domenica 8 giugno 2014

Jean-Pierre Melville, l'americano di Francia

Chi si occupa di cinema e in particolare di noir conosce questo regista francese, che i cineasti della Nouvelle Vague salutarono come loro maestro. Ma Jean-Pierre Melville (JPM - foto a sinistra) dal carattere introverso e scontroso, non volle mai veramente far parte di scuole né conventicole registiche e cinematografiche. Già il  suo nome richiama il grande romanziere americano Herman Melville (all'anagrafe è Jean-Pierre Grumbach). Durante la seconda guerra mondiale combatte nelle file della Resistenza francese  e  se lo attribuì quale nome di battaglia, proprio in omaggio all'autore di Moby Dick. In seguito a ciò, resta JPM per sempre,  e  collabora all’Operazione Dragoon, lo sbarco delle truppe alleate nel sud della Francia. Dalle sue esperienze di guerra, ricaverà  poi il film L'armata degli eroi (L'Armée des ombres) (1969), ispirato al romanzo del 1943 di Joseph Kessel, dirigendo sul grande schermo interpreti come Lino Ventura, Paul Meurisse, Jean-Pierre Cassel (padre dell'attore Vincent) e Simone Signoret
Lino Ventura attore italo-francese

Uomo introverso, dotato di personalità complessa e scontrosa, appassionato sin dall'infanzia di cinema, matura una profonda ammirazione per la cultura statunitense tanto da assimilarne gli atteggiamenti feticisti per il resto della vita.
 Con JPM nasce il polar, genere cinematografico e letterario, neologismo francese nato dalla fusione dei termini poliziesco (policier) e noir.
Il polar identifica un genere di romanzi e film dalle note cupe ed introspettive caratteristiche del noir, i cui protagonisti però sono tipicamente appartenenti alle forze dell'ordine, spesso coinvolti in un percorso catartico o di mutamento della propria esistenza.
Una volta congedatosi  dalle armi,  Melville cerca di ottenere dal Sindacato dei Tecnici una tessera di assistente-tirocinante per diventare regista, ma gli viene rifiutata e da quel momento decide di autofinanziare i propri film.



Dopo un primo cortometraggio in 16 mm, l’esordio cinematografico avviene nel 1947 con "Il silenzio del mare" (Le silence de la mer) dal testo omonimo di Vercors. La ristrettezza dei mezzi e le riprese rocambolesche non minano il notevole esito della pellicola che gli dà subito fama di intellettuale esperto, specialista in trasposizioni letterarie sullo schermo.

Jean Cocteau lo richiede espressamente per adattare sullo schermo il suo delizioso romanzo "Les enfants terribles" nel 1950 e sarà un vero e proprio piccolo gioiello della cinematografia, oggi praticamente introvabile. Film tenero e crudele, sospeso tra levità poetica e dramma sentimentale di due fratelli (Paul e Elisabeth) somigliantissimi, che vivono praticamente in simbiosi,  e della loro sarabanda di amici del liceo Condorcet. Un film sui generis, lontano dai generi cinematografici prediletti da JPM che sono il poliziesco, il noir, la gangster story.

Bob il giocatore (1955) è il suo primo film “noir”, influenzato fortemente da alcuni capisaldi americani e francesi, quali Giungla d'asfalto ((1950) di John Huston, La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder, Rififi (1954) di Jules Dassin e Grisbì (1954) di Jacques Becker.

Nel cuore di Parigi JPM dà avvio ad  un piccolo ed anomalo caso di indipendenza produttiva, audace per l’epoca ma ben organizzato, suscitando l’ostilità corporativa delle istituzioni cinematografiche francesi. Viene invece considerato un precursore dai giovani emergenti della Nouvelle Vague come Truffaut, Godard e Chabrol, che in lui apprezzano anche lo stile registico scabro e  aderente alla realtà (molte riprese in esterni, budget ridotti, utilizzo di attori semisconosciuti, rifiuto del maquillage). Pertanto viene simbolicamente arruolato da Jean-Luc Godard ad interpretare il ruolo dello scrittore Parvulesco in Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) -1959. Dopotutto JPM ha una fisionomia di caratterista dark.

La successiva vocazione di Melville verso un cinema di genere, al tempo stesso classico ed astratto, ma sempre destinato ad un vasto pubblico e non a ristrette élites, lo allontanerà gradualmente dal movimento dei cineasti emergenti, finché nel 1968 sentendosi concettualmente sempre più estraneo, interromperà polemicamente i rapporti attirandosi un prolungato ostracismo da parte dei Cahiers du cinéma e della critica ad essi collegata.

Ritorna con successo alle gangster story dirigendo Lo spione (Le doulos) e Lo sciacallo (L’aîné des Ferchaux) tratto dall'omonimo romanzo di Georges Simenon, sviluppando ulteriormente alcune peculiarità, quali l’atmosfera priva di speranza (derivata dall'hard boiled, la scuola dei duri americani), la geometria dell’intreccio, l’espressione idealizzata della centralità maschile con annessa una certa misoginia.
Lo sciacallo  (1963)  da Simenon con la simpatica canaglia JP Belmondo è un noir  on
the road interamente costruito in Francia con un'America sognata e ricostruita che  è per il regista una sorta di lost paradise, di terrra promessa. Costretto a rinunciare a una carriera di pugile, il  giovane Michel Maudet  (Belmondo) è stato assunto come segretario di un vecchio banchiere, Dieudonné Ferchaux che lascia la Francia per sfuggire alla giustizia per questioni fiscali. A New York  e poi a New Orleans , i due uomini imparano a conoscersi meglio durante il gioco sottilmente perverso  del gatto col topo. Forse un rapporto filiale dell'anziano banchiere col suo segretario, o  forse un'omosessualità latente, mai palesemente espressa . Sapiente uso del colore in chiave fortemente simbolica.

Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide, titolo distribuito in Italia  dal francese  Le dexième souffle. Tre uomini, un’evasione nella notte. Tra questi Gustave Minda, detto Gu, che si reca a Parigi per rivedere la sua donna Manouche.  La trova che  sta con Jacques il Notaio, ma l’uomo viene ammazzato nel proprio locale davanti ai suoi occhi. La mala di Marsiglia si scontra violentemente con quella di Parigi per il dominio del contrabbando di sigarette. Gu medita l’esilio in Italia, ma qualcuno gli propone di assaltare un blindato carico di platino. L’ispettore Blot, della Omicidi, è sulle sue tracce.
Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide

La recensione: Nel 1967 esce questo film: un rito di fondazione del polar, la scrittura delle sue coordinate e insieme un’interpretazione in apoteosi tra le massime del genere. Nella scena d’apertura, giustamente leggendaria, Melville distribuisce le carte: nel buio tagliato da squarci di luce, si sviluppa una triplice fuga che porta alla morte di uno degli evasi. E’ un movimento fluido e silenzioso, come la pace prima del boato, che nell’assenza significativa del segnale umano razionale (il verbo) afferma già la possente influenza della mano fatale, subito capace di segnare la curva tragica degli eventi. Siamo al presagio, alla previsione potenziale di un’opera che cammina a fiammate (silenzio – moto – sangue); Le deuxième souffle prende di partenza lo stilema americano e lo ravviva, come sempre nell’autore, estenuandolo da una parte e dall’altra prosciugandolo all’estremo. Nel porre come traccia il mito favolistico dell’Uomo alla ricerca della Donna (la prospettiva – solo apparentemente verosimile – della fuga d’amore), cede così la meccanica razionale dell’intreccio; questa è trafitta obliquamente da riflussi di romanticismo che, proprio perché gelidamente arginato, diventa parossistico (Manouche sa che Gustave morirà; ce lo dice il volto, la  postura, le frasi sospensive, la posa sublimata nel finale). Nelle scene puramente criminose, caratterizzate da una costitutiva stesura degli archetipi (il poliziotto, il fuorilegge, la banda, l’amante), i dialoghi escono di bocca come incisioni lapidee, alla stregua di sentenze che iscrivono ogni figura al proprio ruolo inesorabile. Tali premesse, in mano a Melville, si piegano alla dialettica costante tra due momenti, sospensione e esplosione, dove l’uno non è meno ricamato dell’altro (una scena classica di raccordo, Gustave in macchina, grazie al primo piano di Lino Ventura viene bagnata di significato); la lieve galleria di simboli procede al montare peculiare della tensione. Se il colpo al furgone dei lingotti è notevole per marchiare l’antenato del film (la sfida americana all’autorità, con western connessi), risulta angolare la mirabile ripresa dell’attesa: notare il bandito che posa gli occhi sul formicaio e, senza motivo, si sofferma sul brulicare scomposto che presume schiettamente il momento della strage. La stima del futuro vive nei simboli, dunque, tra tutti la danza delle pistole: queste prolungano i protagonisti, vanno di mano in mano, scompaiono e raddoppiano, simulano impugnature come ipotesi carsica sullo scorrere degli eventi. Ancora costante poetica, su piano sostanziale il cacciatore e la preda si scambiano sguardi di profondo rispetto, risultando nettamente speculari, e intavolano una lotta archetipica dal profumo mitologico; il paramento morale impone l’ onore delle armi, che il vincitore concederà naturalmente al vinto, come atto prestabilito già segnato nell’ordine delle cose. Questo insistere sul manto fatale, il riflettersi geometrico delle pedine, si piega nella cinepresa melvilliana a una magnificazione stilistica: lo specchio funge da metonimia centrale dell’intreccio, che ospita la carezza di Gustave all’amata, prima della strage, e la caduta di uno dei complici freddato da un proiettile.
A margine: il titolo italiano, Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide, suona talmente fuori luogo e fieramente retrò da seminare perfino un fascino sottile.
Alain Delon in "Frank Costello faccia d'angelo"

Importante, la collaborazione  di JPM con Alain Delon  nell'indimenticabile interpretazione di Frank Costello faccia d'angelo, film nel quale Delon è praticamente silente quanto spietato.  Il film segna l'inizio della loro collaborazione  che sarebbe continuata con I senza nome (1970) e Notte sulla città (1972), sino alla morte del regista.

È forse uno dei punti più elevati del polar . In effetti, sin dalla frase che appare all'inizio ("Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla") e che spiega il titolo originale (Le Samouraï), è evidente l'ispirazione di Melville, da sempre ambasciatore del cinema americano in Francia a quel modello di "killer esistenziale", già individuato nel prototipo nel Philip Raven, interpretato da Alan Ladd, in Il fuorilegge di Frank Tuttle, ispirato al romanzo "Una pistola in vendita" di Graham Greene. ("...non il gangster come esponente della malavita organizzata o comunque come criminale immerso in un preciso quadro sociale, ma assassino solitario che si distacca anche dagli abituali connotati etnici per risolvere il suo tragitto in un personale confronto con la morte").
La tessitura del film è arricchita da riferimenti alla cultura giapponese. Così la sobria e perfezionistica ritualità dei gesti che introducono all'uccisione del gestore del night - ma che rimanda anche al Robert Bresson di "Diario di un ladro"  o di "Un condannato a morte "è fuggito - o i guanti bianchi indossati da un ineffabile Alain Delon, prima di simulare, con un'arma scarica, l'esecuzione della pianista jazz Valérie e di essere crivellato dai colpi della polizia.

Artista solitario e controverso, maniacale controllore di tutte le fasi della lavorazione (curava operativamente persino il montaggio alla moviola), Melville è stato largamente incompreso dalla critica specializzata.
In seguito ad alcuni omaggi  e studi inediti  postumi, è stato ampiamente rivalutato fino alla consacrazione come uno dei più importanti innovatori della settima arte.
Un contributo fondamentale alla  sua riscoperta è stato fornito negli anni '90 da alcuni registi delle nuove generazioni cimentatisi nel “polar” (soprattutto americani ed asiatici), debitori dichiarati del suo cinema singolare. Basti ricordare:  Michael Mann (Heat - La sfida, 1995), Quentin Tarantino (Le iene, 1992), Takeshi Kitano (Sonatine, 1993), John Woo (The Killer, 1989 e Jim Jarmusch (Ghost Dog, 1999).


Michel Costantin
E tuttavia, ad onta della sua influenza "americana", l'astratto distacco, le atmosfere sospese e l'ironia sottile nei dialoghi fanno   di lui un cineasta europeo made in France con la capacità di aver creato formidabili maschere  di duri alla francese altrettanto famose e credibili delle maschere americane; con personaggi interpretati da Jean-Paul Belmondo, le voyou dalla simpatica smorfia, Lino Ventura, il fuorilegge dal cuore tenero, munito di un suo codice d'onore, Alain Delon, il  tenebroso bello e fatale, Michel Costantin, con quella faccia sfregiata da serial killer, coriaceo caratterista e comprimario sempre sospeso fra i ruoli di  spietato sicario ma  anche di poveraccio perseguitato dalla malasorte, Paul Meurisse e tanti altri splendidi attori, resi indimenticabili dai suoi film.
Poi vennero le "prime donne"  ovvero "les intellos" della regia e gli attori persero aura; ma Melville pur nella sua ardita sperimentalità, resta un classico della modernità, dove gli attori sanno essere ancora i veri  deus ex machina di storie da lui sapientemente dirette.

7 commenti:

Anonimo ha detto...

Ciao Hesperia. Un post molto interessante e intrigante. Forse la fine di questo genere cinematografico che è il noir è dovuta al femminismo che non sopporta la centralità del ruolo maschile e magari nemmeno la misoginia. O forse anche ad un'epoca che predilige la violenza fine a se stessa senza la mediazione di un buon racconto letterario. Ti segnalo dello stesso autore anche "Leon Morin prete", che Melville ha girato ispirandosi alle tematiche religiose di Bresson. Belmondo in abito talare sorprende ma alla fine lo si accetta per com'è. Non è un noir ma un dramma sui problemi di coscienza.

Rosalind

Hesperia ha detto...

Ciao Rosalind, grazie. Molta verità in quanto scrivi.E' assai probabile che la fine del noir misogino e maschiocentrico coincida con l'avanzata del femminismo, di cui il mercato ovviamente tiene conto. Prova ne sia che mentre la violenza e le truculenze aumentano al limite dello "splatter" (un genere che aborro), le protagoniste siano via via sempre più delle donne violente e guerriere (Kill Bill di Tarantino con Uma Thurman, Nikita di Luc Besson ).

Ovviamente rimpiango la sublime misoginia dei noir e dei polar classici. Non è nei nostri interessi vederci rappresentate in quel modo.

Hesperia ha detto...

Sì, conosco "Léon Morin prete", che però non sono mai riuscita a vedere. E' questa la ragione per cui non ne ho scritto. E anche perché se divento troppo esaustiva ed enciclopedica, poi non c'è più nessuno che aggiunge qualcosa:-). Non è considerato dalla critica uno dei suoi migliori film, comunque lo vedrei volentieri. JPM,il cui vero nome è Jean-Pierre Grumbach, nato da genitori ebrei alsaziani e
convertitosi poi al cattolicesimo doveva essere particolarmente interessato alle tematiche religiose ed era grande ammiratore del "giansenista" Robert Bresson, un regista che piace moltissimo anche a me per il suo rigore stilistico.

Anonimo ha detto...

In effetti la critica su questo film è disuguale. Alcuni lo rivalutano, altri dicono che è troppo didascalico:

http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=2571

Rosalind

Anonimo ha detto...

Sulla donna che diventa protagonista violenta, pistolera, spia e agente segreto dei nuovi thriller, condivido. Non entusiasmano neanche me.
Ma anche quei registi come Kitano (Sonatine) Tarantino sono quasi al limite dello splatter con cervelli che schizzano nelle pareti. E donna o non donna, mi pare che alla fine la vera protagonista sia la violenza fine a se stessa. Come seguaci di Melville non me li vedo proprio.

Rosalind

Hesperia ha detto...

Loro dicono di esserlo. Ma l'operazione Melville è di tipo astratto intellettiva: è la ricostruzione della "notte americana" (la Nuit américaine) trapiantata in Francia.
Il discorso di Tarantino è di tipo pulp. In realtà si serve di pezzi sparsi per costruire una sorta di B Movie violento e fumettistico che nemmeno a me, rimane per nulla congeniale.

"Sonatine" di Kitano è stato per me una vera sofferenza. John Woo, mi fa venire il mal di mare coi suoi effettacci speciali di conticui inseguimenti.

Hesperia ha detto...

Per concludere credo che il noir classico (e i suoi derivati come il poliziesco, il polar ecc. ) sia sostanzialmente morto a causa di:

1) il femminismo e l'emancipazione femminile che ha ucciso la "sublime misoginia" (anche la dark lady è una figura topica scaturita da un'immaginazione letteraria al maschile)

2) la fine del bianco e nero che trasmetteva ombre, luci, mezzitoni, atmosfere, suspense già a partire dalle immagini, ecc.

3) l'uso smodato attuale degli effetti speciali

4) l'escalation della violenza, un tempo contenuta e oggi troppo esplicitata (l'esempio che hai fatto su cervelli, poltiglie sanguinolente ecc. ecc. ).

Questo non vuol dire che non avremo ancora altri possibili film di valore. "Blade Runner" di Ridley Scott è considerato un noir trasferito nella fantascienza e in un futuro inquietante metropolitano che è già qui. Ma è già il prodotto di una contaminazione. Ciao e rifatti viva.