mercoledì 27 aprile 2011

Aldilà postdanteschi: Boccaccio, Folengo, John Dee


Riallacciando idealmente il discorso da un post di qualche tempo fa,
continuiamo brevemente la carrellata sull'immaginario letterario e culturale sull'aldilà.
Dopo Dante e la sua opera, la maniera di utilizzare il tema dell'aldilà e talvolta della Nekyia cambia radicalmente. La rivoluzione maggiore e lo stacco netto da tutto il periodo passato sono dovuti principalmente a Boccaccio e all'utilizzo incontenibile e irrisorio della parodia nei riguardi delle forme obsolete della letteratura precedente.

("Tale from Decameron" 1916, John William Waterhouse)

Nel Decameron, Terza Giornata Novella VIII, ci viene presentato un personaggio, Ferondo, contadino profondamente geloso. A un certo punto sua moglie conosce un abate. Il religioso con l'assenso della moglie, che crede in questo modo di liberare il marito dalla sua devastante gelosia mandandolo in Purgatorio, droga Ferondo, che viene rinchiuso in una cantina umida e buia per ben 10 mesi, facendo credere al malcapitato contadino che si trovasse in Purgatorio a causa della sua esagerata gelosia. Nel frattempo l'abate fa le veci del marito con la donna, divenendo il suo amante.
Il "Purgatorio" finto dell'abate infido, e del contadino geloso, rappresenta il completo rovesciamento della visione dell'aldilà dantesco: si assiste contemporaneamente alla dissacrazione dell'aldilà dantesco, della topografia medievale dell'aldilà (la cantina...), e alla parodia di un genere letterario come il viaggio nell'oltretomba.
La cantina qui è un oltretomba sotterraneo a suo modo, un sottomondo simile all'inferno dantesco con il suo cono rovesciato/imbuto, con cui presenta anche l'affinità delle punizioni corporali che non vengono risparmiate al povero contadino ingenuo.
Come ogni viaggio nell'oltretomba, anche questo boccaccesco si conclude con il contadino restituito alle dimensioni superiori (in certo qual modo "resuscitato"), e il ravvedimento del contadino dalla sua gelosia. Ferondo rinato alla vita di tutti i giorni apprenderà che diventerà padre (di un figlio non suo, in realtà dell'abate). L'aldilà di Ferondo/Boccaccio è il primo rovesciamento critico feroce del viaggio agli inferi, genere letterario a quell'epoca così ripetitivo e abusato che ormai sembra potersi proporre solo in chiave parodica.

Il "rimettere lo diavolo in inferno" poi, con l'ironia dissacrante boccaccesca ("la risurrezione della carne" intesa come momento di vigore sessuale) gioca con lo scambio di attributi non solo lessicali anche nella Novella X sempre della Terza Giornata.

(Andrea del Castagno, "Giovanni Boccaccio", dal "Ciclo degli uomini e donne illustri", Galleria degli Uffizi, Firenze, 1448-1451)

Nel Cinquecento la rappresentazione del viaggio nell'aldilà sarà ancora all'insegna dell'ironia e della demistificazione, con una patina velata di autocritica. Nel poema "Baldus" di Teofilo Folengo, del 1518, dalla funambolica felicità linguistica, il poeta Merlin Cocai (pseudonimo di Teofilo stesso) e i compagni si ritrovano al convito infernale delle ombre.
L'Inferno nel Baldus è occupato da una zucca gigante,
luogo destinato ai poeti, cantori e astrologi,
cioè figurativamente, secondo il testo, a tutti quelli che creano, cantano e interpretano i sogni, riempiendo i libri di favole e fandonie varie:

"Stanza poetarum est, cantorum, astrologum,
qui fingunt, cantant, dovinant somnia genti:
complevere libros follis vanisque novellis"
(XXV, 608-610)

(Teofilo Folengo nel ritratto del Romanino)

Anche qui, pur nel rovesciamento dei leitmotiv della letteratura precedente, l'aldilà è legato al tema del sogno, e proprio i poeti, detti bugiardi fabbricatori di sogni, si trovano nel fondo dell'inferno.
Là al posto dei tradizionali demoni, ci sono appositi "barbieri" infernali "strappatori",
che avrebbero il compito di strappare ai poeti tanti denti quante bugie e sogni vani
i poeti inventarono:
chiaramente il meccanismo colpa/punizione è stato escogitato in ossequio al sistema della pena a contrappasso, quanti più denti vengono strappati, tanto più essi ricrescono di nuovo, come fecero le loro bugie letterarie a raffica.
Merlin Cocai, poeta mentitore a sua volta, abbandona in queste acerrime lande il suo eroe Baldus, destinato a ritornare sulla terra, e conclude il poema dove l'aspetta la condanna:

"Hic numquam cessat nunc descalzare tremendis
cum ferris dentes, nunc estirpare tenais,
unde infinitos audis simul ire cridores
ad coleum, numquamve opera cessatur ab ista.
Quottidie quantas illi fecere bosias,
quottidie tantos bisognat perdere dentes,
qui quo plus streppantur ibi, plus denuo nascunt.
(.....)
Zucca mihi patria est; opus est hic perdere dentes
tot quot in immenso posui mendacia libro"
(Baldus, XXV, 635-650)

Il motivo storico dell'approdo alla parodia nella descrizione d'aldilà è vario,
non si tratta solo di un mutato spirito dei tempi:
va tenuto conto dell'inflazionamento del genere letterario "viaggio nell'aldilà", presente sin dall'antichità greco-romana, del diffondersi di cartine geografiche-topografiche infernali sempre più improbabili che facevano dell'aldilà un luogo troppo fisico e non metafisico,
presenti in disparate credenze, opere varie, cartine geografiche immaginarie dove questo mondo si scioglieva nell'altro mediante porte segrete, segnalando luoghi terreni come sedi di Inferno e Purgatorio, come vulcani o isole (toccò anche alla Sicilia e all'Etna), mescolando tradizioni popolari, cattoliche, pagane, mediterranee e anche celtiche in un vortice concettuale di modelli decontestualizzati ormai esangue e privo di significato.

Per non limitarci alla letteratura italiana, e alle sue parodie di un genere troppo sfruttato,
proprio il Cinquecento con i suoi rivolgimenti storici vede vari personaggi in settori affini.
Un cenno almeno merita John Dee (1527-1608) per la sua "frequentazione" col mondo del mistero, delle arti occulte e della Nekyia non intesa questa volta come stratagemma letterario, ma come pratica esercitata in prima persona.

(John Dee ed Elisabetta I)

Matematico, geografo, alchimista inglese alla corte della regina Elisabetta I, esperto di occultismo, divinazione, si considerava cristiano (evangelico, ma all'interno di un Protestantesimo anglosassone non ortodosso, fu accusato più volte di stregoneria), anche se nella sua interpretazione para-cristiana l'ermetismo ha una parte considerevole, così come le filosofie di Platone e Pitagora, l'astrologia (fu astrologo di corte, anche astrologo giudiziario, angelologo e negromante).
Si tratta di una figura reale, con contorni leggendari, legato all'invenzione della "Mano della Gloria" o "Sigillum Emeth" (uno strumento magico con cui si dice riusciva a paralizzare all'istante qualsiasi persona l'avesse vista), e al caso delle 21 lettere divine Enochiane.
In pratica John Dee effettuava numerose esperienze paranormali, e si serviva della magia "angelica" per scoprire alcuni segreti della natura (e del potere). In una di queste esperienze gli sarebbe stato mostrato un libro magico scritto in una lingua arcana "il Libro di Enoch" (Enoch in origine è un patriarca biblico), e gli spiriti gli avrebbero dettato la traduzione che Dee riportò nel Liber Loagaeth o Liber Mysteriorum scritto in lingua sconosciuta, da lui detta "enochiana" (il libro esiste, è custodito al British Museum di Londra, considerato non comprensibile) anche se si distinguono 21 caratteri.
H.P.Lovecraft attribuisce fittiziamente a John Dee la paternità del manoscritto con la traduzione inglese del "Necronomicon". Sempre John Dee è protagonista del romanzo "L'Angelo della Finestra d'Occidente" del 1927 di Gustave Meyrinck. John Dee è anche citato nel "Pendolo di Foucault" di Umberto Eco.
Di John Dee come autore si ricordano ancora "La Monade Geroglifica" (1564),
un Trattato Magico, appunto il "Liber Mysteriorum", "De Heptarchia Mystica" (1582): si tratta di testi che oltre a teorie ed esperienze personali, in varia maniera illustrano anche il clima del sentire di un periodo in cui nacque anche il movimento dei Rosa Croce.
Prima protetto da Elisabetta I, John venne poi emarginato da Giacomo I.
I campi d'indagine di John furono davvero vari, era esperto anche in meccanica, costruì uno scarabeo volante per rappresentazioni teatrali, studiò la mistica dei numeri, volse gli studi alchemici e astrologici a fini divinatori. Con l'alchimista Edward Kelley si dice realizzarono pubblicamente la trasmutazione di un metallo in oro alla presenza dell'Imperatore Massimiliano d'Asburgo.
Dee ebbe anche una visione politica vicina ad una sorta di misticismo imperialista, e si dice affascinasse con alcune teorie Massimiliano d'Asburgo. Il soggiorno di Dee in Boemia venne anche messo in relazione ad alcuni fatti: la nascita nel 1586 di una Lega "Evangelica" a fini politici per contrastare la Lega Cattolica, denominata Confederatio Militiae Evangelicae (partecipanti il Re di Navarra e Danimarca e la stessa Regina d'Inghilterra) secondo alcuni nessi rinvenuti dalla storica E.A. Yates: questo evento è citato nella "Noometria" (1604, inedito conservato alla Landesbibliotek di Stoccarda, dedicato al duca Federico I, alchimista, sovrano di uno stato tedesco luterano) di Simon Studion abbinata alla menzione di un'alleanza segreta tra Giacomo I d'Inghilterra, il Re di Francia e Federico duca di Wurtenberg, e le nozze della figlia di Giacomo I con il Principe elettore del Palatinato. Ancora, sia nella Confederatio Militiae Evangelicae tanto nella Noometria di Simon Studion sono reperibili simbologie legate alla Rosa e alla Croce (presenti peraltro anche nella simbologia Luterana). Nell'alleanza tra i sovrani fautori del Protestantesimo d'allora compare più d'una motivazione politica ed economica chiara di supremazia europea, ma anche l'espressione di un movimento di pensiero "laterale", ben diverso dal Cristianesimo ufficiale anche riformato, nutrito da disparate influenze segrete in Europa, che non escludono apporti cabalistici, e influssi ermetici-esoterici.
Anche questi aspetti, dai più noti ai più sotterranei, contribuiranno a mutare la percezione dell'aldilà nell'immaginario, nella concezione di questo e dell'altro mondo, e di conseguenza nell'arte.
La ricerca ...continuerà.

(per alcuni passaggi storici nell'ultima parte del post si ringrazia il sito: http://www.parodos.it/rosa%20croce.htm )

Josh

mercoledì 20 aprile 2011

Cantucci d'orto


E come l'amo il mio cantuccio d'orto,
col suo radicchio che convien ch'io tagli
via via; che appena morto, ecco è risorto:

o primavera! con quel verde d'agli,
coi papaveri rossi, la cui testa
suona coi chicchi, simile a sonagli;
con le cipolle di cui fo la resta
per San Giovanni; con lo spigo buono,
che sa di bianco e rende odor di festa;
coi riccioluti càvoli, che sono
neri, ma buoni; e quelle
mie viole
gialle, ch'hanno un odore... come il suono
dei vespri, dopo mezzogiorno, al sole
nuovo d'aprile; ed alto, co' suoi capi
rotondi, d'oro, il grande girasole
ch'è sempre pieno del ronzìo dell'api
da L'Oliveta e  l'Orto  di Giovanni Pascoli
E' questa una poesia del Pascoli, ispiratrice del titolo di questo post, che ci parla di un aprile nuovo con  atmosfere solatie, di gioie semplici coltivate in un orto domestico ed è  senz'altro adatta a questi giorni sereni delle vacanze pasquali. Anche i prodotti della terra più umili come cavoli neri e riccioluti, o le cipolle raccolte in una treccia, vengono elogiati quasi fossero degli splendidi rari fiori di serra.
E a proposito di aprili ormai lontani,  anch'io ricordo l'orto di mia zia con le fave dai bei fiorellini bianchi macchiettati di nero come farfalle cavolaie. E anche i fiori bianchi fatti a speroncino dei piselli che rampicavano in modo disordinato nel cannicciato.  In questo senso ha ragione Pascoli di elogiare i "fanciullini" quali poeti in fieri, perché è tipico dei bambini non attribuire graduatorie di importanza tra i fiori campestri con quelli più eleganti e rari dei giardini e dei parchi. Una bimba mia vicina di casa raccoglieva con pazienza certosina gli occhi della Madonna (un modesto fiorellino celeste piccolissimo e assai invasivo) e anche gli spinosi fiori blu di Cina della borragine, che infesta gli orti e i campi (le brave cuoche ne usano le foglie per preparare il ripeno dei ravioli) e quando gli offrii un mazzo di iris violetti me li rifiutò. Evidentemente perché quei modesti fiori di campo da lei colti, dovevano, ai suoi occhi di bimba,  contenere  segreti che io, adulta, non ero in grado di ben identificare.






Credo comunque che tutti noi abbiamo avuto ricordi di un orto della nonna dove ci colpivano aromi e  cromatismi inconsueti. Impossibile per me dimenticare l'odore di cedro forte della verbena odorosa o altrimenti detta erba cedrina o erba luisa.
O quello della maggiorana, o del basilico pestato nel mortaio di marmo, col pestello in legno d'ulivo che si diffondeva per la cucina.

Comunicai di te con la farina
della spiga che ti inazzurra i colli,
dimenata e stampata sulla madia,
condita dall'olivo lento, fatta
sapida dal basilico che cresce
nella tegghia e profuma le tue case (
Camillo Sbarbaro -
"Scarsa lingua di terra").
O il colore blu-violetto del fiore del carciofo (non dimentichiamo che è un bocciolo), fiore bellissimo e spumoso che svetta tra foglie grigiastre irte di spine. 
Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
ispida edificò una piccola cupola,
si mantenne all'asciutto sotto le sue squame,
vicino al lui i vegetali impazziti si arricciarono,
divennero viticci,
infiorescenze commoventi rizomi;
sotterranea dormì la carota dai baffi rossi,
la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino,
la verza si mise a provar gonne,
l'origano a profumare il mondo,...
( da Ode al carciofo di Pablo Neruda)
Già, il carciofo, un re tra le verdure di stagione. E già che abbiamo citato questo vegetale dal cuore tenero dentro una corteccia spinosa, vale la pena di ricordare una torta assai adatta a questo periodo primaverile: la torta pasqualina. La quale viene d'abitudine preparata con spinaci o bietole, ma con una dozzina di cuori di carciofi assume un gusto e una morbidezza del tutto particolari. Qui la ricetta. 
E allora Buona Pasqua a tutti quanti gli amici e lettori vecchi e nuovi.

Hesperia









mercoledì 13 aprile 2011

Il Mulino del Po

Per festeggiare i 150 anni dell'Unità d'Italia, il Polo Geriatrico Riabilitativo di Cinisello Balsamo, nell'ambito della propria attività ricreativa ha riproposto ai suoi anziani ospiti il lungometraggio Il Mulino del Po. La riproposizione ha avuto buon successo di pubblico, allargata a parenti e visitatori dei degenti. Qualcuno, a conoscenza della mia passione per la saga dei mugnai ferraresi e del mio amore per i Navigli di Milano, e della interconnessione esistente tra i due argomenti, aveva caldeggiato per la mia presenza. Ma qual'è, appunto, il nesso esistente tra i Navigli e Il Mulino del Po? L'autore del romanzo, Riccardo Bacchelli, assunto al Corriere della Sera, era giunto a Milano nel 1925 e andò a vivere in via San Marco, a due passi dal giornale. In quegli anni vi era ancora in quella strada un tronco del Naviglio a cielo aperto, che fungeva da collegamento tra il Naviglio interno e il Naviglio della Martesana. Davanti al portone del Corriere il corso d'acqua si ampliava formando una specie di laghetto, detto Tombone di San Marco. Dalla fondazione del Corriere (5/3/1876) e fino ai primi anni '50 del secolo scorso sul naviglio di via San Marco scorrevano le chiatte che, da Corsico, trasportavano la carta per la stampa del Corriere. Nel punto di congiungimento tra il naviglio di via San Marco e la Martesana vi era la Conca delle Gabelle, creata ai tempi di Leonardo, da una sua idea. L'irruenza dell'acqua del Naviglio, che scendeva a getto sotto il ponte delle Gabelle (vedi foto) , fu sfruttata per secoli da un mulino, arrivato fin oltre il 1950. Fu il roteare di quelle pale, che Bacchelli ebbe modo di osservare per anni, ad ispirargli la stesura del romanzo. Data la complessità, e dovizia di particolari presenti nel romanzo, che solo un abitante di Ferrara poteva conoscere, risulterà curioso sapere che Il Mulino del Po è stato scritto interamente a Milano, e proprio "in un appartamentino che dà sul tombone di San Marco, dove scorrevano le acque dei Navigli". Era il 1938 quando Bacchelli iniziò la stesura di quella che è diventata "tra le opere più insigni della letteratura d'ogni tempo". Considerando che nell'opera vengono rievocati i fatti salienti che portarono all'Unità d'Italia, e i primi decenni di vita dello stato unitario, la scelta di proiettare lo sceneggiato durante questa ricorrenza è stata appropriata. Nel dipanare la trama del romanzo, l'opera racconta dei grandi fatti che hanno fatto la storia d'Italia, con occhi aperti al mondo intero, del lungo periodo che va dal 1812 al 1918. La lunghezza dell'opera, che si protrae per oltre 2000 pagine, è un forte freno in grado di tener lontani nuovi lettori; a dimostrazione di ciò vi è infatti che nell'unica copia presente nella mia biblioteca comunale è indicato un solo passaggio di mano, dopo quell'unico prelievo mio di anni fa; eppure non manca l'argomento accattivante iniziale che spinga alla lettura completa dell'opera. Per stimolare la lettura di un romanzo così corposo, Bacchelli vi aveva inserito una brillante introduzione. Il romanzo inizia infatti con la fantasiosa caccia al tesoro che fu di "proprietà" del capitano Mazzacorati; per impossessarsi del quale, Lazzaro Scacerni, erede legittimato, deve prima imparare a leggere, per poter decifrare segretamente la carta contenente le indicazioni per arrivarci. E qui entra in ballo il merciaio di Codigoro che riesce a rifilare al nostro mugnaio un sillabario. Il buffo episodio è narrato nei capitoli iniziali del romanzo, ed è stato trascritto integralmente in questa pagina . I capitoli iniziali sono un compendio di grande storia, frammista a vivi episodi fantasiosi. Inizia infatti con salvataggio del capitano Mazzacorati, portato a spalle in salvo al di là del fiume Beresina (vedi Battaglia di Beresina).
Dopodichè, non potendo comunque proseguire, il capitano spirerà tra le braccia di Lazzaro. Prima di spirare, e in quello che potrebbe sembrare un segno di gratitudine per il gesto eroico, Mazzacorati fa dono a Scacerni di un tesoro che aveva accumulato e messo al sicuro prima della sua partenza per la Russia. L'ubicazione del tesoro è indicata nella famosa carta, che gli consegna prima di spirare, e che, per poterla decifrare, dovrà prima imparare a leggere. Fu per questo inizio spumeggiante che mi inoltrai a leggere tutto il corposo romanzo, di ben oltre 2000 pagine. E dunque è stata tutta colpa di Lazzaro Scacerni, e del suo ostinato desiderio di voler/dover imparare a leggere, il mio appassionamento per il grande romanzo di Bacchelli. Ai tempi in cui si svolsero le vicende degli Scacerni, lungo le sponde del Po erano in funzione ancora circa 400 mulini; oggi non esistono più. Solo a scopo turistico e divulgativo in alcune località qualcuno stà risorgendo, come quello di Ro Ferrarese , fortemente voluto da Vittorio Sgarbi, ferrarese doc. Nella foto in alto vi è la ricostruzione perfetta del San Michele, il primo dei tre mulini degli Scacerni, situato nel punto esatto dove lo aveva posizionato Riccardo Bacchelli. Il romanzo è denso di riferimenti storici, racconti e testi di canti della saggezza popolare, citazioni di personaggi storici: statisti, scrittori, artisti, pittori, ecc. Quando lo lessi non avevo ancora internet, e, per comprendere pienamente l'opera, mi dovetti munire di cartine geografiche, piante delle provincia di Ferrara, Rovigo e Bologna; di testi di storia e libri d’arte: Il Mulino del Po è un compendio di tutto questo. Per quest’opera, anche se, soprattutto nella terza parte, l’autore si perde un po’ nell’allungare troppo la trama del racconto vero e proprio, con particolari, richiami e ripetizioni che a volte risultano perfino inutili per la comprensione del filo logico del romanzo, pur tuttavia Riccardo Bacchelli, con quest’opera monumentale si sarebbe ben meritato il premio nobel, e infatti le candidature furono riproposte fino al 1953. Cessarono da quell'anno, dopo che Bacchelli aveva pubblicato il romanzo storico Il figlio di Stalin, che risultò particolarmente sgradito al regime comunista sovietico di quegli anni. Il romanzo incriminato racconta infatti del dramma del figlio del dittatore, Jacob Giugasvili che, cercando di sfuggire alla schiacciante figura paterna, viene catturato dai tedeschi e muore in un lager. E così Riccardo Bacchelli, bolognese, ma ferrarese e milanese d'adozione, morì povero e abbandonato all'età di 94 anni, nella mia Monza. Ora sto andando ai ricordi sbiaditi di quella lettura, ma, anni or sono, in un momento più ravvicinato al tempo di quella lettura, ebbi a scrivere che Bacchelli doveva scrivere molto e in fretta, per procurarsi i mezzi necessari per vivere, ma se avesse avuto il tempo e la tranquillità necessaria per una grande opera di “abbellimento”, rimaneggiamento, revisione e correzione, come invece potè fare il "ricco" Manzoni per i Promessi Sposi, Il Mulino del Po sarebbe diventato il “Capolavoro della letteratura italiana” alla pari e forse più dei Promessi Sposi, tanti e tali sono gli avvenimenti storici, i fatti, la cronaca, le leggende descritte nel romanzo.


Foto (dall'alto in basso):

Il Mulino del Po

Bacchelli e Sandro Bolchi sul set

La Conca delle Gabelle

Passaggio di Napoleone sulla Beresina dipinto del 1866 di January Suchodolski. Da Wikipedia

martedì 5 aprile 2011

Hokusai, Giappone e alcune altre cose

(K.Hokusai "Ortensia e Rondine")

In un periodo come questo, tra accadimenti catastrofici e dolorosi, viene spontaneo dedicare un omaggio a quella civiltà antichissima e preziosa che è stata ed è quella giapponese, che personalmente in alcuni suoi aspetti ho sempre amato. Il suo modo di rappresentare la natura e la vita, il suo approccio sottilmente filosofico in ogni aspetto dell'esistenza, che sa mescolare in maniera ammirevole quotidianità e sublime, è da sempre parte integrante dello spirito giapponese.

Katsushika Hokusai, l'artista dell'argomento scelto, è stato una figura particolare: vissuto tra 1760 e 1849, è stato un realizzatore di Ukiyo-e (stampa d'arte molto curata, realizzata su blocchi di legno, di vario soggetto), è forse uno dei più famosi pittori, ed è noto per aver influenzato con parte del suo stile anche Van Gogh. Tra le opere più note di Hokusai ci sono le "Cento Vedute del Monte Fuji".
Riposto dietro all'Ukiyo-e, vi è un contenuto in origine derivato dal Buddhismo: rappresentava la dimensione della fugacità dei beni terreni, la fragilità della bellezza, summa di perfezione formale e caducità,
da cui il sapiente doveva evolversi ed innalzarsi: vi era sottinteso un valore di ammaestramento e saggezza. Ma col tempo, scompare il soprasenso originario, e il genere di pittura e stampa divengono quasi una ricerca del piacevole, della bellezza e dell'estetismo in cui il mondo giapponese che si andava rinnovando amava specchiarsi.
Al posto dell'ispirazione filosofica iniziale, prende piede una 'modernizzazione' che ha a che fare col nuovo Giappone, quello del post 1600, che fugge dal suo stesso rigore formale e concettuale, e incomincia a sognare, vivere e rappresentare feste, il piacere più o meno proibito, la vita notturna, il teatro kabuki, la mondanità. Ma la natura rimane sempre 'divinizzata' e sacra nella cultura giapponese.

Qui "La Grande Onda" nelle vicinanze della Costa di Kanagawa, dalla serie delle "36 Vedute del Monte Fuji" 1830-32, che diviene tristemente paradigmatico se rapportato alla catastrofe odierna:

L'immagine è divenuta tra i simboli più diffusi dell'arte di raffigurare del Giappone. Acqua, potenza della natura, e in lontananza il Monte Fuji nella sua eterna immobilità.
Hokusai nel corso della lunga carriera ha affrontato più volte il tema dell'onda e dei vortici d'acqua, argomento che è comunque un classico in tutta la cultura giapponese. Da notare l'incredibile modernità, quasi contemporanea, delle sue soluzioni grafiche.


Se è principalmente nel modo di riprendere la vegetazione, i fiori, con il grafismo giapponese tipico, che si nota il l'influsso di Hokusai in Van Gogh, è pur vero che i debiti degli Occidentali con Hokusai (e anche altri giapponesi di genio, Hiroshige Utagawa su tutti per esempio) hanno a che fare anche con l'idea del paesaggio dell'Ukiyo-e (lett. "immagini del mondo fluttuante") come per esempio Manet, Monet, Degas, Gauguin ma anche Klimt.
Ne parlava anche Edmond De Goncourt che nel 1896 notava, nella prima monografia su Hokusai, il debito che già molti Impressionisti avevano con il Nostro, come in futuro ne avrà ogni decorativista, Schiele compreso.


(su fondo blu, Cardellino e Albero di Ciliegi)

Si parla infatti di vero e proprio "Giapponismo" (dal francese "Japonisme") nella pittura occidentale in alcuni casi. La contaminazione è dovuta inizialmente all'arrivo delle stampe giapponesi qui da noi, a partire dall'Olanda (stato con cui il Giappone commerciava), e solo in seguito in Francia, grazie alla Compagnia delle Indie, poi diffuse in tutta Europa.
Alcuni fattori visivi ricorrenti che si notavano dalle stampe erano: argomento quotidiano, rappresentazione tendenzialmente piatta e a due dimensioni, linee curve per suggerire l'idea del movimento, colori netti, assenza di prospettiva, decorativismo, concettualizzazione e stilizzazione della rappresentazione.
Si diffuse una vera e propria moda del collezionare stampe giapponesi tra 1850 e 1870.
Dell'influsso giapponese sui grandi europei sono un piccolo esempio i seguenti dipinti:

_Edouard Manet , nel "Ritratto di Emile Zola", che mostra in alto verso destra un'immagine giapponese, a segnalare storicamente l'avvenuto incontro:


_Il lussureggiante "Ponte giapponese a Giverny" di Claude Monet:


In Van Gogh gli esempi sarebbero moltissimi, dal momento che lo stesso artista ammetteva che l'influsso giapponese aveva agito su di lui anche nel dipingere il grano, gli uccelli, e per la gestione del colore e del movimento delle masse cromatiche. Un altro influsso giapponese è senz'altro anche nell'arte del comporre, intesa come maniera nuova di accostare gli oggetti nel quadro.
Anche se l'influsso nella decorazione e nella rappresentazione di fiori e vegetali è il più evidente, per es. in "Mandorlo in fiore" (a destra, fondo azzurro).



















La chiusura del post è affidata ad un Haiku (breve composizione di 3 versi, in cui una visione della natura diviene pretesto per una breve riflessione, spesso introspezione della differenza tra natura esterna e sentimento all'interno del poeta) di Matsuo Basho (1644-1694):

"Primavera"

Dilegua
l'eco della campana del tempo:
persiste

la fragranza dei fiori.

Ed è sera.



Josh