L’incontro al Museo Nazionale del Cairo con l’Egitto antico, quello dei faraoni, ti pone davanti a una miriade di statue, teste, cariatidi, sarcofagi, stele, vasi, gioielli, giocattoli e altri oggetti che ti svelano immediatamente il carattere dell’arte e più in generale del manufatto egizio, proponendoti in tutte le soluzioni possibili lo stile, unico e inconfondibile, di ogni creazione fiorita nella valle del Nilo in un tempo tanto lontano da apparirci favoloso. Uno stile che si è perpetuato, senza variazioni apprezzabili, all’incirca dal quarto millennio fin quasi alle soglie dell’era cristiana e che appare senza eguali nel suo genere, semplice e al tempo stesso prezioso, esatto e insieme indefinito, giacché il suo segreto e la sua grandezza consistono appunto in un’acuta rappresentazione della realtà (che, nei volti, non esclude nemmeno la riproduzione precisa dei tratti somatici, minuziosamente camitici ma talvolta tesi addirittura a restituire una sfumatura negroide per sottolineare un influsso di sangue proveniente dalla regione più a sud abitata dai nubiani cuscitici) coniugata in modo misterioso ad una visione intensamente ideale, capace di trasmettere un’impressione di sublime e solenne trascendenza. Ma, al cospetto di quel vasto materiale artistico e storico così lontano da noi si avverte anche qualcosa di sottilmente familiare, non ignaro d’un pizzico di sortilegio, che ti avvisa d’essere penetrato nel ventre materno delle arti e dell’oggettistica dell’Occidente, e non solo dell’Occidente, come se ti trovassi a tu per tu con tutti gli archetipi a cui si sono abbeverati via via gli artisti e gli artigiani delle civiltà successive a quella egiziana, dai sumeri ai greci e su su fino ai nostri giorni. Soprattutto la scultura, con tanti esemplari intagliati nelle materie più diverse, nel granito, nel calcare, nell’arenaria, nell’alabastro, nel legno e nel rame, rappresenta una sorta di rassegna esauriente delle diverse possibilità che da lì in poi l’uomo avrà di rappresentare la figura umana, dalla più banale, come certe figure non più espressive d’una bambola, alla più eccelsa, quali appaiono molte statue a tutto tondo dove l’osservazione della natura e l’euritmia delle forme si equilibrano in modo così perfetto e con una tale maturità di stile da farti sentire di essere, senza possibilità di dubbio, in presenza di uno dei vertici dell’espressività artistica raggiunta dall’uomo. Il museo costituisce insomma un contenitore esauriente della cultura materiale e artistica prodotta dalla civiltà egizia, dove sembra che tutto il popolo egiziano, coi suoi abiti, le sue acconciature, le sue armi, i suoi strumenti e i suoi oggetti sia convenuto per essere restituito magicamente dalla sua remota e solenne eternità all’attonita ammirazione dei nostri occhi di inconsapevoli e tanto lontani discepoli. Lo osserviamo in piedi, seduto, in atto di incedere solennemente; da solo, a gruppi di due, di tre o più individui; in posa rigidamente frontale, col torso nudo e il perizoma pieghettato attorno ai lombi, le spalle quadrate e la vita sottile, le braccia lunghe coi pugni stretti intorno a corti bastoncini e le gambe vigorose sui piedi nudi posati saldamente al suolo; talvolta, se si tratta d’una figura regale, con le braccia incrociate sul petto, stringendo in una mano il pastorale e nell’altra una piccola frusta, col capo sovrastato dalla mitra oppure avvolto nella sacra benda dalle larghe falde cadenti sulle spalle e con la stretta barba a cono, emblema di saggezza, applicata artificialmente al mento. Gli dèi esibiscono un corpo umano e una testa d’animale, come Anubi, il signore dell’oltretomba, col muso di sciacallo eretto severamente sul vigoroso torso maschile, o come Bastet, la dea felina reggitrice degli istinti primordiali, con la testa di gatta innestata su un corpo muliebre imperiosamente sensuale. Gli scribi, numerosissimi, a testimonianza di una civiltà che all’arte della scrittura – e quindi alla memoria del passato – attribuiva una grande importanza, stanno seduti con le ginocchia aperte per accogliere il papiro e con lo stilo in mano pronto alla scrittura, lo sguardo volto con altera condiscendenza verso chi sosta a contemplarli, quasi a sottolineare l’insostituibilità della loro missione.
Spesso le sculture conservano ancora la pittura della pelle, dei capelli e delle vesti stesa nei colori naturali in modo da aumentare l’illusione della vita, giacché tutte queste statue di re, di alti funzionari, di generali e di scribi, ma anche di semplici ancorché abbienti cittadini, avevano uno scopo non già ornamentale ma pratico, eminentemente utilitario: quello di conservare il corpo del defunto riproducendolo sontuosamente in effigie (oltre che, come si sa, mummificandone i resti mortali) per permettergli di continuare a vivere nell’aldilà. Non bisogna dimenticare quest’aspetto quando si considera la scultura dell’antico Egitto, cioè che essa era destinata in gran parte a garantire ai suoi esponenti la vita nell’oltretomba, specie di quelli più eminenti, quali, va da sé, i faraoni, i sacri figli del Sole destinati a ritrovarsi nell’alto del cielo accanto al Padre venerando una volta concluso il proprio numinoso soggiorno sulla terra. Ciò serve intanto a comprendere la ragion d’essere di quelle altrimenti assurde montagne di pietre quali potrebbero apparirci le piramidi, tanto imponenti ma nient’altro che solidi geometrici per essere considerati autentici monumenti dello spirito, ossia opere ascrivibili all’afflato della creazione artistica. Giacché la piramide, nient’altro che una tomba, la dimora sepolcrale del faraone così convinto della propria divina grandezza da desiderarne una eretta con centinaia e centinaia di massi di granito pesanti alcuni milioni di tonnellate, doveva servire a proteggere la mummia del faraone dalla corruzione del tempo e dalla profanazione degli uomini col peso eterno della sua mole grandiosa, ma altresì a propiziarne, attraverso il proprio apice puntato verso l’alto, l’ascesa al cielo onde ricongiungerlo rapidamente alla forza del globo solare da cui era stato generato.
Se lo scultore, in relazione allo scopo a cui era destinata la statuaria umana, veniva designato, in Egitto, come “colui che mantiene in vita”, l’architetto aspirava a una funzione ancora più importante e complessa, che, associandosi a quella dello scultore, forniva anche la dimora per invogliare gli dèi a soggiornare sulla terra accanto agli uomini, favorendo quel connubio tra umanità e divinità, e tra vita di qua e vita di là, che per il popolo egizio, forse più che per altri, qualificava l’esistenza e che spiega la predilezione per le dimensioni colossali, ritenute congrue al concetto di sovrumano, nella costruzione di dimore per la vita di qua, come a Luxor, “la città dei re”, e a Karnak e a Deir-el-Bahari, con i templi simili a immensi recinti caratterizzati da mura e colonne mastodontiche atte ad accogliere esseri appunto smisurati come gli dèi o i faraoni, loro figli e rappresentanti sulla terra; o a Sakkara e a el-Giza con le tombe imponenti per la vita di là, dove il dio defunto poteva intraprendere indisturbato il suo viaggio notturno per risalire alla luce solare.
In questa contiguità con la morte, quasi un vagheggiamento degli inferi intrattenuto dagli egizi continuamente e irresistibilmente, si potrebbe esser tentati di scorgere, come del resto facevano i greci e i romani, e prima di loro gli israeliti (per i quali l’Egitto era Sceòl, il regno dei morti), una possibile causa della mancata apertura sul resto del mondo d’una civiltà che, pur nella sua complessità e raffinatezza di costumi, non smise mai di civettare con l’idea del sonno eterno, certo condizionata in questo dalla limitatezza e labilità del suo mondo, circondato e isolato com’era da un deserto letale e sottoposto agli imprevedibili umori di un fiume-dio che poteva, con la pienezza o scarsità delle sue acque, decretarne la prosperità come l’estinzione, la vita come la morte. Eppure è proprio da quella società così sensibile alla caducità delle cose del mondo da non riuscire a dilatare il proprio orizzonte oltre l’eterno ritorno delle piene del Nilo – suo Nume ma anche suo imperscrutabile tiranno, bizzoso e incostante – che prenderà il via il vitalissimo percorso della cultura classica, a cui il vecchio Egitto aveva preparato il cammino sfrondando ampiamente l’arduo sentiero della civiltà. Quando ci si trova a tu per tu con le vestigia superstiti della cultura faraonica, apparentemente tanto remote e distaccate eppure, come dicevo, così familiari alla nostra sensibilità da farci ravvisare in esse il serbatoio archetipico della nostra memoria culturale, non possiamo nutrire dubbio alcuno sul ruolo di matrice ch’essa ha rivestito per tutti noi, in particolare per quella civiltà greca su cui si forgerà la coscienza luminosa dell’Occidente. Il debito della Grecia con l’Egitto apparirà manifesto, anzi irrefutabile a chiunque abbia avuto modo di esaminare la scultura ellenica delle origini, in particolare certe figure di kouros conservate in diversi musei greci, per il criterio strutturale della composizione rigorosamente geometrico e per la rigida frontalità della visuale; così come risulterà incontestabile la derivazione degli edifici greci da quelli faraonici – pur, questi ultimi, tanto più imponenti e concettualmente “sovrannaturali” – per l’uso al tempo stesso strutturale e ornamentale, ad esempio, delle colonne, fascinose unità architettoniche nate probabilmente proprio in Egitto e ideativamente derivate quasi certamente dai pali usati per innalzare e reggere la tenda dell’esistenza nomade, allorché l’uomo cominciò a costruire edifici permanenti ove trovare fissa dimora per sé e per i propri dèi dopo aver abbandonato la vita incerta ed errante del cacciatore-raccoglitore per quella stabile e più sicura dell’agricoltore. Così dovette accadere ai primi egiziani che decisero di prendere dimora definitiva presso il fiume che chiamarono Nilo, ravvisando in esso una fonte da cui trarre in permanenza il proprio sostentamento.
Spesso le sculture conservano ancora la pittura della pelle, dei capelli e delle vesti stesa nei colori naturali in modo da aumentare l’illusione della vita, giacché tutte queste statue di re, di alti funzionari, di generali e di scribi, ma anche di semplici ancorché abbienti cittadini, avevano uno scopo non già ornamentale ma pratico, eminentemente utilitario: quello di conservare il corpo del defunto riproducendolo sontuosamente in effigie (oltre che, come si sa, mummificandone i resti mortali) per permettergli di continuare a vivere nell’aldilà. Non bisogna dimenticare quest’aspetto quando si considera la scultura dell’antico Egitto, cioè che essa era destinata in gran parte a garantire ai suoi esponenti la vita nell’oltretomba, specie di quelli più eminenti, quali, va da sé, i faraoni, i sacri figli del Sole destinati a ritrovarsi nell’alto del cielo accanto al Padre venerando una volta concluso il proprio numinoso soggiorno sulla terra. Ciò serve intanto a comprendere la ragion d’essere di quelle altrimenti assurde montagne di pietre quali potrebbero apparirci le piramidi, tanto imponenti ma nient’altro che solidi geometrici per essere considerati autentici monumenti dello spirito, ossia opere ascrivibili all’afflato della creazione artistica. Giacché la piramide, nient’altro che una tomba, la dimora sepolcrale del faraone così convinto della propria divina grandezza da desiderarne una eretta con centinaia e centinaia di massi di granito pesanti alcuni milioni di tonnellate, doveva servire a proteggere la mummia del faraone dalla corruzione del tempo e dalla profanazione degli uomini col peso eterno della sua mole grandiosa, ma altresì a propiziarne, attraverso il proprio apice puntato verso l’alto, l’ascesa al cielo onde ricongiungerlo rapidamente alla forza del globo solare da cui era stato generato.
Se lo scultore, in relazione allo scopo a cui era destinata la statuaria umana, veniva designato, in Egitto, come “colui che mantiene in vita”, l’architetto aspirava a una funzione ancora più importante e complessa, che, associandosi a quella dello scultore, forniva anche la dimora per invogliare gli dèi a soggiornare sulla terra accanto agli uomini, favorendo quel connubio tra umanità e divinità, e tra vita di qua e vita di là, che per il popolo egizio, forse più che per altri, qualificava l’esistenza e che spiega la predilezione per le dimensioni colossali, ritenute congrue al concetto di sovrumano, nella costruzione di dimore per la vita di qua, come a Luxor, “la città dei re”, e a Karnak e a Deir-el-Bahari, con i templi simili a immensi recinti caratterizzati da mura e colonne mastodontiche atte ad accogliere esseri appunto smisurati come gli dèi o i faraoni, loro figli e rappresentanti sulla terra; o a Sakkara e a el-Giza con le tombe imponenti per la vita di là, dove il dio defunto poteva intraprendere indisturbato il suo viaggio notturno per risalire alla luce solare.
In questa contiguità con la morte, quasi un vagheggiamento degli inferi intrattenuto dagli egizi continuamente e irresistibilmente, si potrebbe esser tentati di scorgere, come del resto facevano i greci e i romani, e prima di loro gli israeliti (per i quali l’Egitto era Sceòl, il regno dei morti), una possibile causa della mancata apertura sul resto del mondo d’una civiltà che, pur nella sua complessità e raffinatezza di costumi, non smise mai di civettare con l’idea del sonno eterno, certo condizionata in questo dalla limitatezza e labilità del suo mondo, circondato e isolato com’era da un deserto letale e sottoposto agli imprevedibili umori di un fiume-dio che poteva, con la pienezza o scarsità delle sue acque, decretarne la prosperità come l’estinzione, la vita come la morte. Eppure è proprio da quella società così sensibile alla caducità delle cose del mondo da non riuscire a dilatare il proprio orizzonte oltre l’eterno ritorno delle piene del Nilo – suo Nume ma anche suo imperscrutabile tiranno, bizzoso e incostante – che prenderà il via il vitalissimo percorso della cultura classica, a cui il vecchio Egitto aveva preparato il cammino sfrondando ampiamente l’arduo sentiero della civiltà. Quando ci si trova a tu per tu con le vestigia superstiti della cultura faraonica, apparentemente tanto remote e distaccate eppure, come dicevo, così familiari alla nostra sensibilità da farci ravvisare in esse il serbatoio archetipico della nostra memoria culturale, non possiamo nutrire dubbio alcuno sul ruolo di matrice ch’essa ha rivestito per tutti noi, in particolare per quella civiltà greca su cui si forgerà la coscienza luminosa dell’Occidente. Il debito della Grecia con l’Egitto apparirà manifesto, anzi irrefutabile a chiunque abbia avuto modo di esaminare la scultura ellenica delle origini, in particolare certe figure di kouros conservate in diversi musei greci, per il criterio strutturale della composizione rigorosamente geometrico e per la rigida frontalità della visuale; così come risulterà incontestabile la derivazione degli edifici greci da quelli faraonici – pur, questi ultimi, tanto più imponenti e concettualmente “sovrannaturali” – per l’uso al tempo stesso strutturale e ornamentale, ad esempio, delle colonne, fascinose unità architettoniche nate probabilmente proprio in Egitto e ideativamente derivate quasi certamente dai pali usati per innalzare e reggere la tenda dell’esistenza nomade, allorché l’uomo cominciò a costruire edifici permanenti ove trovare fissa dimora per sé e per i propri dèi dopo aver abbandonato la vita incerta ed errante del cacciatore-raccoglitore per quella stabile e più sicura dell’agricoltore. Così dovette accadere ai primi egiziani che decisero di prendere dimora definitiva presso il fiume che chiamarono Nilo, ravvisando in esso una fonte da cui trarre in permanenza il proprio sostentamento.
Dionisio
22 commenti:
Caro Dionisio doppiamente grazie...per avermi sostituito e per questo splendido pezzo...
L'argomento che hai scelto è veramente interessante
La civiltà egizia, con la sua arte rimasta inalterata per tutta l’epoca faraonica, affascina tutti, grandi e piccini, da sempre.
Le opere, le imponenti costruzioni e i piccoli oggetti artistici sono una"finestra" su quel mondo lontano e per certi versi misterioso. E inoltre ci informano sulla vita quotidiana, sulle credenze e conoscenze, di quel lontano popolo illuminato, per quei tempi
E tu hai trattato l'argomento con molta chiarezza e ricchezza.
Complimenti...
Ciao Are
Dionisio
questo post è nfr
come direbbero gli egizi
ciao
Marcello
ps purtroppo la piattaforma blogger non accetta immagini nei commenti.
Caro Dionisio, che devo dirti di fronte a un pezzo così magistrale? Non saprei cosa aggiungere , tenuto conto che mi sento profondamente ignorante in materia, nei confronti di una cultura dove c'è ancora tanto da esplorare.
Forse una suggestione la esercitano su di me le statue e i busti di Nefertiti e Nefertari, donne di stilizzata bellezza dai colli lunghissimi che sembrano aver ispirato quelle bellezze sofisticate, androgine e misteriose che si sono viste anche sullo schermo. E ancor prima su alcuni dipinti.
Purtroppo non ho alcun pc con me in viaggio. Perciò saluto tutti gli Esperidi e arrivederci tra una settimana.
Grazie, amici, dell'apprezzamento. La passione per l'Egitto antico nasce da un viaggio che risale ad alcuni anni fa e che mi ha portato a leggere tanti testi sulla sua storia e sulla sua produzione artistica. Comunque è stato il contatto,l'approccio diretto che mi ha reso convinto della profonda parentela tra quella cultura e quelle che si sono sviluppate nei secoli successivi nell'ambito del bacino mediterraneo e quindi nel resto del mondo occidentale. Per tanti secoli ne avevamo perso la memoria, eppure essa ha continuato a perpetuarsi e a influenzare la nostra produzione artistica e artigianale, quella architettonica e urbanistica. Con la campagna d'Egitto di Napoleone e con le scoperte del francese Champollion, che ha saputo decifrarne la scrittura nel corso di quella spedizione, l'abbiamo riscoperta e ritrovato una fonte essenziale della nostra immaginazione.
Da studioso di EGITTOLOGIA non poteva non farvi capolino Marcello.
Io, da grande appassionato quale sono stato, mi accingo alla lettura.
Per Nefertiti vedere qui
http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/altro/Nefertiti.html
Quello che lascia meravigliati ed anche perplessi, fino al punto di fare supposizioni al limite della fantaarcheologia, è come si sia potuta sviluppare una simile civiltà.
Non c’è dubbio che nel 3200 a.c. ,al tempo della prima dinastia, gli egizi fossero molto civilizzati e più progrediti rispetto alle altre popolazioni del mondo conosciuto a quel tempo, ciò presuppone una retrodatazione dell’inizio della loro civiltà. Il periodo predinastico porta indietro nel tempo la datazione fino a circa il 3900 a.c. praticamente alla fine del neolitico.
Esistono altre teorie sulle datazioni fino a portare al 9000 a.c. in cui si ipotizza una civiltà preegizia ma, restando nel certo, siamo, quindi, fuori dalla possibilità che gli egizi siano stati influenzati da civiltà preesistenti. Quindi una civiltà autogenerasi, un po’ come la genesi del dio Atum che è creatore di se stesso distinguendosi dal Nun, l’oceano cosmico primordiale.
E’ una civiltà completa sviluppata in tutti i campi: artistici, architettonici, filosofici, linguistici, religiosi, tecnici e scientifici. Tutte le civiltà a seguire, come è detto anche nel post, hanno preso spunti da quella egizia e, a mio avviso, sia i greci che i romani non hanno raggiunto la sua universalità.
Ciao
Marcello
Marcello, il tuo commento è interessante e per risponderti occorrerebbe un lungo spazio. Mi limito a dire questo: nella cultura egizia permane un fondo di primitivismo, di concezione magica dei fenomeni che provoca un arresto, un blocco del ragionamento, interdicendo inesorabilmente quella facoltà che i greci invece seppero sviluppare in sommo grado: la deduzione logica e ragionevole capace di articolarsi in un contesto ordinato e armonico di esperienze e di creare quella struttura dialettica del sapere in cui è riposta la virtù dinamica e progressiva del pensiero ellenico.
Ti cito quello che dice uno storico africano, Joseph Ki-Zerbo: "L'Egitto, che inaugura la storia, è forse ancora più attaccato alla preistoria, di cui costituisce come una sublime ipertrofia e di cui esalta tutte le possibilità fino al miracolo. Il faraone è un sovrano che dispone di un'amministrazione perfetta; si fa seppellire in sarcofagi d'oro massicio ma (...) è poligamo e pratica l'incesto; procede bardato di amuleti e interdizioni, con un falco in testa e una coda di animale alla vita; in fondo è un prodigioso capo tribù. I geometri e gli ingegneri egiziani arrivano a collocare i corridoi delle camere funebri delle piramidi sull'asse della stella polare, ma temono il malocchio e praticano il culto degli animali totem. Nefertiti si presenta coperta di gioielli, imbellettata, rutilante di cosmetici, profumata di terebinto, ma reca gli scarabei portafortuna e beve certamente l'acqua in cui è stato macerato un papiro coperto di formule magiche". Esagerato? Se ne può discutere, ma fondamentalmente è così. E certamente i greci partono da lì, ma seppero trasformare totalmente il materiale che ricevettero in eredità dagli egizi, togliendolo dalla sua staticità (era rimasto uguale a se stesso per millenni...), rimettendolo in moto e conferendogli illimitate capacità di trasformazioni e sviluppo - :)
Dionisio
Indubbiamente la cultura egizia è più statica e fondamentalmente priva di dialettica rispetto a quella ellenica, questo è dovuto, a mio giudizio, da un certo appagamento nella certezza di essere nel giusto, mi spiego.
“tutto ciò che è stato creato tornerà nel Nun … “Io” solo persisto, sconosciuto ed invisibile a tutti. “Io” è l’Essere Supremo che non ha nome..”
Queste parole esprimono la certezza nell’eternità dell’Essere Assoluto che è in entanglement col Nun, l’infinita fonte cosmica da cui tutto proviene e in cui alla fine tutto si dissolve.
In pratica siamo di fronte all’annoso problema: essere nonessere divenire.
Dai greci in poi sono trascorsi 2500 anni di speculazioni filosofiche, sostanzialmente inconcludenti, che noi chiamiamo dialettica, mentre gli egizi hanno accettato questa tesi una volta per tutte.
“Sono l’Uno che si trasforma in Due
Sono il Due che si trasforma in Quattro
Sono il Quattro che si trasforma in Otto
E dopo ciò sono l’Uno.”
(iscrizione sul sarcofago di Petarmont Museo del Cairo)
Alcuni hanno voluto leggere in queste parole la suddivisione della cellula in seguito alla fecondazione, la tesi mi sembra azzardata, cmq esprimono chiaramente un processo di “divenire”.
Per quanto riguarda la poligamia, l’incesto o la pedofilia, ci sono anche oggi alcune cosiddette “civiltà” che le praticano, ogni riferimento è puramente voluto.
Per gli amuleti, che dire, dopo 5000 anni costituiscono tutt’oggi un mercato fiorente, con tanto di maghi e fattucchiere.
Se il faraone indossava maschere e abbigliamento riconducibili ad animali, mi sembra che ciò sia in linea con la sua natura divina, molti dei venivano rappresentati come animali, vedi Anubi. Probabilmente era un volersi mostrare al popolo nelle sembianze di una divinità.
Penso che su questi argomenti potremmo parlarne all’infinito.
Tornando ad essere più aderenti al tema artistico, tempo fa su un ottimo post di Josh,
(http://esperidi.blogspot.com/2010/03/rosai.html )
In un mio commento parlavo di prospettiva frontale.
“La prospettiva frontale usata dagli antichi egizi, serve a mettere in risalto le proprietà somatiche delle figure umane. E’ un insolito modo prospettico di pitturare: un viso disegnato di profilo, con occhio, spalle e petto, appartenenti invece ad una prospettiva frontale. L'attaccatura delle braccia è una combinazione delle due prospettive e gli arti inferiori di profilo per dare l’impressione e l'orientamento del movimento. Ogni singolo elemento della figura è raffigurato nella sua prospettiva più importante, pertanto potremmo dire che l’immagine risultante è un assemblaggio di più viste prospettiche differenti”
Gradirei un tuo parere su questo passaggio.
Scusa della “lenzuolata” ma è un mondo che mi appassiona.
Ciao
Marcello
Marcello,
dal farvi capolino, all'intervenirvi in maniera così "scientifica", il passo è stato breve: mi è bastato stuzzicarti. Dopo quelle serate dell'autunno 2006, quando mi parlasti in maniera molto "accattivante" di questa tua "conoscenza" dell'antica civiltà egizia, non avevo avuto dubbi su tuoi interventi a questo livello!
Ho letto anch'io, su un libro ottimamente ben fatto della Ceschina Editore di Varese, di quella civiltà prefaraonica esistente in Egitto fin dal 10.000 a.c., e la questione affascina molto anche me. E' bastato questo post e i tuoi commenti per risvegliare in me le sensazioni che provai alla lettura di quel testo. Ripeto: ottimo libro che devo avere conservato da qualche parte.
Marshall
tutto si gioca sulla sfinge la cui datazione ufficiale è circa 2500 a.c. in linea con la datazione della piramide di Cheope e la testa della sfinge secondo gli studiosi rappresenterebbe lo stesso Cheope oppure Chefren.
Però esistono degli studi sull'erosione che ha subito nei millenni, che rivelerebbero che certa erosione sarebbe dovuta alla pioggia.
Mi spiego meglio l'erosione del vento procura nella roccia delle fenditure orrizzontali,mentre quella dell'acqua verticali.
Se effettivamente certe erosioni sono dovute alla pioggia, allora bisogna retrodatare
la sfinge o perlomeno la roccia su cui è stata scolpita ad almeno 10/12000 anni fa quando il clima di quella zona non era desertico.
Tengo a precisare che Zaki Hawass, responsabile del complesso archeologico della piana di Giza è decisamente contrario a questa ipotesi.
Avrà certamente ragione, ma come personaggio non è che mi dia molto affidamento, non perchè non sia preparato, quanto per il fatto che su certi argomenti è piuttosto reticente.
ciao
Marcello
Marcello,
proprio su tali argomenti disquisisce quel libro: che fino al 10.000 a.c. l'Egitto era coperto da fitte foreste, e quindi doveva piovere molto. Poi vennero siccità e deserto; si salvò solamente la Valle del Nilo, che grazie alle periodiche esondazioni del grande fiume, rende fertilissima la Valle.
Zaki Hawass. L'ho ascoltato e parla correttamente anche l'inglese. Quanto ai suoi convincimenti, propendo più per la tua ipotesi, che è molto più convincente.
Marcello, per quanto riguarda la pittura egizia della figura umana la tua descrizione è perfettamente calzante. Del personaggio raffigurato si rappresentava la parte più significativa, e i suoi attributi (volto, occhi, braccia, gambe, piedi) restituiti nel modo più opportuno per descriverne la funzione (che si capisce da ciò che, per esempio, impugnano le mani:flabello o frusta per il faraone, armi per il generale, strumenti per l'esercizio dell'agricoltura per l'agrimensore, ecc.). Era una consuetudine che divenne regola ferrea, forse dovuta a una preoccupazione d'ordine magico-religiosa (non dimentichiamo che ogni raffigurazione serviva a "mantenere in vita" il raffigurato, quindi, appunto, con tutti i suoi attributi riprodotti in maniera la più significativa possibile).
Per quanto riguarda la differenza tra egizi e greci, se è vero che i greci attingeranno a piene mani dalla cultura egizia, è altrettanto vero che ad un certo momento se ne distaccheranno in modo profondo, approdando a una propria identità culturale anche molto diversa. Il divorzio, la differenzazione dagli egizi si misurerà, per i greci, sul concetto di "umanesimo", ossia sul riconoscimento della centralità dell'uomo nella realtà del mondo, affermatosi via via nella società ellenica con crescente autorevolezza mentre in Egitto l'uomo rimase sempre alla mercé della natura, completamente assoggettato al suo oscuro potere ctonio. Infatti, la teo-cosmogonia greca si evolse e definisce obbdendo al proposito di umanizzare le forze che hanno prodotto la nascita del mondo e della vita su di esso, e ciò avviene con la concezione di un pantheon di dèi antropomorfi che governano il destino degli uomini e nei quali si osserva la prima intuizione della verità che troverà compiuta espressione nella rivelazione biblico-cristiana del Dio Padre che crea gli uomini a propria immagine e somiglianza. Invece in Egitto persiste immutabile la convinzione arcaica della dipendenza assoluta dell'uomo dalle enigmatiche potenze naturali e dalla sua stessa sostanza "animale", per cui gli dèi nilotici vengono invariabilmente raffigurati in sembianze animali, come Api, che è il fiume, il padre dell'Egitto, ma anche, sotto forma del dio Usir riemergente dal sottosuolo insieme alla piena delle acque, il toro Chapi che con il suo seme soprannaturale feconda Keme affinché l'abbondanza del raccolto possa nutrire tutti i figli del Nilo. Potrei andare oltre, ma ho già fatto una lenzuolata abbastanza ampia.
Certamente non sappiamo tutto dell'Egitto dei faraoni, perché rimane molto ancora da scoprire, ma su questi aspetti mi pare che gli studiosi concordino abbastanza. Certo non bisogna guardare troppo a quel mondo con i nostri occhi di contemporanei.
Proseguo per chiarire meglio quel che voglio dire. Più che gli animali per gli egizi era sacra "l'animalità", per questo essi non sapevano immaginare il dio altrimenti che come un animale. Arriveranno a concepire addirittura un rudimentale concetto di trinità, però in chiave tutta terrena e anzi precipuamente animalistica, giacché la triade per loro si divideva in dio, uomo e animale, così che se il dio si univa con l'animale nasceva l'uomo, ma se l'uomo si univa con l'animale ne nasceva un dio, e il divino non ci poteva altrimenti concepire né rappresentare che in questo connubio. Perciò, ai due estremi della parabola della vita si collocavano, da una parte, Hecket, la grande levatrice, colei che dava origine alla vita nel mondo, con corpo di donna e testa di rospo, il più prolifico degli animali; dall'altra si trovava Anubi, colui che, come abbiamo visto, sovrintendeva alla morte, con corpo di uomo e testa di sciacallo, animale notturno divoratore di cadaveri. Per gli egizi nell'animale si trovavano riuniti il dio e l'uomo; l'animale era l'elemento sacro venerando proprio per la sintesi che si esprimeva, per suo mezzo, tra l'uomo e la potenza misteriosa della natura. Tale credenza era radicata al punto da indurre i figli del Nilo a celebrare ritualmente, in una delle festività più importanti dell'anno (ne parla anche Thomas Mann in "Giuseppe in Egitto") l'unione tra l'umanità e l'animalità con lo stupro di una vergone consumato da un caprone; un'usanza ritenuta già dai contemporanei israeliti un orrore al cospetto di Dio e una sozzura imperdonabile, tanto è vero che l'altro nome da essi affibbiato all'Egitto, Mizraim ovvero "paese di fango", se allude come quello egizio di Keme al limo deposto dalle piene del Nilo, intende però sottolineare l'abiezione di costumi religiosi inconcepibili e mostruosi per chi, come loro, avevano anteposto decisamente all'animalità dell'uomo la sua elevazione morale e la sua sete di spiritualità. A loro volta i greci, per rimarcare l'essensiale differenza di prospettiva assunta anche dalla cultura ellenica rispetto a quella egizia, consideravano l'unione dell'essere umano con quello animale una perversità imperdonabile. Il loro orrore verso un atto tanto detestabile si configurava nel mostro divoratore di fanciulle e fanciulli innocenti, il Minotauro con corpo umano e testa di toro nel quale veniva simboleggiato il timore dell'uomo civile di un ritorno al caos della natura primigenia, dove l'umanità regrediva atrocemente all'animalità e alla barbarie.
Abbiate pazienza per gli errori di battuta. E' difficile sorvegliare la scrittura sugli spazi esigui destinati ai commenti,
Dionisio,
sei come il grande Nilo quando è in piena. Ho finito or ora di leggere in profondità il post e vedo che hai già aggiunto altri "codicilli": quasi al ritmo del grande fiume in piena.
Tranne che per la parte pittorica e scultorea, conosco abbastanza bene gli argomenti da te trattati, per via di quella mia grande passione avuta per l'Egittologia; potrei pertanto dire, a ragion veduta, che è scritto veramente in maniera magistrale. Trovo anche che sintassi e punteggiatura sono perfette.
Dovessi darti un voto, meriteresti senzaltro il massimo.
La mia "mania" della ricerca del bello nella scrittura è forse una sorta di deformazione "professionale". Anche quest'anno, infatti, sono riusciti a tirarmi dentro per fare il giudice popolare in un concorso letterario. Dovrò quindi sorbirmi la lettura di non so quanti racconti, e poi esprimere un giudizio e dare un voto.
E sapessi quanti "strafalcioni" mi sono sorbito nelle edizioni precedenti. Con i post del Giardino delle Esperidi mi rifaccio lo spirito e torno a "respirare a pieni polmoni"! Qui, ad esempio, non ho "scoperto" il benchè minimo refuso.
Complimenti!
Dionisio
Quando dici che non bisogna guardare all’antico Egitto con gli occhi di oggi, mi trovi perfettamente d’accordo. Sull’ argomento analogo della Genesi e della Bibbia in genere, ho avuto discussioni, anche molto animate, soprattutto con gli atei di professione, circa l’interpretazione da dare a certi episodi.
Bisogna considerare a chi erano rivolti questi argomenti, solo un piccolissimo numero di persone era in grado di capire perfettamente di cosa stessero parlando, la stragrande maggioranza aveva bisogno di concetti semplici ed assimilabili a cose ben conosciute. Quindi rappresentazioni antropomorfiche od in forma di animali delle divinità non deve meravigliare, né scandalizzare. Gli ebrei adorarono, seppur per breve tempo, il vitello d’oro. Anche i greci non sono immuni da certe rappresentazioni. I centauri, l’ inconsueta nascita di Minerva e quanti esempi di connubi uomo-animale-divinità-natura si trovano nella mitologia greca. La mia sarà una tesi poco democratica, ma bisogna scindere la cultura ad uso della classe colta, da quella che la classe colta racconta al popolo e questo vale per tutte le civiltà. Non credo che Socrate o Platone credessero a Zeus lanciatore di fulmini.....ma per il popolo andava bene così.
E’ un piacere conversare con te, anche se solo via web. Non è come essere seduti al caffè dell’Ussero, ma credo che ormai bisognerà adeguarsi a questo modo di colloquiare.
Ciao
Marcello
Anche per me è un piacere conversare con te, Marcello. Già, peccato non potersi vedere ad un caffé, anche con le amiche e gli amici che ruotano tra questo blog e altri che hanno creato alcuni.
Per ora, ci tocca accontentarci del web.
A presto
Sono contento, Marshall, che il mio pezzo ti sia piaciuto. Spero di averti fornito qualche elemento di conoscenza in più di quella grande civiltà da cui ad ogni modo discendiamo tutti.
Di qualunque argomento, non possiamo dire di sapere mai abbastanza. Oggi, poi, lo studio accurato non è più considerato granché; si tende a sorvolare su tutto, a dare solo un'occhiata a volo d'uccello.
Dionisio, Marcello,
scusate l'intromissione con questo fuori tema.
Visto che Sarc. ha citato l'Ussero, avevo creduto in un suo refuso quando ha scritto Paolo Mascagni, in un commento ad Hesperia del post precedente. Per fortuna mi ero trattenuto dallo scriverne subito, perchè in effetti Paolo Mascagni è stato uno scienziato italiano. Tra l'altro è morto a Chiusdino nel 1815, località che anch'essa mi è nota per essere stata forse citata da Sarc. in qualche post, o commento (ha forse a che fare con i Cavalieri di Santo Stefano?, o col Mulino Bianco?).
OT.
Marshall
Chiusdino è la località dove si trova il Mulino Bianco della Barilla.
ciao
Marcello/Sarc.
FUORI TEMA
Sarc.,
grazie. Ma non solo. E soprattutto, almeno per quanto attiene a questo blog, che deve trattare prevalentemente di storia, letteratura ed arte, penso sia molto più importante sapere che a Chiusdino vi sia l'Abbazia di San Galgano, ora completamente in rovina.
Il tema delle abbazie è assai caro a questo blog, soprattutto allo scrivente, e il fuori tema m'è servito, se non altro, per dare una "rispolverata" all'argomento.
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