
Paolo Uccello, in un’epoca di grandi pittori come quella in cui egli visse ed operò, il primo Quattrocento italiano contraddistinto dal raggiungimento d’una tecnica pittorica già sopraffina ma che conserva ancora l'ingenuità della visione, lo stupore di fronte alle cose del mondo, la fantasia che trasforma tutto in un bel sogno, spicca per la sua capacità di creare atmosfere incantate e rarefatte, oggi diremmo surreali, composizioni cristallizzate nella magia d’una luce mitica, incantata, che nelle scene per così dire d’azione, quelle più importanti della sua produzione, le tre grandi tavole della Battaglia di San Romano (tra le poche, però, superstiti, perché molto è andato perduto di questo pittore), appaiono illuminate da una luce come di tempesta in procinto di scoppiare che sembra fermare i personaggi nel gesto in cui il bagliore corrusco della luce li blocca al modo di un’istantanea fotografica (viene in mente la teoria di Cartier-Bresson: fermare l’attimo pregnante), conferendogli quell’aria di solennità ed eternità e, per l’appunto, mitica, come ho detto poc’anzi. Pittore per nulla realistico, quindi, ma surrealista per eccellenza proprio per quella sua capacità di creare nelle proprie opere quell’alone mitico e magico che va al di là della realtà e la trasfigura nel sogno. E se è vero, come racconta il Vasari, ch

e trascorresse molta parte del suo tempo nello studio della prospettiva, lo fece solo per negare, o meglio distorcere, restituire in modo innaturale proprio quella prospettiva in cui non solo lui si arrovellava al suo tempo, ma molti altri artefici impegnati nell’arte pittorica. Sulla questione dell’uso della prospettiva in funzione magica e surreale è stato De Chirico, tra i pittori contemporanei, ad avvalersene, a farsene, in un certo modo, il campione. Se, come dice Borges in uno dei suoi paradossi più intriganti, ogni artefice crea i propri precursori, non c’è dubbio che De Chirico abbia creato (diciamo meglio, più realisticamente, eletto) a proprio precursore proprio Paolo Uccello. A prima vista è difficile rendersene conto, perché gli esiti pittorici dell’uno sono molto diversi da quelli dell’altro. Ma possiamo scom

metterci che De Chirico abbia studiato a lungo il grande Paolo sul tema della resa prospettica; e che, studiandolo, abbia capito che, per creare quell’atmosfera surreale, bloccata nel tempo e decisamente onirica che ha immesso nei suoi quadri migliori, quella che lui ha voluto definire “metafisica”, il segreto stava nel distorcere la prospettiva, nell’usarla come elemento di straniamento dalla realtà. Gli esiti pittorici sono molto diversi, come ho detto, perché De Chirico usava l’ironia in quanto la contemporaneità non consente di abbandonarsi all’incanto della favola e il suo atteggiamento è quello di chi, di fronte alle brutture della modernità, pu

ò solo difendersi irridendo il gusto di coloro che, mentre non esitano ad accostare una fabbrica industriale ad un castello rinascimentale, mettono alla ribalta, come se fossero statue classiche, dei manichini di sartoria (parlo, lo si è capito, de “Le muse inquietanti”). E non credo sia un caso che, a proposito dei personaggi di Paolo Uccello, si parli di “manichini” (per restare nel discorso di chi è il “precursore” di chi), perché la loro compostezza e algidità, pur impegnati come sono in una battaglia densa di trombe e di vessilli, irta di lance e di balestre, li estraneizza, per così dire, dal contesto in cui si trovano.
Ma il mondo di Paolo Uccello è quello della favola, un mondo che attinge copiosamente all’armonia, per restituire la quale egli non esita a ricorrere alla matematica e alla geometria, perché alla matematica e alla geometria si è affidata l’opera stessa della creazione. Guardiamo la disposizione dell’armata dipinta nelle tre sequenze della Battaglia di San Romano: è tutta costruita su regole matematiche. Le armi vanno a gruppi accostati per numero: per esempio, se tre balestre e tre lance sono gialle, si contrappongono a tre lance rosse; oppure se le selle sono cinque, cinque sono i baltei; così i pennacchi e gli elmi, e i volti scoperti e i cavalli, sempre a gruppi opposti e corrispondenti di due e di tre, di tre e di cinque. La scena, nei tre diversi momenti in cui si snoda la battaglia, è sempre disposta in un incastro di figure geometriche inserite in

un reticolo definito ancora geometricamente, come la selva di lance levate in alto che disegnano un angolo retto corrispondente a quello, disposto all’interno d’un quadrato ideale, delle lance spezzate sul terreno. I colori poi, stesi in modo piatto, assolutamente non reali, come i cavalli gialli e rossi e bianchi e neri galoppanti o rampanti nell’impegno della pugna ma sempre in atteggiamento aggraziato ed elegante, e ver

de-azzurri quelli caduti a terra sotto l’impeto dello scontro tra le due fazioni, concorrono in modo determinante, insieme alla mancanza di sangue e di morte cruenta che porta con sé la guerra (c’è un solo morto, ma così schiacciato a terra da sembrare più un’armatura abbandonata nella polvere che un uomo reale), a creare l’atmosfera da fiaba, sovra reale e mitica della scena raffigurata dall’artista. Una pittura di pura bellezza, insomma, che si traduce in altissima poesia e che solo un pittore come il mite Paolo Doni detto Uccello (perché amava dipingere gli animali ma soprattutto gli uccelli), artista “coi piedi poggiati saldamente sulle nuvole” (la definizione, felicissima, è di Ennio Flaiano) poteva realizzare.
Mi accorgo d’aver parlato solo della Battaglia di San Romano. Le altre cose di Paolo, quelle almeno giunte fino a noi, vanno annoverate tra le opere minori, anche se

per niente irrilevanti, come il ritratto femminile conservato al
Garden Museum di Boston o La caccia nella foresta dell’
Ashmolean Museum di Oxford, e soprattutto il San Giorgio e il drago della
National Gallery di Londra, altra opera favolosa per l’impianto, per l’atmosfera e, ancora una volta, per il sovra realismo della scena. Addirittura l’opera di salvazione della principessa prigioniera del drago da parte del San Giorgo vi appare superflua (concorrendo quindi all’effetto di straniamento o di stupore) perché la principessa tiene al guinzaglio il drago e quindi appare evidente che è lei a tenerlo sottomesso. Ma forse qui è da vedersi un significato simbolico ed edificante: la figura del drago rappresenta il male, e l’immagine della donna che l’ha ridotto al suo controllo (colei che, almeno al tempo di Paolo Uccello, rappresentava idealmente la continenza, la mansuetudine), vuole ricordarci che il male è nella natura stessa dell’uomo e non si può debellare per sempre, ma che dobbiamo imparare a tenerlo a freno, a metterlo al guinzaglio, a vincerlo. E San Giorgio che pretende tuttavia di ucciderlo ci fa la figura del velleitario e dell’ostinato. Con gli occhi di oggi, e mettendola in burla, diremmo del maschilista, perché non si accorge che già ci ha pensato la donna a mettere al guinzaglio la natura animale e maligna dell’uomo.
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Dionisio