sabato 31 maggio 2008

Pasta Movies e non solo: cinema e cibo, un corrispondenza d’ amorosi sensi

L’argomento è un po’ “prosaico”, ma spero “stuzzicante”, perché il cibo è primario per la vita, e può essere anche una forma sublime d’arte, che appaga il palato, quanto un capolavoro appaga la vista o l’udito.

Non solo il cibo è anche strettamente connesso alla psiche umana, esalta la sessualità (cibi afrodisiaci) o ha effetto consolatorio (chi non si è mai mangiato una tavoletta di cioccolato, in un momento di tristezza, scagli la prima pietra…), ovvio che il cinema gli riservasse una posto d’onore.
Sicuramente la pasta in questo campo, merita una menzione speciale, perché simbolo del made in Italy che ha conquistato il mondo e anche la ribalta cinematografica fin dai tempi della “Dolce Vita”.
Indimenticabile il film di Steno “un americano a Roma” (1954) dove un giovane Alberto Sordi, nei panni di un ragazzotto romano che vorrebbe vivere come un americano, pronuncia la mitica battuta passata alla storia del cinema: “Macaroni…m’hai provocato e io te distruggo, macaroni! Io me te magno!” una frase che racchiude in poche parole l’amore per la pasta così innato in noi italiani e nello stesso tempo testimonia l’omaggio che il cinema ha tributato al nostro piatto nazionale, dal neorealismo ad oggi.

Altra scena da antologia è quella di Totò in “Miseria e Nobiltà”(Mattoli ’54) , che in un vero e proprio assalto alla zuppiera degli spaghetti, li arraffa come può, ficcandoseli in bocca, in tasca e ovunque.
Perché la pasta, negli anni di privazioni del dopo guerra, era anche sinonimo di benessere oltre che fenomeno di costume che entrerà nella lunga e prolifica stagione della commedia all’Italiana, da“Poveri ma belli” (Risi ‘56) a “I soliti ignoti” (Monicelli ’58), dove nel finale l’improbabile banda di ladri, si consola con piatto di pasta e ceci, dopo essere finita per errore in una cucina, anziché nella stanza della cassaforte.
Ben presto “spaghetti e maccheroni” varcano i confini nazionali per approdare ad Hollywood: il suo “calore” suggella una delle più belle scene d’amore canino, nella cena a lume di candela di “Lilli e il vagabondo” (Disney ’55). Galeotto fu un lungo spaghetto che fa “baciare” i due cagnetti innamorati.
Indimenticabile anche la scena de “L’appartamento” (Wilder ’60) in cui Lemmon lenisce le pene d’amore di Shirley Mc Lane con un piatto di pasta al pomodoro, nella fattispecie spaghetti, scolati con una racchetta da tennis!
Ed è sempre incomparabile Lemmon che ne “La strana coppia” (Saks ’68) discetta di linguine e spaghetti, dimostrando un’insospettata conoscenza del nostro piatto nazionale.
In questo simpatico sito della pasta Garofano, c’è un’antologia di scene in cui compare la pasta, in alcune ciccando su “leggi la scheda” c’è anche la ricetta del piatto rappresentato nel film.
Allargando il discorso, il cibo spesso è metafora del messaggio che vuole lanciare il regista, basti pensare a film come “La grande abbuffata” (Ferreri ’73), una commedia tragica e grottesca che racconta la fine di quattro amici decisi a suicidarsi con una mangiata pantagruelica, altro non è che una critica feroce alla società del benessere e dei consumi che finisce con il distruggere se stessa.
O al "classico" del cinema democratico antirazzista degli anni sessanta, “Indovina chi viene a cena” (Kramer ’67) dove il sedersi tutti allo stesso tavolo dopo gli scontri verbali fra i protagonisti, sul matrimonio misto dei rispettivi figli, suggella l’accordo trovato, ed è metafora d’integrazione fra bianchi e neri.
Aretusa

martedì 27 maggio 2008

Il piacere intertestuale



La poesia è, forse, tra le arti, una delle più dimenticate. Spesso un verso poetico, anche apparentemente semplice, racchiude misteri. Nell’analisi letteraria, lo studio delle intertestualità è adoperato come metodo di indagine per esplorare un testo. Questo tipo di analisi può essere svolto a livello stilistico, formale o contenutistico.


Si seguono metodi differenti nell’analisi: la filologia delle fonti di un testo, l’analisi tematica (temi letterari ricorrono citati in modo chiaro, talvolta invece la presenza è sotterranea), fino a studi specifici che riguardano metrica e stile. L’approccio di studio che mette in relazione un testo con un contesto considera un’opera letteraria in relazione con tutta la tradizione passata in maniera creativa e dialogante, mettendo in evidenza che il riconoscimento del sistema di allusioni e citazioni mostra i gusti dell’autore, il significato simbolico dell’opera, la sua idea di letteratura, i suoi modelli culturali e affettivi, e la sua memoria.Un esempio affascinante. Si tratta di un estratto del Jaufré Rudel, in “Rime e Ritmi”, di Giosuè Carducci. Per leggerlo per intero, andare sul nome del Poeta. O qui, dove ci sono ottime pagine che contengono ampi saggi.


Jaufré Rudel fu poeta trovatore di lingua provenzale, noto per i suoi versi dell' amor cortese, e per la sua avventura: si innamorò di una nobildonna, la Contessa Melisenda di Tripoli, che non aveva mai visto, ma che avvicinò solo in punto di morte.I versi, famosissimi, che ci interessano in breve, sono i vv. 73-76




- Contessa che è mai la vita?


è l'ombra d'un sogno fuggente.


La favola breve è finita,


il vero immortale è l'amor.




In questo breve estratto è già presente una reminiscenza del lessico tipico di Pindaro, nell’espressione “è l’ombra di un sogno…”; e una splendida citazione petrarchesca, “La mia favola breve è già compita” dal Canzoniere, CCLIV, che invito a leggere, scorrendo fino al 254 “I'pur ascolto, et non odo novella”
Mostrando la dinamica e la vitalità interna a un (micro-)testo famoso, l’augurio è per la ripresa dell’interesse verso gli studi classici e umanistici, come scoperta di un patrimonio nazionale della nostra tradizione, la ricostruzione di un’identità fatta finalmente di contenuti e anche l'auspicio di una nuova stagione di poesia nostrana, una volta riallacciati i legami con le nostre origini.
(foto in alto e foto piccola a destra: Monumento a Giosué Carducci di Leonardo Bistolfi - 1928)

Josh

giovedì 22 maggio 2008

Sette note per sette canzoni

Che cos'è una canzone? Innazitutto un'aria. Qualcosa che vola e che non rimane se non in uno spartito. Partitura che non è obbligatorio conoscere per canticchiare. Le canzoni nella loro banalità dicono sempre la verità - fece dire Truffaut a Fanny Ardant ne "La signora della porta accanto". Sono parte integrante di quel monologo amoroso frammentato e solitario di cui parlò Roland Barthes nel suo saggio "Frammenti di un discorso amoroso". Più schiettamente sono il backgrond sonoro dei nostri momenti topici del vivere quotidiano. Banali, talora, certo, ma tanto più si è banali tanto più si è umani. Supponiamo che ci sia un cataclisma universale. E di dover mettere in salvo solo sette canzoni, scritte su sette partiture. E non altre. Peccato. Ce ne sono tante altre che ci piacciono, ma che siamo costretti a lasciare fuori. Personalmente, se proprio dovessi salvarne sette e non più sette, penso che cercherei degli evergreen che hanno attraversato i tempi, o qualche canzone per motivi soggettivi (la famosa topica amorosa) e qualche altra legata ai miei più cari luoghi. Il tutto, con un pizzico di ironia e di divertimento fine a se stesso.

Tra i sempreverdi metto Stardust memories, cantanta dall'unforgettable Nat King Cole. Canzone elegante, impeccabile nel testo come nella musica, Da ascoltare attentamente più nella strofa che nel refrain forse troppo noto. La strofa infatti non tutti i grandi interpreti la cantano. Le immagini evocate sono serotine e notturne (cielo stellato, giardino recintato da un muretto,usignolo che canta una fiaba, reverie ecc.) Con verbi come to haunt: (invadere nel senso degli spiriti quando infestano una casa) Melody haunts my reverie.





This guy's in love with you (evocativa) di Burt Bacharach è quasi un climax in crescendo. L' ascoltai per la prima volta da teen-ager mentre salivo sulla scala mobile di un elegante grande magazzino, con la testa piena di nuvole e di sogni. E mi pareva di lievitare anch'io senza sapere se fossero le note a trasportarmi o i marchingegni della scala mobile.










That's life (filosofia di vita spicciola: "c'est la vie") E' carica di ironia con quel I've been a puppet, a pauper, a pirate, a poet, a pawn and a king/I've been up and down...



L'important c'est la rose ( lirica). Un omaggio alla douce france cher pays de mon enfance e in particolare alla Provenza e alle sue luci e colori. L'importate è la poesia del vivere. La rosa, simbolo di bellezza, poesia e grazia, quelle che i nostri tempi frettolosi ci sottraggono.

Comunque bella (dicotomica battistiana del tipo io vorrei/non vorrei/ancora tu/ ma non dovevamo non vederci più?)
Tu vestita di fiori e di fari di città/tra le nebbie e i colori....Quasi un'apparizione. Qual è la cifra delle canzoni di Battisti? L'elemento dissonante. Io lavoro, ma non mi concentro e...penso a te. Seduto in un caffé io non pensavo a te. Ed era un 29 settembre. Ma l'indomani mattina 30 settembre fine del "tuffo dove l'acqua è più blu",... e... "di colpo volo giù da letto/ e sono lì a telefono e parlo/ e rido e tu tu non sai perché t'amo..."



La mente torna (maestosa). E' una canzone di Battisti scritta, ideata, tagliata e cucita su misura per Mina, che la fa sua. Chi potrebbe dire meglio di lei. "Io voglio vivere...anche per me...scoprire quello che c'è....io voglio..". Sta per svignarsela: "Apro già la porta" ma... "ma arrivi tu, la mente torna..". E cioè faccio mente locale della mia realtà.





Golden slumbers (rivoluzionaria) . Più di un'offerta speciale: paghi uno e pigli tre. Infatti inizia dolcissima sull'ala di un sogno, poi ti risveglia nella realtà e ti dice che dobbiamo trascinare quel fardello a lungo (carry that weight) . Infine una coda gloriosa annuncia un happy ending.

A tutti voi, sette note per sette canzoni favorite, provando a comporre il vostro canzoniere ideale. Buon ascolto e buon divertimento da
Hesperia
































mercoledì 14 maggio 2008

Fiabe, racconti e libri dell'infanzia

Quando eravamo piccoli ci leggevano le favole.
Quando eravamo ammalati, ci regalavano un libro da leggere.




Spesso ci facevano paura, ma ci si apriva un mondo fantastico, pieno di simboli, di personaggi virtuosi che dovevano attraversare delle prove impossibili e di figure malvagie da sconfiggere.
Quella che leggevamo era letteratura.
Dai Fratelli Grimm, a Hans C. Andersen a Hoffmann e a Perreault.

Non ricordo nemmeno piu' chi ,ha scritto cosa, non é cosi' importante, ma é un ricordo caro di emozioni e di misteri nell'oscurità del prima di dormire.

A volte le storie erano tristi, come la Piccola Fiammiferaia o la Sirenetta, o angoscianti come la Piccola Principessa o Hansel e Gretel, ma noi ci sentivamo rassicurati perché eravamo nella nostra casa calda, con un papà e una mamma che il mattino dopo avremmo ritrovato sorridenti.

I nostri libri erano, oltre al caro Pinocchio, il poi criticatissimo libro Cuore, I ragazzi della via Pal, Le mille e una notte, tutti i Salgari, i Verne e le storie di tesori e di pirati.
E ne ho sicuramente dimenticato altri.

Siamo cresciuti coi libri e con storie antiche, avidi di figure che erano rare, ben disegnate, e che ci affascinavano.


Oggi le storie sono sempre le stesse, ma su DVD..

Va bene cosi'.



Egle

giovedì 8 maggio 2008

Canova alla corte degli Zar-la carne della scultura

Vivere a Milano è gratificante perché se si ama l’arte, la musica, il buon cinema, la scelta è sempre ampia e pregevole. Palazzo Reale, per esempio, è spesso sede di mostre di livello che portano al grande pubblico opere di autori prestigiosi e geniali.

In questi giorni ad allietare la vista degli amanti del bello si tiene una mostra che irradia un fascino straordinario: trentasei sculture selezionate dalle opere custodite all’Ermitage, ben sette di Antonio Canova, fra cui i capolavori immortali come le “Tre Grazie”, la “Maddalena penitente” e la “Danzatrice con le mani sui fianchi”, posta su una base ruotante a 360° , quasi all’entrata, si resta immediatamente folgorati dalla pura bellezza classica della figura e dalla sua leggiadria.
Questa è la prima statua, tra quelle raffiguranti fanciulle danzanti, eseguita da Canova su commissione Giuseppina Beauharnais. Rappresenta Erato, la musa della poesia d’amore, e tutto in lei invita all’amore i riccioli che adornano il viso, l’abito che lascia intravedere il corpo aggraziato, come se il marmo fosse velo, fra le pieghe si scorgono i seni, il ventre rotondo, il pube appena accennato. E’ viva e sensuale questa abbagliante scultura.
Un paio di sale dopo, il capolavoro del Canova, Le Grazie, sicuramente l’opera più celebre e celebrata del Maestro, il perché lo si capisce appena lo sguardo si posa sulle tre figure femminili a grandezza naturale, ricavate da un unico blocco di marmo, stupore e commozione, si condensano in un sentimento di gratitudine per tanta bellezza. Non è gelido marmo di Carrara, ma “carne e sangue”, morbide forme, fluide chiome, languide carezze. Non ci sono parole per descriverle, sono “un miracolo” scaturito dal genio di uno straordinario artista. Un dono divino se si crede in Dio. Committente è di nuovo Giuseppina. Il marmo fu terminato nel 1814, quando la Beauharnais morì e fu Eugenio, il figlio, ad acquistarlo. Lo zar Alessandro I, vincitore di Napoleone e amico di Giuseppina, acquistò le sue opere. E così il capolavoro assoluto di Canova è finito all’Ermitage.
Di uguale bellezza ma meno imponente la “Maddalena penitente”, la statua raffigura Maria Maddalena, inginocchiata, i piedi sotto le natiche, il capo inclinato con i lunghi capelli sciolti sulle spalle, le braccia protese in avanti, i palmi rivolti in su, un cordone perfetto gli cinge la vita, un teschio è appoggiato accanto alle ginocchia. Tutto in lei ispira afflizione, dolore, pentimento. Una quieta malinconia che colpisce, quanto la sensuale armonia delle Grazie.
Sicuramente Antonio Canova, è stato il massimo esponente del neo-classicismo, la bellezza delle sue opere è abbagliante, vi sono anche opere di altri grandi maestri come Tenerani, Finelli, Bartolini, Duprè, ma le sculture del Canova, spiccano per l’abilità del grande scultore di dare vita al luccicore latteo del marmo bianco.
La mostra andrà avanti fino al 2 Giugno e consiglio vivamente, chi abita a Milano o vicino di andare a visitarla. Io spero di tornarci per la terza volta, con Hesperia. Aretusa




domenica 4 maggio 2008

Il castello del cigno di pietra (Neuschwanstein)

Nelle leggende celtiche i cigni (che appaiono anche in questo blog sia nel template che nel mio avatar) sono il simbolo di saggezza, amore sincero, fedeltà, innocenza, purezza, forza e coraggio. Il cigno dona la capacità di interpretare i sogni e rappresenta l'evoluzione spirituale. E' legato all'acqua (dove nuota), all'aria (dove vola) ed alla terra (dove si posa), ma rappresenta soprattutto il fuoco del sole da cui trae l'energia per padroneggiare gli altri tre elementi. Rappresenta la comunicazione fra gli elementi, è considerato un messaggero degli dèi, benefico e sacro possessore di poteri magici legati alla musica e al canto.Il suo volo è paragonato al ritorno dello spirito verso la propria sorgente. Nel Medioevo era l'emblema della cavalleria mistica e rappresentava il cavaliere che partiva alla ricerca del Graal, la Sacra Coppa dove fu raccolto il sangue di Cristo durante l'ultima cena. Lohengrin, il personaggio dell'Opera wagneriana legata all'antica saga, è il Cavaliere del Cigno, e ha un cigno nell'elmo. Visitare il Neuschwanstein Schloss in Baviera, è per l'appunto un'ascensione spirituale al castello del Montsalvat, il leggendario castello dei cavalieri del Graal . Esso troneggia candido su uno sperone di montagne proprio come un superbo cigno (schwan) di pietra (stein). Ma non possiamo prescindere dal re di Baviera Ludovico II (Ludwig II) che ne fu l'ideatore. Un giovane principe infelice divenuto precocemente re a 18 anni che fu incapace di amministrare saggiamente il regno, per inseguire i suoi "castelli in aria". E tuttavia, che castelli! Il sovrano alto 1, 91 e assai bello visse con grande tormento la sua omosessualità, in conflitto col suo spirito ferventemente religioso.
Ludwig II von Wittelbach nacque nel Castello di Nymphenburg non lontano da Monaco e potrete trovare la sua biografia qui. E anche nel lungo film di Luchino Visconti inerente alla sua vita. A Nymphenburg, c'è ancora la sua cameretta verde arredata che la sottoscritta ha potuto fotografare eludendo la sorveglianza di una fraulein che pareva una Kappler in gonnella.
Per lui vivere voleva dire costruire, edificare. Infatti spese quantità di denaro ineguagliabile per assecondare la sua smania di edificare castelli, così lussuosi e sfarzosi da far andare in fallimento le casse dello stato.
Fece costruire il Castello di Herrenchiemsee sul lago omonimo di Chiemsee su modello di Versailles, Il castello di Linderhof; poi una bellissima quanto bizzarra Casa Reale sullo Schachen a quasi 1866 metri simile a uno chalet svizzero dove il contrasto tra l'esterno ligneo (rustico) e l'interno (sfarzoso e aureo) richiama proprio il calice del Graal: modesto come la coppa fatta da un falegname eppure prezioso. Ma il castello che meglio caratterizza l'eccentrico re delle fiabe medievali è proprio il Neuschwanstein, ad un tempo reggia e rocca fortificata in stile romanico con elementi gotici, che incastonato tra monti, boschi e laghetti alpini, si erge scintillante come una pietra preziosa, e sorge sulla località di Fuessen non lontano dal Hoheschwangau, castello dei suoi genitori nel quale egli trascorse l'adolescenza. All'inizio Neuschwanstein doveva nascere come una sorta di tempio dedicato a Wagner e immortalare saghe e leggende delle sue opere. Poi attinse ispirazione direttamente dalle saghe originali. Grande fu l'ammirazione di Ludwig per il musicista che amava autodefinirsi Tondichter (poeta del suono), di cui fu munifico mecenate. Con i suoi fondi privati gli finanziò l'affitto di una casa a Monaco, una villa sul Lago di Starnberg, un appannaggio annuo e aveva già pianificato la costruzione di un teatro a Monaco dedicato ai festival wagneriani. Un anno dopo per intercessione dei suoi ministri, Wagner fu fatto allontanare. Descrivere questo castello in questo spazio è pressoché impossibile: molte sono le chiavi di lettura relative all'edificazione, alla planimetria delle stanze, ai mobili e alle suppellettili, alle innumerevoli simbologie mistico-religiose-mitologiche che lo pervadono, ai dipinti murali. Mi limiterò a descrivere gli interni privi di quadri, ma con esclusive pitture murali commissionate da Ludwig sulla base delle saghe epiche. Visitare le stanze del maniero è un po' ripercorrere le pagine di un libro illustrato a tema.
La sala di soggiorno è ispirata a Lohengrin e su un mobile vi campeggia un candido cigno in maiolica di dimensioni naturali. Sulle pareti, le pitture murali ispirate alle sequenze più importanti di questa saga.
La camera da letto potremmo anche chiamarla sala Tristano e Isotta,poiché è questa saga che dà ispirazione alla stanza e ai dipinti murali. Tuttavia anche qui c'è un lavabo d'argento con un grosso cigno dal cui becco esce acqua. E i cigni si ritrovano anche sui tendaggi delle finestre del maniero. Il letto è sovrastato da intagli di legno di rovere simili a guglie e a pinnacoli in stile gotico (occorsero più di quattro anni perché gli intalgiatori portassero a termine l'opera)-
Lo studio è legato al Tannhauser.


Gli atri del castello (inferiore e superiore) all'Anello dei Nibelunghi (Sigfrido).
L'ambiente di maggior suggestività è senz'altro la sala del trono con colonnati in vernice laccata mescolata a polvere di lapislazzulo dello stesso intenso celeste. E celeste è il colore che ritorna in tutti i drappi e i tendaggi del castello. Come celeste e bianco sono i colori della bandiera della Baviera. Vi sono raffigurati i sette Re santi e giusti con il grande affresco di San Giorgio che uccide il drago e la pittura sulla cacciata di Lucifero da parte del'arcangelo Michele. I dipinti murali illustrano le vite dei Re santificati.
Infine si accede alla salone delle feste (sala dei Cantori) dove riabbiamo scene dal Parsifal e un affresco su tema dell'incantato giardino di Klingsor dove vi domina il verde smeraldino.
Una nota speciale meritano i lampadari in ottone indorato tempestati di cristalli di Boemia colorati a mo' di rubini, smeraldi e zaffiri. Sembrano corone ferree degli antichi re franco-germanici. E' interessante sapere che in tutti i lampadari del Castello il numero delle candele è divisibili per 12, in riferimento all'Apocalisse di San Giovanni ove si dice che la Gerusalemme celeste ha 12 porte.
Oggi questo castello è mèta di visitatori provenienti da tutto il mondo, ma queste maree di turisti, armati di macchine fotografiche e videocamere, non sarebbero certamente gradite al "re delle fiabe", che già disprezzava la sua epoca definendola rumorosa e volgare. Quindi, figuriamoci oggi! I castelli sono una testimonianza della sua profonda ribellione verso il suo tempo. Paradossalmente, però, quest'opera che mandò in bancarotta le casse dell'allora regno di Baviera, oggi costituisce la sua principale fonte di introito.
Hesperia