proust e il suo "capolavoro". E non mi sbaglio; anzi, fu proprio così. Era stato nei primi anni '70 che, in un programma della Tv di Stato (che allora era sono in Bianco e Nero), fecero un programma di mezz'ora su Proust e sul suo romanzo, forse perchè appena pubblicato in Italia dopo essere stato tradotto. Ma credo anche che, anzichè chiamarlo romanzo sia più logico chiamarlo "trattato di psicologia".
"Alla ricerca del tempo perduto". Ricordo ancora che quella trasmissione mi mise in "corpo" l'interesse per quel libro, ma che poi, ritenendolo un "mattone", e sopraffatto da bel altri interessi, ne procrastinai fin qui l'intenzione di leggerlo.
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