martedì 30 aprile 2013

Pietro Bembo e l'invenzione del Rinascimento

Il Cardinale Pietro Bembo (Venezia 1470-1547, poi vissuto a Padova, a Roma) fu scrittore, grammatico, umanista. La sua opera fu vastissima, dall'elaborazione di una importante fase della lingua italiana, che fissò sui maggiori scrittori toscani del Trecento, alla diffusione del modello poetico di Petrarca, alla rielaborazione in musica della forma del madrigale del XVI secolo, alla rivalutazione di Cicerone e Virgilio come modelli di classicità.

(Tiziano, Ritratto di Pietro Bembo)

In realtà si tratta di una figura dalle mille sfaccettature ardua da riassumere, e fondamentale nell’Italia del Rinascimento e per le implicazioni future.
Dalla biografia salta agli occhi il suo eccellere in campi svariati.
Poesia, Storiografia, Grammatica, Lingue Classiche...  Fu anche Bibliotecario della Repubblica Veneta, e il letterato che influenzò in modo determinante la letteratura rinascimentale.
Con Aldo Manuzio rivoluzionò il concetto di libro e l'idea della sua diffusione, curando volumi di classici di piccolo formato letti anche al di fuori delle aule universitarie.
Si legò a donne affascinanti del tempo come Lucrezia Borgia, fu l'autore degli Asolani e dei Motti.  Papa Paolo III lo nomina Cardinale quando ha 69 anni, e anche in questo ambito fu sempre Bembo a impostare la base della Biblioteca Vaticana come la conosciamo oggi.

(Sebastiano del Piombo, Cristo portacroce)

Fu amico, spesso guida e ispiratore di molti artisti, tra cui Raffaello, Michelangelo, Giovanni Bellini, Sansovino, Sebastiano dal Piombo, Tiziano, Benvenuto Cellini.
Anche da questa vicinanza e frequentazione continua con le arti nacque la sua idea innovativa di collezione.

 (Giorgione, Ritratto di giovane)

"Bembo e l’invenzione del Rinascimento", fino al 19 Maggio a Palazzo del Monte di Pietà in Piazza Duomo, Padova, è una mostra tra le più importanti della stagione,
e fotografa anche l’Italia alla fine del Quattrocento, allora composta di corti esclusive e centri di potere dislocati, differenti e separati tra loro.
Il lavoro intellettuale incessante di Bembo è anche simbolo di coesione e di ricerca di tratti comuni del paese dalle corti disparate. Coltiva infatti un’idea personale di unità d’Italia e di identità, a partire dalla creazione di una lingua nazionale e condivisa (la questione della lingua sarà sempre alla base delle questioni dell'Unità,
fino all'Unità vera e propria, per molti secoli a venire): nelle Prose della volgar lingua (1525), Bembo pone le basi delle regole dell’italiano, fondandolo sugli scritti di Petrarca e Boccaccio.

(Raffaello, Ritratto di Elisabetta Gonzaga)

La sua dimora esiste ancora, in via dell'Altinate a Padova, anch'essa assume un valore mitico, paradigmatico. E' proprio in quella casa che si accumularono i capolavori della collezione che Bembo, poi divenuto cardinale, aveva riunito, oggetto oggi dell'esposizione.

Si tratta di opere che spaziano da Bellini a Tiziano da Mantegna a Raffaello:
l'esposizione è stata preceduta da un convegno internazionale di approfondimento. L'evento è promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Centro Internazionale Andrea Palladio e la collaborazione e il patrocinio del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali.
Curata da Guido Beltramini insieme a Davide Gasparotto e Adolfo Tura, è guidata da un consiglio scientifico presieduto da Howard Burns, con Giovanni Agosti, Lina Bolzoni, David Alan Brown, Matteo Ceriana, Marco Collareta, Massimo Danzi, Caroline Elam, David Freedberg, Fabrizio Magani, Arnold Nesselrath, Alessandro Nova, Pier Nicola Pagliara, Vittoria Romani, Claudio Vela.

(Francesco Francia, Lucrezia)

Per l’annuncio ufficiale dell’evento era stata scelta proprio Casa Bembo, oggi sede del Museo della Terza Armata. Qui, negli anni padovani di Bembo, i primi anni Trenta del Cinquecento, era la collezione composta di dipinti di grandi maestri ma anche di sculture, gemme, manoscritti miniati, oggetti, monete rare e medaglie.

(Eusebio, Chronici canones Londra, British Library)

La ricchezza e varietà degli oggetti d’arte, raccolti per gusto estetico ma anche come preziosi testimoni per lo studio del passato, rese agli occhi dell’Europa del tempo la casa di Bembo  “Musaeum”,  intesa letteralmente come “la casa delle Muse”
luogo precursore di quello che sarà il moderno museo.

Per una breve stagione, proprio grazie all’influenza di Bembo e al suo gusto,
la stessa Padova divenne centro della cultura artistica internazionale:
nasceva un nuovo modo di presentare l’arte e la conoscenza, e nasceva anche il Museo,
termine che a partire da qui diviene universale.

(Tiziano, Tobiolo e l’Angelo)

Dopo la scomparsa di Bembo, i capolavori venduti dal figlio Torquato si dispersero nel mondo ed oggi sono conservati nei grandi musei internazionali, che li hanno concessi  in prestito in occasione della mostra padovana.

(Arte Romana, Antinoo)

Sul versante dell’arte visiva, per Bembo, Michelangelo e Raffaello erano la rivoluzione dell'arte del tempo, speculare a quanto stava accadendo in ambito letterario.
A suo avviso si trattava di una nuova lingua dell’arte eppure ancora classica, 
memore della grandezza dell’arte romana antica, in grado di spingersi verso una perfezione extratemporale e un linguaggio universale,  riconosciuto in seguito proprio come Rinascimento italiano.

(Raffaello, Ritratto di Navagero e Beazzano) 

Grazie all'incessante opera di ricerca, produzione e ispirazione di Bembo, e di Michelangelo e Raffaello e di molti altri grandi artisti,
un’Italia non ancora compiuta, 
succube delle grandi potenze estere sul piano militare (ma questa pare essere una costante, poi vi si aggiunge anche la soggezione finanziaria)

poteva segnalarsi in Europa conquistando il primato di civiltà legittimo attraverso le armi dell’ingegno, dell'arte e della cultura.

La mostra racconta questo spaccato, attraverso i capolavori da Mantegna a Raffaello, da Giovanni Bellini a Tiziano che Bembo collezionò, o che vide creare, spesso contribuendo anche alla loro ideazione.

approfondimenti:
_un'eccezionale galleria di dipinti
_Pietro Bembo e la Lingua Italiana
_La casa del Bembo, il primo Museo

PIETRO BEMBO e l’invenzione del Rinascimento
Da Bellini a Tiziano, da Mantegna a Raffaello
Padova, Palazzo del Monte di Pietà
Piazza Duomo 14

Per info QUI

Josh

mercoledì 24 aprile 2013

Tiffany, Gallé e i Maestri dell'Art Nouveau



TIFFANY, GALLÉ e i Maestri dell’Art Nouveau è il titolo della Mostra, con opere provenienti dal Museo di Arti Applicate di Budapest, che si tiene a Roma, Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 28 aprile 2013
(quindi per chi vuole...è il caso di affrettarsi)


Oltre 90 opere illustrano alcuni aspetti del movimento, per l'Anno Culturale Ungheria-Italia 2013.

Può anche rappresentare l'occasione per avvicinarsi a una temperie e storia ben definite, e per conoscere più da vicino l'Ungheria,
che in questo periodo si sta opponendo (caso più unico che raro) con Orban alle politiche di razzia culturale, identitaria e spoliazione economica da parte della vergognosa schiatta burocratica europeista contro i nostri stati sovrani.


Questa stagione d'arte, caratterizzata da innovazioni  e contaminazioni tra generi, si snoda tra la mitica Esposizione Universale di Parigi del 1889 e la Prima Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1911.

E' caratterizzata da forme ispirate alla natura e da cromatismi spettacolari: materiali ricercati, forme sinuose tra reale e decorativismo.
Oggetti in vetro e ceramica lavorati sono il fulcro della mostra, ideati dall’americano Louis Comfort Tiffany, dal francese Emile Gallè e dai fratelli Daum, maestri vetrai di Nancy, elementi di stile che hanno influenzato la produzione di oggetti d’arte decorativa in Ungheria e nel mondo.

Presenti anche gioielli e tessuti, disegnati e realizzati da József Rónai-Rippl (sotto, a sinistra, un suo arazzo), Ottó Eckmann e Manifattura Zsolnay.





L'accento nell'arte dell'epoca è posto sulla linea curva, sulla voluta, su volumi ritorti e sul colore.




Fra le opere esposte, il “Pavone” (1898 circa, Tiffany, sotto a destra), vaso decorativo a strati, iridescente, con fili di vetro incorporati, o il “Vaso decorativo lustrato di vari colori” (1894 circa, Tiffany), con lavorazione a vetro soffiato dipinto.









Ancora, la “Lampada da tavolo con paralume di vetro Tiffany” (1890-1900, The Duffner and Kimberly Company, sotto), con tasselli di vetro dai colori opacizzanti, uno dei più noti prodotti di Tiffany.

1.16-Lampada-da-tavolo-con-

L'Art Nouveau prende le mosse chiaramente da una nuova idea di Natura, 
dalla rivalutazione del mondo organico colto nel suo vitalismo, quindi da motivi floreali, per cui germogli, foglie, virgulti, liane quanto volute di tulipani, papaveri, calle, orchidee vengono usati per creare calici e vasi,
come il “Vaso con petali lussureggianti d’iride” (1896-7, Wallander) o “Cachepot” (1900 circa, P.Horti), o ancora il “Vaso decorativo con steli d’orchidea” (1900, Gallè).


Il Movimento Estetico, alcuni aspetti del Simbolismo e il Giapponismo (Japonisme, influenza dell'arte giapponese sull’arte occidentale di cui abbiamo accennato anche qui)
hanno senza dubbio influenzato parte delle opere di Tiffany e Gallé.
Di sensibilità orientale il “Vaso con crisantemi” (1896 circa, Gallé, sopra) o il “Vaso decorativo marrone e miele con decorazione screpolata”(1897, Gallé).

Invece le tradizioni dell’oreficeria ungherese sono evidenti nel “Fermaglio per mantello da donna”(1904 circa, Gyula Hay) o nel “Pendaglio a forma di pesce volante” (1904 circa, Tarjan-Huber).
2.5-Vaso-decorativo-con-ste












Grazie a materiali, manifattura d'arte, ricerca formale, gli oggetti di uso quotidiano fuoriescono dal loro ambito, per assurgere a opere d'arte. Ancora “Lampada a petrolio” (1898 circa, Selmersheim), il “Piattino con rami di vischio” (1895 circa, Pierre Clement Massier, sotto) o il “Set per spezie in scatola decorativa” (1899-1900 circa, Tiffany).

4.12-Piattino-con-rami-di-v







La natura reinterpretata entra...nella decorazione della casa, con i suoi elementi che si fanno stilizzazione:
terra, acqua, frutta, fiori e insetti... compaiono nei tessuti e nei lavori in vetro e ceramica.

Cfr.  “Vaso con verso poetico e dettaglio di foresta” (1900, Gallé), della serie Verreries Parlantes, con un verso tratto da "La Notte" di Victor Hugo: “Les arbres se parlent tout bas”.
2.10-Cachepot

L'eredità Simbolista rivela la sua influenza nell'atmosfera da sogno, e nell'allestimento fantasioso di tematiche vicine al mito classico e ungherese. Ne sono traccia il “Vaso con testa di fauno” (inizio ‘900, Telcs), o l’arazzo “Donna in rosso con rosa” (1898, Rippl-Ronai, in alto nel post).

Il Museo d’Arte Applicata di Budapest, concepito sull’esempio del Victoria and Albert Museum di Londra, è considerato tra i più importanti musei europei per arti applicate e cosiddette minori. Fondato nel 1872,  dopo l’Esposizione Universale di Parigi del 1867, è il secondo museo nazionale in Ungheria.

4.13-Collana


Buona parte della collezione Art Nouveau del Museo di Budapest fu acquistata all’Esposizione Universale di Parigi del 1889, e a quella del 1900.
Gli oggetti poi esposti mostravano una maniera ben definita di procedere nella decorazione, e divennero fonte documentaria e di ispirazione per i progettisti e produttori ungheresi.

il Museo Magyar Iparművészeti Múzeum di Budapest, progettato da Gyula Pártos e Ödön Lechner, con tratti neoclassici, eclettici e Art Nouveau:



Notevole influenza ovviamente esercitò lo stesso Louis Comfort Tiffany con i suoi vetri che, va segnalato, per capire il legame con l'Ungheria, erano realizzati proprio presso la manifattura ungherese di ceramiche Zsolnay.


 Il percorso è articolato in 6 sezioni:
- Colori vivaci, luci nuove;
- Forme organiche;
- Culture lontane, tradizioni antiche;
- Il lusso delle materie;
- La natura in casa nostra;
- Il mondo del simbolismo.

Orari: da martedì a domenica, dalle 9,00 alle 20,00, chiuso il lunedì
Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli, Roma

Josh

mercoledì 17 aprile 2013

Certe ottuse e pericolose zelanterie

Qualcuno ricorderà l'episodio capitato in teatro a un gruppo di attori, che ebbero l'infelice idea di buttare in un pentolone d' acqua bollente, un astice, nel corso di una pièce. Mal gliene colse a tutti costoro (regista incluso)  perché vennero denunciati in Procura da zelati animalisti, per aver provocato un'orribile morte al crostaceo. Qui il vecchio episodio . Vittorio Sgarbi si fece paladino del regista Rodrigo Garcia, girando provocatoriamente con il crostaceo di plastica rossa per i salotti televisivi, per denunciar tale assurdità. Ora ce n'è un' altra.
Susanna Tamaro nel suo articolo comparso venerdi 12 aprile scorso sul Corriere stigmatizza lo zelo e l'intrusività pericolosa quanto assurda di alcuni genitori di una scuola di Orvieto, che in nome del "pedagogicamente corretto" non hanno voluto che i loro  figli interpretassero il ruolo di animali di una famosa fiaba dei Grimm: "I quattro musicanti di Brema".
Buonismo (che non è bontà, ma una forma degenerativa di ipocrisia basata sul pretendere "il bene comune"), ipocrisia, zelanteria, ma soprattutto perdita di buon senso (e di sènno) stanno alla base dei mali endemici della nostra società.
Emergono altresì, fenomeni preoccupanti quale il vuoto educativo e culturale,  l'eccesso di individualismo, la sopravalutazione  arrogante del proprio ego, l'incapacità di rendersi conto quanto si danneggi quei figli che si vorrebbero ad ogni costo preservare dalle asperità della vita.




Chi non conosce la fiaba dei Musicanti di Brema dei fratelli Grimm? Quattro animali, un cane, un gatto, un gallo e un asino, cacciati dalle loro fattorie in quanto troppo vecchi, si incontrano e decidono di andare a Brema per diventare musicisti. Solo grazie alla loro astuzia e alla loro amicizia saranno in grado di superare molte traversie e a vivere, come in tutte le favole, «felici e contenti». Una storia conosciuta da generazioni sull'importanza dell'amicizia e sulla possibilità di ricominciare sempre la propria vita. Quale miglior fiaba, hanno pensato alcune maestre di un asilo di Orvieto, per far lavorare i bambini su questi temi, al tempo stesso divertendoli con la partecipazione a una recita? Tutto è filato liscio fino a che non si è scoperto ? o meglio alcuni genitori hanno scoperto ? che tra gli animali della rappresentazione c'era, orrore! anche un somaro. Apriti cielo! Come poteva esser venuto in mente alle maestre di coinvolgere le loro intoccabili creature in una storia dai risvolti così umilianti? Giammai! Non permetterò che mio figlio faccia l'asino! E così, per salvare la recita, il somarello e gli altri animali sono stati interpretati dalle maestre, restituendo la serenità nel cuore turbato dei genitori.Questo episodio, apparentemente marginale, è in realtà un emblema di questi tempi; dietro alla sua banalità, infatti, nasconde una serie di paradossi cui, purtroppo, sembra che tutti noi ci siamo ormai rassegnati. Come nelle gallerie di specchi dei luna park, ogni immagine rimanda a un'altra e a un'altra ancora, sempre più deforme della precedente. Alla base di tutto, c'è purtroppo un'incredibile ignoranza. Ignoranza che, in un sistema educativo ormai degradato come il nostro, si è trasformata in arroganza. A parte il fatto che l'asino è un animale di grande intelligenza e ironia, oltre ad aver gloriosamente attraversato la storia sacra della nostra fede. La leggenda popolare, infatti, vuole che la croce tracciata sul loro dorso stia a ricordare l'entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme, in groppa appunto ad un asino, il giorno dell'osanna.  Quello che trovo intollerabile, nel nostro Paese, è questa assoluta incapacità di comprendere che non tutto può essere ridotto alla banalità del primo pensiero superficiale. Limitare il pensiero alle reazioni del bianco e del nero non è molto diverso dal vivere come certe creature unicellulari ....(...).
Ma noi, per quale ragione abbiamo ridotto l'esistenza del nostro cuore e della nostra mente a questa primordiale ottusa unidirezionalità? Le fiabe hanno sempre fatto parte del racconto dell'uomo e tutti gli esseri umani hanno sempre saputo che si tratta di metafore sulla nostra vita. La fiaba ci diverte, ci fa sognare, ma ci aiuta anche a capire qualcosa della nostra natura; qualcosa che, con i movimenti dell'unicellulare, non saremo mai capaci di comprendere. La vita è cammino, contraddizione, e lo è appunto in conseguenza della complessità del nostro essere umani, segnati dal libero arbitrio.  (...)
Non occorre essere dei veggenti per immaginare che i bambini ai quali è stato vietato di fare il somaro in una recita scolastica non saranno né intrepidi, né sapienti, né curiosi, ma soltanto dei pavidi nevrastenici, persone incapaci di diventare adulti responsabili, costruttori di una società civile. La perdita della sapienza educativa che si protrae ormai da qualche decennio è la causa prima del precipitare del nostro vivere comune nel gorgo oscuro della barbarie. La civiltà è ormai distrutta, sgretolata, ridotta ai minimi termini, prigioniera del diritto capriccioso del singolo che si erge a diritto universale e ha il potere di ricattare e modificare la vita quotidiana di tutti coloro, e sono tanti, che non condividono quella visione.


La Tamaro se la prende poi contro ogni forma di dogmatismo e di massimalismo  quale che ne sia la sua matrice e provenienza.


Posto che non ho mai avuto simpatie per le élite di intellettuali che per troppo tempo hanno monopolizzato la cultura del nostro Paese, ridicolizzando sistematicamente tutto ciò che non rientrava nella loro visione di parte, mi turba ugualmente l'orgoglio con cui alcuni aderenti al Movimento 5 Stelle hanno proclamato di non avere intellettuali al loro interno, come se la cultura fosse qualcosa di indegno e disprezzabile. Come sarebbe stato bello, invece, se, in questo nostro momento di smarrimento, di declino e di sconforto, qualcuno avesse detto: abbiamo bisogno di sapienti, di poeti, abbiamo bisogno di arte, di bellezza, di complessità, di intelligenza. Perché alla fine, dietro a questi tanti, troppi episodi apparentemente insignificanti, si nasconde un rischio davanti al quale non ci è più permesso di rimanere inermi spettatori.  (...)
Sul Corriere della Sera del 12/4/2013  l'intero articolo di Susanna Tamaro

mercoledì 10 aprile 2013

Pittura tra 2 Guerre a Forlì

Dal 2 febbraio fino al 16 giugno 2013,
presso i Musei di San Domenico a Forlì, ancora grande Arte del Novecento con la mostra “Novecento. Arte e Vita in Italia tra le due guerre”.

(Gino Severini, "Maternità", 1916) uno dei dipinti più intensi e rappresentativi, sul miracolo della vita e della maternità stessa, sospeso tra alone magico, semplicità disarmante e realismo quotidiano, nell'unione tra stilemi classici e modernità.

L'esposizione copre lo spazio di quasi un trentennio, dalla fine del primo decennio del ’900 alla II Guerra Mondiale, e si tratta di una delle meglio riuscite e più coraggiose su questi temi e periodi.
Il fulcro dell'esposizione si situa naturalmente tra gli anni '20 e '30, arricchiti di numerose connessioni e agganci.
Attraverso il percorso ideale delle opere esposte si nota il susseguirsi di tendenze,  movimenti, avanguardie, protagonisti: il tutto non è organizzato secondo uno stretto percorso cronologico, ma per temi.

(Cagnaccio di San Pietro, Donna allo specchio, 1927)

Oltre all'arte in sè quindi, emerge anche un senso della vita, uno studio della percezione delle cose d'allora, con notazioni storiche e di costume di quegli anni, che arriveranno a condizionare cinema, moda, arti grafiche e decorative.

(Marcello Dudovich, Esposizione Rhodia e Albene)

Mentre si assiste a questi testimoni d'arte, si fa strada l'idea che il Novecento,
rispetto ai secoli precedenti, o a confronto in particolare col ricco e articolato "lungo" Ottocento, sia stato un secolo breve, o almeno veloce, e che si è bruciato in fretta, eppure ...sono sempre 100 anni.

(Enrico Prampolini, Dinamica dell'azione -Miti dell'azione, Mussolini a cavallo-, 1939)

A spostarne la percezione sono state proprio le 2 grandi Guerre, la stessa velocità (il cui mito fu uno dei capisaldi anche del Futurismo...fatto proprio poi diversamente dall'industria, dalla tecnologia, dalla modernità imposta alle masse in seguito, nell'era "democratica"). Poi il dopoguerra, con la "pace" e gli innamoramenti per varie altre ideologie, con numerose tappe destrutturanti delle più o meno reali "rivoluzioni".

(Arrigo Minerbi, "La Vittoria del Piave", 1917, una sorta di Nike marziale e dai volumi muscolari sottolineati e tesi come gli atleti dello Stadio dei Marmi)

Se fino al 1914 sembrava diluirsi pigramente all'infinito la Belle Epoque ottocentesca, con la sua sognante illusorietà ed evasione, presto i fulminei ribaltamenti bellici originano conseguenti cambi nella percezione degli anni 20 e 30.
Certo, seguono poi la II GM con le sue tragedie. E dopo ancora, dagli anni 50, 60, 70, 80...un continuo cambio del sentire e di prospettiva del reale.

Massimo Bontempelli, quando nel 1926 fondava la rivista “900” scriveva: “Il Novecento ci ha messo molto a spuntare.
L’Ottocento non poté finire che nel 1914. Il Novecento non comincia che un poco dopo la guerra”.



Gli anni 20 e 30 all'interno di questo divenire hanno alcuni capisaldi che li rendono quindi unici, eppure non immobili nemmeno in se stessi.
Tra le opere che solo apparentemente non c'entrerebbero con la mostra, ecco rispuntare l'anonimo della "Città ideale" di fine 1400 (sopra) _che già citammo QUI_,
quasi a sintetizzare l'anelito all'ideale, che però proprio negli anni '20 e '30 si cercherà a fondo,
in parte nel richiamo alla classicità, al Romanesimo, ma anche al Quattrocento e alla loro rilettura nel Razionalismo, con quanto di utopico, pionieristico ma anche geniale c'era nell'unire classico, eredità del passato, geometria funzionale, ricerca dei materiali e delle forme (cfr. sotto, Palazzo della Civiltà Italiana, di Giovanni Guerrini e Ernesto Lapadula).


L'utopia architettonica della città è sempre legata all'utopia del pensiero, nel senso più ampio e in vista della progettazione di una società.
E'/era voglia di crescere, di costruire. Voglia di fare, di significare, di metter mano, nel segno della fiducia e consapevolezza nell'essere se stessi.
Oggi invece non più:
infatti, diversamente, siamo privi di unità progettuale, quanto di idea compiuta/intento comune, e simbolo condiviso nella realizzazione della città e dell'ambiente,
così come siamo privi di "Nazione",
la quale anzi (parole per es. del Pres. Napolitano, quanto di Monti e delle elites europeiste) "deve obbligatoriamente cedere progressivamente sovranità" a progetti extranazionali ed eterodiretti. (sic, ripetuto centinaia di volte nei mesi/anni scorsi)

Anche solo questo breve confronto lascia intendere come quella qui descritta fosse l'ultima grande forma di arte unitaria italiana, massima unione di Classico e Moderno.
L'ultimo Antico e il primo vero Moderno nostro, anche.
Dialogo, in certi casi, tra Arte, Manufatto e prima Industria d'alta classe, ancora.
Poi...più nulla o quasi.


(Cesare Maggi, "Italica Gens" 1941)

Forma e Radice, e non solo...
che sarà poi bruciata, spogliata, spersonalizzata, snellita e resa geometricamente seriale e priva di aura dal nuovo design dopo gli anni 50-60, sposato all'industria di massa dei decenni successivi.

(Marcello Piacentini, Sedia per la casa di F. Sarfatti)

Per questo nell'esposizione s'incontrano architetti, pittori e scultori, ma anche designer, grafici, pubblicitari, ebanisti, orafi, creatori di moda d'allora: per significare cioè un progetto comune che in una revisione del ruolo dell’artista, si dirigeva verso una sorta di “ritorno all’ordine”. Ma tutto avveniva in una osmosi amica tra svariati campi del sapere.

(Massimo Campigli, "Zaino in Spalla", 1927, marziale-geometrico che risente ancora della volumetria cubista)

Il desiderio di ritorno all'ordine trae origine dalla crisi delle avanguardie storiche, dalla fine del Cubismo e del Futurismo, considerati espressione di un processo di dissoluzione dell’ideale classico, iniziato effettivamente con il Romanticismo e accentuato con l’Impressionismo e movimenti come Divisionismo e Simbolismo, i quali hanno dato risultati sì anche splendidi ma del tutto anticlassici.
Va inteso che il ritorno all'ordine non deve esser letto come "guardare indietro" in maniera sterile e non come semplice ritorno al passato, ma come ripresa di canoni ritenuti adatti alla realizzazione di una concezione: Plasticità solida, anche, con uno sguardo al passato, ma inserita nella temperie (allora) attuale.
“Una solida geometria di oggetti, una nuova classicità di forme”, per Carlo Carrà, mentre De Chirico sul ritorno della figura umana affermava: “Pictor classicus sum”.


(Giorgio De Chirico, "Piazza"-"Souvenir d'Italie", 1925; Avevo cominciato a dipingere soggetti”, sostiene de Chirico, “ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d’autunno, di pomeriggio, nelle città italiane”. Ma anche mistero, staticità tra statue e palazzi dalle prospettive che inviano alle architetture di Firenze, Torino, e alla Città ideale del Rinascimento, in vista dell'utopia architettonico-razionale) 
La ritrovata armonia tra tradizione e modernità era evidente con alte punte creative in particolare nell'opera di Felice Casorati, Achille Funi, Mario Sironi, Carlo Carrà, Adolfo Wildt (già trattato qui) e Arturo Martini – e avrà, grazie allo spirito critico e organizzativo di Margherita Sarfatti, l'appoggio del regime che voleva un’arte di Stato. I regimi dittatoriali europei d'allora utilizzeranno anche a fini propagandistici il linguaggio classicista di questi artisti, ma la loro arte non può più essere censurata, come avvenuto per decenni, per ragioni ideologiche.

(Francesco Messina, pugile, 1930)

Apposite sezioni della mostra infatti rievocano la I (1926) e la II (1929) Mostra del Novecento Italiano, organizzate da Margherita Sarfatti; la grande Mostra della Rivoluzione Fascista allestita a Roma nel 1932-1933 per il decennale della marcia su Roma; la V Triennale di Milano ovvero della pittura murale (d'allora....non i "graffiti" de quartiere di oggi da rap e hip hop) intesa come un’arte nazional-popolare, di tutti, ancorata a una tradizione illustre nostra e profondamente radicata; la rassegna dell’E42 a Roma (costruzioni per l’Esposizione Universale di Roma del 1942) che ha segnato la trasformazione nell’urbanistica e nell’immagine della capitale.

Ecco quindi, impossibili nelle loro esperienze da riassumere qui, Boccioni, Balla, Sironi, Soffici, Prampolini, Carrà, Severini, Savinio, De Chirico, De Pisis, Morandi, Casorati, Funi, Campigli, Donghi, Martini, Rosai (trattato qui), Pirandello, Maccari, Mafai, Manzù, Guttuso.


La mostra riprende le principali occasioni in cui gli artisti si prestarono a celebrare l’idea e i miti proposti dal Fascismo, ma affronta anche il legame culturale e formale con la prospettiva razionalista e il dibattito sulla necessità di appigli col classicismo in architettura e nell’urbanistica, l'utopia sull'armonia degli spazi in cui vivere e la coerenza culturale e nazionale dei suoi simboli.

(Giò Ponti, I progenitori, 1925)

La presentazione di realizzazioni urbanistiche e architettoniche mostra le realizzazioni anche di  Forlì e vari centri della Romagna: dipinti, sculture, cartoni per affreschi, opere di grafica, cartelloni murali, mobili, oggetti d’arredo, gioielli, abiti, offrono una fruizione simbolica del nesso tra arti e vita. L’obiettivo era ridefinire ogni aspetto della realtà passando dal mito classico a una mitologia possibile del presente.

(Achille Funi, "La Terra"...oltre a questo notevole, 
presenti altri dipinti sul tema dell'agricoltura, dei frutti della terra, della nobiltà del coltivare, del valore della bonifica dei terreni)

L’artista, sempre per Bontempelli, ha il compito di “inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini e quasi cose della natura”.

Ancora, Pittori come Severini, Casorati, Carrà, De Chirico, Balla, Depero, Oppi, Cagnaccio di San Pietro, Donghi, Dudreville, Dottori, Funi, Sironi, Campigli, Conti, Guidi, Ferrazzi, Prampolini, Sbisà, Soffici, Maccari, Rosai, Guttuso, 
e Scultori come Martini, Andreotti, Biancini, Baroni, Thayaht, Messina, Manzù, Rambelli mostrano comunque anche l'eterogeneità delle tendenze tra i poli del Novecento quali Metafisica, Realismo Magico, Déco e varie mitologie.


Tirando le somme, si nota ancora il superamento della pittura da cavalletto per riprendere il rapporto tra pittura e architettura, quindi il ritorno al Quattrocento italiano con ispirazione da Giotto, Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca, da cui si mutua un  realismo preciso e tradizionalmente italiano. 

(Mario Sironi, Italia Corporativa, 1936)

Sono anche questi gli ingredienti dello stile di quest'epoca: rivalutare formalmente il Quattrocento e l'Antichità Classica non significava nemmeno recidere i legami con l’arte contemporanea europea. Infatti già Picasso e Derain, dal secondo decennio del Novecento avevano fatto lo stesso percorso, passando dalla scomposizione e dall’astrazione cubista alla ricomposizione della figura e a una nuova classicità in cui venivano presi a modello l’antico e la tradizione italiana.


Il Novecento passa con disinvoltura dall’arte alta agli oggetti della vita quotidiana, dove si respirava la stessa atmosfera di ritorno alla misura classica, anche nella manipolazione di materiali preziosi. Ecco allora mobili e vari oggetti di arredo disegnati da Piacentini, Cambellotti, Pagano, Montalcini, Muzio, Giò Ponti e i gioielli di Alfredo Ravasco. Mai come nel Novecento anche le vicende della moda si intrecciarono e si identificarono con quelle della cultura e della politica, originando, tra sogno parigino e l’autarchia, la prospettiva dell'alta moda italiana.

(Antonio Donghi "Le Maschere"-Carnevale)

Sul luogo della mostra: a piano terra è una ricerca di testimoni dell’Italia del Ventennio e anche su Mussolini, mentre il primo piano sonda i temi.
Il percorso è suddiviso in 14 sezioni che toccano i temi affrontati nel Ventennio dagli artisti che hanno aderito alle direttive del regime, partecipando al concorso e accettando le commissioni pubbliche, e quelli che hanno partecipato a quel clima, alla ricerca di un nuovo rapporto tra le esigenze della contemporaneità e la tradizione, tra l’arte e il pubblico, fino alla crisi del sistema.

(Gerardo Dottori, "Flora", 1925)

Una mostra molto ben fatta, documentata da un punto di vista storico fino all'inverosimile (compresi arredi, oggetti, depliant, che possono spaziare dalla cultura popolare, fino contadina a quella altoborghese),
su una stagione,

(Cesare Sofianopulo, Maschere)

l'ultima,
che ancora poteva dirsi completamente "Italiana".

Josh

post (in qualche modo) correlato

invece un esempio di arte contemporanea

Forlì, Musei di San Domenico

2 Febbraio 2013 - 16 Giugno 2013
Telefono: 199757515; Visite guidate e laboratori 02.43.35.35.20
E-mail: servizi@civita.it
Orario: da martedì a venerdì: 9.30-19.00; sabato, domenica, giorni festivi: 9.30-20.00. Lunedì chiuso.
Biglietto: Intero € 10,00 Ridotto € 8,00 (per gruppi superiori alle 15 unità, minori di 18 e maggiori di 65 anni, titolari di apposite convenzioni, studenti universitari e residenti nella provincia di Forlì-Cesena) Speciale € 4,00 (per scolaresche - scuole primarie secondarie
Note: La visita è regolamentata da un sistema di fasce orarie, con ingressi programmati. Prenotazione obbligatoria per gruppi e scuole e consigliata per singoli. Il biglietto della mostra consente la visita alla Pinacoteca Civica

mercoledì 3 aprile 2013

Jannacci il grande Provinciale





Non chiamiamolo cantautore: sarebbe una limitazione. Cantautore sarà Vecchioni, cantautore sarà Battiato e
la sua spocchia, cantautore è De Gregori o De André che si atteggiava  a maudit,  e tanto altro cantautoreameitaliano. Lui, Enzo  Jannacci, non ha la pretesa di fare il divo né di interpretare il mondo in versi e note musicali.  Curiosa la sua carriera sempre sospesa tra due professioni impegnative: la cardiochirurgia e la musica jazz.  Non era, tuttavia,  un dilettante della musica Jannacci, sebbene per molto tempo abbiano voluto presentarcelo come un medico che cantava a tempo perso. Amava Chet Baker e Gerry Mulligan con cui ebbe il privilegio di suonare in una fumosa Santa Tecla, locale che diede i natali a tanti rinomati nomi della musica e dello spettacolo.
Posso testimoniare con le mie orecchie quando andai a vederlo in un concerto nel 1989, che  grande pianista e tastierista, capace di reintepretare con personalità e maestria anche pezzi non suoi, personalizzandoli con estro, era Jannacci.  Mi piacque immensamente ascoltarlo in "Sotto le stelle del jazz" di Paolo Conte. E il suo "Bartali"  dai toni picareschi è anche meglio di quello del suo collega piemontese. Per non dire la capacità di improvvisazione e di coinvolgimento del pubblico verso il quale ha sempre avuto rispetto.  Si presentava sempre ben vestito in giacca e cravatta come un professionista. In comune con Paolo Conte ha oltre la passione per il jazz, anche l'aver fatto della musica una professione "non ufficiale", ma ufficiosa. Avvocato, Paolo Conte e medico cardiochirurgo, Jannacci.  Professione "ufficiosa":  la musica. Ufficiosa ma non per questo meno sentita, meno esercitata con passione e fervore, dell'altra sua professione di medico che gli ha sempre dato quel  forte contatto con la realtà e quell'umanità e simpatia che poi è la sua cifra.  

Si diploma infatti al conservatorio di Milano in armonia, composizione e direzione, e l'anno dopo si laurea in Medicina.  La sua singolare carriera sempre sul crinale del cabaret, del teatro, del teatro-canzone come Gaber l'amico fraterno di sempre con cui duettava (i due Corsari),  del cinema (Lizzani, Ferreri, Monicelli), della tv, del compositore di colonne sonore cinematografiche (Romanzo Popolare con Vincenzina e la fabbrica, Pasqualino Settebellezze, Saxophone, Sturmtruppen di Salvatore Samperi ) ne fanno alla fin fine quello che lui stesso ama autodefinirsi e avrebbe voluto vedere iscritto sulla lapide : un fantasista. Senza contare il teatro (con il grande Tino Carraro e Milly), il cabaret, i testi per la tv ai tempi della sua scoperta dei due figliocci Cochi e Renato, che tenne egli stesso a battesimo cabarettistico.

Il mio incontro con Jannacci in tv, risale a  quando poco più che bambina,  esplose in un duetto  esilarante con Gaber (che nel filmato, non riusciva a trattenersi dalle risate) nell'Armando. Mia madre guardò questo mattocco stralunato che faceva la sua strampalata deposizione contradditoria a un commissario  di polizia: "Mi è caduto giù l'Armando" eppoi esplodeva con i suoi iattatititta titta titta. iattatittatitta tà. Mi guarda esterefatta e mi dice: "Ma adesso anche i pazzi vanno in tv a cantare?". E dato che i bambini hanno sempre un grande feeling per i matti  del villaggio, risposi che invece mi piaceva e che mi stava simpatico.
In questi giorni di "coccodrilli" per il povero Jannacci, morto il venerdi di Pasqua,  la retorica la fa da padrona. Ora poi  che siamo in piena crisi, è  quasi d'obbligo, la retorica pauperista: "il cantore degli ultimi, dei dimenticati, degli esclusi ecc. ecc. ". Che uno dei suoi più grandi successi (El purtava i scarp da tennis) fosse dedicata a un clochard  (il famoso  barbùn dell'Idroscalo) è un fatto. Ma se è per questo Jannacci canta di sbirri, di mariuoli, di magnaccia, di donnine allegre, di ubriaconi, "pali" di qualche banda del buco ecc.

Tuttavia la figura che ha sempre attratto la sua fantasia è quella del minus habens, dell'inetto a vivere. O se vogliamo usare un termine milanese del "povero Pirla".  E anche il suo sforzo poetico e musicale è quello di filtrare il mondo con gli occhi del "povero Pirla", obbedendo in questo al motto shakespeariano "il mondo è un lungo monologo visto con gli occhi di un idiota fatto di urlo e furore il cui significato è nulla". 
Dalla figura del "Pistola" vorrebbe (ma non può)  uscire nemmeno il cinico personaggio del protettore (il rucheté) nella canzone "T'ho comprà i calzètt de seda" che racconta quanto  sia furbo da parte sua, scialare i quattrini della sua bella  che batte il marciapiede.  Ma poi sul finir della canzone gli prende qualche dubbio contro chi lo guarda male,  e  allora strilla jannaccianamente "saria mi el pistola?!?....


Tuti i volt che semm insema ghe sempre un qualchedun
aca in un cantun 
che el me varda e me dis: 
"va quel li', el gh'ha la dona che la rola, el dev ess on poo on pistola". 
Ah? Saria mi el pistola? El pistola te se ti. 
Te ghe la miè de mantegni 
Te lavoret tutti el di'...
Ah? Saria mi el pistola? Sariia mi el pistola? El pistola te se ti.


Tutte le volte che siamo assieme c'è sempre qualcheduno
in qualche cantone
che mi guarda e che dice:
"Guarda quello lì, ha la donna che batte, deve essere un po' pistola"
Ah, sarei io il pistola? Pistola sarai tu.
Tu hai la moglie da mantenere 
Tu lavori tutti i giorni ...
Ah, sarei io il pistola? Sarei io il pistola? Pistola sarai tu...


Da qui i suoi nonsense, e la sua comicità surreale, ma in filigrana, anche una certa sua vena malinconica che emerge in "Sun s-ciopà" "Sono un ragazzo padre", "Mario", "Giovanni telegrafista dal cuore urgente". Il tema ricorrente dell'inettitudine a vivere si colloca a buona ragione nella poetica novecentesca. 
Jannacci nasce a Milano nel 1935 e  la sua Milano la si ritrova dappertutto nelle sue canzoni: nel dialetto, nel suo accento meneghino che sa tanto di nebbia, di Navigli e di cortili di ringhiera con quelle "e" larghe come "michètta", ma pèrchèee, pèerchèee no, anche quando parla in Italiano, nei quadretti di provincia. Il capoluogo  ambrosiano che canta lui non è la metropoli spersonalizzante odierna,  ma un aggregato di quartieri e rioni che pullulano di personaggi pittoreschi, talora chiamati per nome (la sciura del Rino, Nino il Barbiere, l'Armando , la Lina, ecc.) . O strade, rioni e piazze citate  di proposito (Rogoredo, la Bovisa, Piazza Beccaria, il citato Idroscalo ecc. ) .
La gente l'ha capito, per questo pur rimanendo Jannacci un cantante e musicista di nicchia amatissimo nella sua città, la sua popolarità ha travalicato i confini regionali per venire amato in tutta Italia. Lontanissimo dalle mode è davvero impensabile imitarlo, anche se non sono pochi comici e cabarattisti che a lui si sono ispirati. Egli stesse fu il Pigmalione di Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto per cui scrisse memorabile successi come "La Gallina" "La canzone intelligente", "La vita l'è bela" . Ma poi nella combriccola dei cabarettisti usciti dal leggendario Derby come Boldi, Beruschi, i Gufi di Nanni Svampa e Lino Patrun, Lino Toffolo, dei Gatti del Vicolo dei Miracoli  (da cui uscì Teocoli) , beh... lì ci furono i suoi amici e compagni di "cazzeggio" di sempre. E a vederli insieme vien fatto di chiedere se "ci sono" o se "ci fanno"... Perchè è  difficile pensare che sia solo finzione comica la loro, e non un vero e proprio stile di vita della Milano che più che da bere era della voglia di farsi quattro risate insieme.
Lo racconta perfino Domenico Gattullo, il fornaio pasticcere di Milano  la cui forneria-pasticceria era il ritrovo di tutti costoro e narra di quella volta che un suo garzone che lavorava in nero, si tagliò una mano e l'Enzo, lo fece entrare di sfroso sul retro del pronto soccorso per operarlo.Come pure il noto aneddoto di un tizio che arrivò al pronto soccorso privo di sensi e nello svegliarsi vede la faccia di Jannacci e dice: "Uhé mi avete portato in ospedale o in televisione?". E ne ha di cose da raccontare il Gattullo su tutti questi personaggi strampalati...

La RAI ci manda in onda i soliti filmati in bianco e nero con "Mexico e Nuvole", "Vengo anch'io no, tu no", "Ho visto un re" ma mi chiedo perché ad esempio, non ha mandato in onda il film "L'udienza" di Marco Ferreri con Jannacci e la Cardinale? Sarebbe stato un bell'omaggio adatto a mettere in

evidenza la poliedricità di questo artista in questo film tenero e atroce di un giovanotto del Nord impacciato che vuole incontrare il Papa ma si scontra con la burocrazia della Curia.  Vorrei terminare con una sua canzone che mai come adesso che imperversano immondizie musicali e talent show,  è diventata attuale: "Ci vuole orècchio" (con la solita e larga). Riascoltiamola perché è su come è conciata l'attuale musica che parla. 




Con Jannacci quel che resta del buon Novecento se ne va. Se ne va questo grande milanese, milanista  (fu grande amico del cronista sportivo Beppe Viola),  dall'incallita milanesità, che è anche una filosofia di vita: laboriosità, operosità, creatività e onestà.
La Milano attuale ora può venire impestata dall'Expo, dalle rotonde, dagli outlet, dalle migrazioni senza scrupoli, dalle enclaves multikulti. Soprattutto non più provinciale ma anonima  e  "internazionalizzata", senza più osterie né trattorie con lì appesa,  una chitarra da suonare. Ci vuole un pessimo orecchio per fare tutto questo.
Ciapa i stèss, direbbe l'Enzo.  
Un'ultima non trascurabile cosa. Il dott. Enzo Jannacci ha saputo essere anche un ottimo genitore. Il  bravo figlio Paolo, musicista virtuoso che fa il direttore d'orchestra, lo ha diretto a Sanremo in "La fotografia" accanto a Ute Lemper. Non è facile nell'ambiente dello spettacolo,  così uso a trascurare i figli, fino a farne dei disadattati. Come si dice, una persona perbene. Uno così può anche dormire sonni tranquilli. Noi che tirèm innanz, un po' meno.