venerdì 25 maggio 2012

AKIRA KUROSAWA, UN MAESTRO DEL NOVECENTO





 Adesso che il Novecento è alle nostre spalle già da qualche anno e cominciamo a guardare ad esso con distacco, possiamo individuare con una certa sicurezza i grandi maestri che questo secolo travagliato ci ha lasciato, pur foriero com’è stato di ideologie criminali e di germi di follia autodistruttiva delle cui scorie non riusciamo ancora a liberarci; perché, indubbiamente, anche in questo secolo feroce sono comparse le grandi personalità capaci di assumere il ruolo di figure guida, creando opere durature nelle varie discipline in cui si esercita il genio dell’uomo, dalla filosofia al diritto, dalla politica all’arte. Per questo li chiamiamo maestri (anzi, buoni maestri per distinguerli dai cattivi maestri, dei quali il secolo scorso ha sfornato una quantità ingente), perché la loro opera costituisce un sicuro riferimento di ricerca del vero, del giusto e del bello per chi viene dopo di essi. Nel dominio delle arti, in questo caso del cinema, un posto di rilievo spetta senza dubbio ad Akira Kurosava, un giapponese, certo, un uomo apparentemente molto lontano dalla nostra mentalità e dalla nostra cultura, ma un cineasta che, oltre a produrre una serie di capolavori cinematografici, è stato anche capace  di compiere, nella sua opera, il miracolo di fondere temi e linguaggi occidentali con quelli orientali, configurandosi quindi come uno straordinario artista universale. Il linguaggio cinematografico nasce dalla sintesi o dalla fusione delle altre arti, in particolare della letteratura e della pittura. Kurosawa trova la propria ispirazione da fonti letterarie che vanno dal teatro No ai grandi testi dell’antica letteratura giapponese, ma anche da autori come Shakespeare, Tolstoj, Dostoevskij e Pirandello. Nelle arti figurative è influenzato certamente da pittori giapponesi come Hiroshige, ma anche da artisti come Van Gogh per la drammatica carica visionaria dei quadri del pittore olandese ch’egli sa trasferire in tante sue sequenze, e soprattutto dal nostro Paolo Uccello, a cui non smette di guardare per comporre le sue straordinarie scene di guerra, dove riesce a far muovere grandi masse di comparse secondo disegni precisi che mirano, pur nella concitazione degli eventi, a raggiungere un effetto d’armonia che richiama immediatamente l’equilibrio compositivo del grande pittore  italiano. Poi vi sono gli influssi più diretti ricevuti da altri autori cinematografici: dal giapponese Satsuo Yamamoto, suo mentore e maestro nel muovere i primi passi come cineasta, ma anche dall’americano John Ford, il primo in Occidente a capire la genialità del giovane regista giapponese e a trasmettergli il gusto di passare, nelle scene di battaglia, dall’affresco corale al dettaglio di taluni duellanti, un accorgimento che nasce con l’epica di Omero e che si trasfonde in Tolstoj, non a caso un autore, quest’ultimo, a cui guardarono con molta attenzione i registi che si cimentarono nelle grandi scene di battaglia, il capostipite dei quali si può individuare senz’altro in Sergej Ejzenstejn (basti pensare a film come Alexander NevskijIvan il Terribile).



Come tutti i grandi artisti, Kurosawa è un testimone puntuale dei drammi e della violenza che ha caratterizzato il secolo in cui è vissuto. Il suo cinema descrive la fine di un’epoca e dei suoi valori comunitari e del vuoto esistenziale che si accompagna all’avvento di un mondo nuovo, più cosmopolita e assai più spietato. Non a caso tra le sue fonti citiamo Pirandello, l’autore di Uno nessuno e centomila e cantore della relatività e dell’indeterminatezza dell’esistenza nel secolo che è dietro le nostre spalle. Rashomon, storia d’una donna strappata da un bandito al legittimo consorte, rappresenta il dramma del relativismo che sfocia nella negazione nichilistica del valore della verità, dove i vari testimoni che raccontano ciascuno a suo modo la vicenda non fanno altro che deformare i fatti per proprio tornaconto, svelando così un egoismo esasperato che preferisce la menzogna all’affermazione della giustizia. Così in Kagemusha, la controfigura che viene sostituita dai dignitari all’imperatore defunto per evitare lacerazioni e conflitti al clan della dinastia regnante, rigidamente legata al senso dell’onore e al rispetto delle tradizioni, finisce per identificarsi nell’uomo di cui ha assunto la parte e di scegliere di morire come sarebbe morto l’imperatore allorché, scoperta da tutti la sua finzione e cacciato in malo modo dai dignitari che l’avevano scelto, il clan di cui ormai ritiene di far parte viene assalito e distrutto da un clan rivale che ha già scelto la modernità e che muove in battaglia dotandosi di armi da fuoco, mentre il clan tradizionalista si affida ancora all’arma bianca. Memorabile, in questo film, la carica suicida dell’esercito armato di sole lance e spade e il carnaio di uomini e cavalli giacente al suolo sul quale corre il Kagemusha per  essere immolato a sua volta dalla fucileria che ha falciato il suo esercito. Da tutti i film di Kurosawa si ricava una lezione amara e crudele: che il mondo è sordido e dominato dal male e che, come dice un personaggio di Ran, uno dei suoi film più importanti: “Gli uomini sono pazzi, preferiscono la sofferenza alla gioia”. La filmografia del regista giapponese è molto ricca. Mi limito a citare solo i titoli più noti: L’angelo ubriaco, I sette samurai, Trono di sangue, I bassifondi, Dersu Uzala, Rapsodia d’agosto e, soprattutto, il già citato Ran, un film meraviglioso, questo, uno di quei capolavori assoluti che ti fanno capire come il cinema possa essere un veicolo straordinario di grandi emozioni, angoscia,  orrore, pietà, di quel pathos potente e coinvolgente, insomma, che ti inchioda davanti allo schermo e ti lascia una profonda impressione che non dimenticherai più.


Ran in giapponese richiama i termini occidentali di “caos”, “disordine”, "sconvolgimento” e si riferisce ad un mondo senza più leggi né pietà: quello delle guerre feudali giapponesi del XVI secolo in cui si svolge la vicenda del film, ma soprattutto è un’immagine cupa e terribile del mondo contemporaneo. La vicenda è modellata sul Re Lear di Shakespeare ed è la storia di un signore della guerra che ha trascorso la vita a sottomettere i clan rivali e che, all’età di settant’anni, decide di abbandonare il potere e di dividere terre e castelli tra i tre figli. E’ la tragedia testamentaria della decadenza fisica, del distacco dal potere e dalle cose del mondo, ma anche il terribile bilancio esistenziale di un uomo e di un genitore che ha dedicato la vita alla violenza e al sopruso offrendo ai figli quell’unico modello di ferocia che essi si affretteranno a ripercorrere scagliandosi l’uno contro l’altro e contro lo stesso genitore non appena vengono affrancati dalla sua tutela. C’è un unico figlio, il più giovane, capace ancora di nutrire un certo affetto per il padre, ma lo nasconde sotto un’ironia mordace contro la decisione paterna quando gli manifesta la sua contrarietà alla divisione del regno con l’esempio delle tre frecce disunite che si possono spezzare con  facilità. Ma il vecchio scambia la sua franchezza per avversione contro di lui e lo bandisce dal regno. Solo quando i due fratelli si sono divorati tra loro e hanno costretto il padre a vagare ramingo e ormai privo di ragione con la sola compagnia del suo buffone, il giovane, alleatosi con un altro signore di cui ha sposato la figlia, torna per rimettere ordine nel caos provocato dai fratelli, ma nel corso della battaglia finale, mentre ritrova e riabbraccia il vecchio genitore (ormai consapevole che solo questo figlio lo ha amato), muore colpito da un proiettile vagante, e il dolore del  padre è così violento da averne il cuore stroncato. Il messaggio di questo film così cupo è però molto chiaro: la guerra in cui alla fine tutti muoiono e tutto si distrugge è solo frutto della sete smodata di potere che sconfina nell’insensatezza.



Dionisio

33 commenti:

Hesperia ha detto...

Un post magistrale per un grande cineasta che annovero tra i miei preferiti, Diionisio. In Ran aggiungerei anche Shakespeare e la tragedia della fine della reggenza del Re Lear, che certamente KUrasawa conosce alla perfezione mettendo il buffone eternamente stravagante e giocherellone, colui che si rifiuta di prendere qualsiasi cosa sul serio, in contrappunto con il Monarca.
Tutti film meravigliosi, quelli da te citati su cui ci sarebbe da parlare per ore.

Kagemusha, l'ombra del Guerriero (il riferimento al Sosia di Dostoevskij) è un altro capolavoro.
Tutti grandi classici che hanno ispirato questo regista straordinario, capace di rielaborarli creativamente, traducendoli secondo gli stilemi della cultura nipponica.

Hesperia ha detto...

Citerei anche "Sogni" con l'episodio del Pescheto, dove i cromatismi in rosa assumono un valore altamente simbolico.

Anche l'episodio in Sogni del soldato e della Morte, è di grande suggestione, perché mostra quel piacere quasi sottile di lasciarsi andare tra le braccia di Thanatos senza più combattere. E' l'indicazione di Kurasawa che anche la vita e la sopravvivenza richiede una continua strenua battaglia.

Altre cose che mi verranno in mente, le dirò dopo.

Hesperia ha detto...

Mi correggo, vedo che Shakespeare quale ispiratore dell'opera kurosawiana l'avevi già citato :-) Una cosa mi ha sempre sorpreso di questo grande: anche le scene delle battaglie sono sempre pianificate con una simmetria e un gioco compositivo simile ad un'enorme scacchiera davvero encomiabile (Ran, Kagemusha).

Dionisio ha detto...

Sì, Hesperia, non mi meraviglia che Kurosawa sia tra i tuoi registi preferiti, perché con lui siamo sulle vette della cinematografia, sicuramente da porre accanto a Eizenstejn, a Bergman, a Welles, a Ford, a Kubrick e a pochi altri che in questo momento non mi vengono in mente (ma che tu o altri mi ricorderete).
I film citati sono quelli che ho visto più volte e che quindi ricordo bene (avevo le cassette che, col tempo, si sono sciupate, mentre in versione CD non è facile trovarle, almeno in una città provinciale come Genova). "Sogni" l'avevo visto al cinema, non tutti gli episodi mi avevano entusiasmato, quelli da te citati sono forse i migliori; aggiungerei anche l'episodio dedicato a Van Gogh, molto poetico.
Ran è modellato proprio sul Re Lear, dove in gioco erano tre figlie femmine del monarca, mentre in Ran i figli sono maschi (la parte più spietata però spetta alle loro mogli).
Anche "Dersu Uzala" era un film pieno di poesia.

GL ha detto...

Esistono due strategie di comunicazione tra culture “contrarie” per fondersi alla cultura universale: uno (esteriore) riferendosi alla cultura dell’Altro reinterpretandola secondo i canoni nazionali ed autoctoni (press’a poco come ha fatto Kurosawa), ed altra (interiore), definita da Dostoevskij in conflitto con i filoccidentali, sprofondarsi nella cultura nazionale fino all’ultimo livello di base dove il specifico (nazionale) si trasforma automaticamente in universale.

Io preferisco “Dersu Uzala”.

Dionisio ha detto...

Due parole sulle figure femminili di Kurosawa, personaggi di grande complessità e tragicità, come, per esempio, la protagonista di Rashomon o la Kaede di Ran, così lucidamente e tenacemente negative, certamente degne di stare accanto a certe figure femminili di Shakespeare (Lady Macbeth, tanto per citarne una). Kaede ha avuto la famiglia d’origine annientata dal vecchio tiranno, che l’ha costretta a sposare uno dei suoi figli. Per questo ha giurato segretamente vendetta al suocero e vuole distruggere il suo clan. E’ lei a istigare il marito a togliere ogni privilegio al vecchio padre e a muovere in guerra contro il fratello. Quando il marito resta vittima della guerra fratricida, non esita a divenire l’amante del fratello vincitore e di istigare anche questi alla guerra contro altri clan rivali. Per il suo scopo è pronta ad usare ogni arma, dal sesso al pugnale, ma infine è lei stessa a restare vittima della sua sete di sangue quando anche l’amante viene sconfitto dal clan alleato del figlio più giovane.

Dionisio ha detto...

Le due ipotesi di strategie di comunicazione tra culture diverse sono, credo, entrambe corrette, ma bisogna essere giganti come gli autori citati per attingere la sintesi delle due culture e realizzare opere di significato e valore universali.

GL ha detto...

Le due ipotesi di strategie di comunicazione sono entrambe corrette perché sono complementari, si completano a vicenda, almeno teoricamente, perché vedendo cosa succede in realtà sembrano contrari.

Concretamente Kurosawa proviene da una famiglia di samurai (il suo amato e stimato fratello ha fatto harakiri), eppure “alba dorata” della sua patria (che ha il sole nella bandiera) lo ha accusato di cosmopolitismo, filoamericano ecc (un fatto poco conosciuto in occidente). Invece è molto conosciuto che Dostoevskij è venuto alla fede del messianismo russo attraverso una crisi mistica (la vista di un raggio di sole sopra il tetto di una chiesa, messo al muro per essere fucilato, perdonato ecc), prima era un anarchico, sensimonista, internazionalista.

Sympatros ha detto...

Le guerre le battaglie, anche quelle mitizzate nei testi epici, nei libri di storia, nei film…. visti da un'ipotetica collocazione ottica extra-locale.. sono lo spettacolo più triste, deprimente, insensato, stupido a cui l'animale-uomo è stato condannato da quella volontà cieca, alla quale non è in grado di ribellarsi. Ma paradossalmente anche l'ipotetica collocazione ottica extra-locale, vista da un ottica ancora più extra-locale, si dimostra anch'essa un pio desiderio, esangue, pietoso, destinato a compiangersi e al fallimento. Dalla padella nella brace!

johnny doe ha detto...

Un post molto ben fatto,a cui poco c'è da aggiungere.
Azzeccato é il paragone visivo con le battaglie di Paolo Uccello e Tolstoi,vedi Guerra e Pace di Bondarciuk.
Credo che con Tolstoi ci sia pure una consonanza sulla visione della Storia.
Anche a me é piaciuto molto Dersu Uzala.
Credo che la nobiltà d'animo,sia pure di uno straccione come di un samurai,sia una delle cifre della poetica del regista,pur in mezzo al climax destruens di molti suoi films.
In Kagemusha,colgo anche come l'uomo sia condizionato (in questo caso positivamente)dalle leggi oggettive del potere e del ruolo,cosa che spesso sortisce l'effetto opposto.

Un particolare che mi ha sempre colpito, e che non ha niente a che vedere con considerazioni artistiche od estetiche,sono le bandierine del Signore della guerra in schiena alla truppa....non so,forse per esigenze pratiche della battaglia...fatto sta che mi vien sempre da paragonare questi soldati a certe attuali truppe cammellate e molto targate al servizio di ben altri signori...

Dionisio ha detto...

Sympatros, le arti rappresentano da sempre il mondo in tutte le sue componenti, tra cui i conflitti tra gli esseri umani e quindi la guerra tra schieramenti diversi di umani.Che la guerra sia una faccenda sudicia e orribile mi pare (sempre che non mi sbagli) che l'abbiano fatto capire tutti gli artisti nel modo in cui l'anno rappresentata, a cominciare da Omero. Qualcuno, come Paolo Uccello, l'ha presa a pretesto, nelle tre rappresentazioni della battaglia di San Romano, per costruire le sue architetture ricche di simmetrie con lo scopo di restituire le sue visioni fiabesche e un po' magiche del mondo (perché questa era la sua natura, cioè quella di chi poggia i piedi sulle nuvole, come ha detto una volts Ennio Flaiano), ma sicuramente Kurosawa, benché nelle sue scene di battaglie si ispiri alle simmetrie di Paolo Uccello, ci trasmette la sua pessima opinione (e visione) della guerra e delle cause che la generano.
E' così e non possiamo farci niente: gli uomini continuano a far le guerre nonostante che tutto ci indichi che sono inutili e bestiali, perché, probabilmente (anzi certamente), la parte ferina che è in noi non è domabile, e prima o poi prevale.

Dionisio ha detto...

Non conoscevo il particolare del fratello di Kurosawa che ha fatto Karakiri, ma non c'è dubbio che nella tematica del regista il concetto dell'onore nell'altissima concezione dei Samurai sia sempre presente, tant'è vero che, quando viene meno, se non c'è vero e proprio castigo (come avviene per i due fratelli di Ran che rinnegano il padre e gli tolgono i privilegi promessi in cambio del potere che lui ha ceduto loro), si avverte il suo disprezzo verso chi manca ai suoi doveri, come in Rashomon e in altri film, allorché i personaggi deformano la verità per convenienza o abdicano alla dignità per debolezza o interesse.
Il Kagemusha assume addirittura doveri non suoi e li fa suoi al punto da immolare se stesso perché ormai si è identificato totalmente nella figura del monarca che era stato chiamato solo a rappresentare, come giustamente rilevi tu, Johnny Doe.
Le bandierine sulla spalla dei combattenti sono certamente un modo per attestare il clan di appartenenza, forse perché le armature di legno e bambù sono tutte molto simili, ma visivamente hanno un gran fascino.

Dionisio ha detto...

Kagemusha è un film doppiamente apprezzabile, oltre che per la sua bellezza, per la sua altissima lezione: c'è il rimpianto per l'epoca eroica dell'onore rivestito dalla figura del samurai (rappresentato dalla morte del monarca "tradizionalista" e dalla distruzione del suo clan da parte del clan "modernista" che si affida nella battaglia alle armi da fuoco, che escludono i duelli tra singoli della tradizione), un senso di onore che però si è trasmesso all'attore che lo rappresenta (inizialmente presentato come un uomo volgare, tutt'altro che nobile), al punto da fargli scegliere di morire come avrebbe fatto il monarca di cui ha preso il posto. Come un riscatto, insomma, che viene offerto all'uomo volgare (e senza onore) dei tempi moderni.

GL ha detto...

Il tragico nell’opera di Kurosawa non è fatale come sembra, a parte il film Ran e la funzione catartica della tragedia, maggioranza delle sue opere lasciano una porta aperta di speranza, sottointeso o evidente. Il film Rashomon, super tragico come concetto e non dalla quantità del colore rosso speso dal regia (stupro della moglie e omicidio del marito, illustrazione del detto “non esistono fatti, ma soltanto interpretazioni intenzionate”, relativismo moderno, tutti bugiardi, il male assoluto ecc), finisce stranamente con l’adozione di un bambino innocente da un pentito, atto che da speranza ad monaco buddista, inorridito dall’infamia degli uomini.

Il film Kagemusha si può interpretare più in profondo, al di là della dicotomia tradizionale-moderno e nobile-vogare, come il ruolo (medium) può far uscire nell’uomo la sua parte migliore.

Il caso viene illustrato da un romanzo, letto anni fa, non riccordo il titolo ed autore. I servizi segreti di una giunta militare fanno un esperimento infiltrando un loro agente nel grembo di un gruppo rivoluzionario per realizzare un ipotetico attentato, che doveva servire come provocazione e pretesto per debellare il gruppo nell’ultimo momento prima dell’attentato. L’infiltrato reazionario, gradualmente si è trasformato in rivoluzionario, e si è fatto convinto convinto dal ruolo fine a compiere per davvero l’attentato, andando contro il piano dei servizi segreti e contro il buon senso dei suoi compagni di strada. Il romanzo si chiude con un verdetto dei servizi segreti: esperimento fallito, non si ripete più.

Morale della favola: non puoi dividere facilmente il ruolo dal carattere, lo spiritualità dal medium. Secondo me il significato più profondo del film è di riscattare il carattere ricattato nel ruolo, e viceversa. Concretamente non si può riscattare “il volgare” senza mettere nella posizione del nobile. Questo è il significato e la parte nobile del moderno.

GL ha detto...

Sympatros, la seconda “ottica ancora più extra-locale” è ancora più ipotetica?

Non so perché si devono ipotizzare punti di vista esterni, ipotetici, extraterrestri ecc. per disprezzare assurdità della guerra quando basta la testimonianza dei partecipanti. A me mi e bastata la testimonianza di un extracomunitario (africano, professore di università), partecipante in una delle guerra assurde dell’Africa per la ragione di guadagnare la pagnotta (unico modo per non morire di fame, tutti guerreggiavano, nessuno lavorava).

Dall’altra parte soltanto da un punto di vista esterno (NON ipotetico) forse si può trovare una ragione e una giustificazione per il conflitto, la guerra e tutto quello che segue.

Dionisio ha detto...

Naturalmente in opere di grande spessore artistico ma anche morale come quelle di cui parliamo le sfaccettature interpretative possono essere molteplici e tutte legittime.
E' giusta l'osservazione che la speranza compare nei film di Kurosawa, come nel finale di Rashomon, dove c'è il riscatto del pentito che adotta il bambino col conforto del monaco che ha assistito al desolante spettacolo di menzogne offerto dai testimoni dell'omicidio. E direi che ci sia sempre, evidente o sottintesa, in quanto la condanna delle storture umane, e la speranza che esse possano essere sanate, si trovano in tutti i suoi film, perfino in Ran che, con tutta la sua cupezza, è un film che vuole soprattutto condannare la guerra e le ragioni per cui nasce, quella volontà di potenza che azzera ogni amore e senso di rispetto per l'altro e può contagiare tutti, facendo emergere solo la parte ferina dell'uomo.
Quanto a Kagemusha, è evidente che per nobiltà non mi riferivo al sangue blu (un tantino fuori moda, se non altro) ma alla nobiltà dell'animo che riconosce il valore dell'onore, della fedeltà alla tradizione ereditata dagli antenati. Nel film ci sono i due aspetti, secondo me: quello del ruolo che, pirandellianamente, ti cattura e finisce per possederti, ma anche un ammonimento, con l'esempio della controfigura che segue volontariamente la sorte del clan annientato dalla modernità, a ritrovare quei valori tradizionali che la modernità ha abbandonato affinché l'uomo si riscatti dalla sua volgarità, la volgarità di chi non ha più principi e obbedisce solo alla volontà di prevaricare, fare violenza, sfruttare, annientare il proprio simile - moventi che hanno determinato gran parte della storia del secolo che abbiamo alle spalle.
Non per caso classifico Kurosawa tra i maestri "buoni" comparsi nel Novecento (sempre secondo me, si capisce).

GL ha detto...

Nessun dubbio che Kurosawa e un raro maestro buono, anzi buonissimo, dubito che lui credeva nella salvezza dal restaurazione dei valori tradizionali dell’epoca d’oro prima dell’armi da fuoco oppure prima della bomba atomica. Era abbastanza genio di capire, più esattamente sentire (dal gesto del suo fratello e molti altri scrittori giapponesi famosi), che ormai le ponti che legano con il passato sono irrimediabilmente distrutti.

Dionisio ha detto...

Non è facile intendersi con te, GL, forse perché l'italiano non è la tua lingua madre (solo per curiosità, qual è il tuo paese d'origine?). Quando dico maestro "buono" (per distinguerlo dai maestri "cattivi") non alludo a una (vera o presunta, non importa) bontà d'animo di Kurosawa ma al fatto che dalla sua opera si evince un messaggio positivo, diciamo così, in estrema sintesi, di condanna di certo umanesimo aberrante e/o di ammonimento a non uniformarsi a quel modello. Questo è il senso.

johnny doe ha detto...

Sempre Kagemusha.
In una visione più cupa e pessimista,questa vicenda può essere anche vista come la tragedia della perdita totale di identità.
Infatti,non riuscirà più a "riscattare il carattere ricattato nel ruolo",non ridiventerà più il ladruncolo che era.Ma nello stesso tempo non sarà mai un Takeda.Basta il suo cavallo a smascherarlo.
Kagemusha ha grandi doti,ma non potrà mai impiegarle perché è sempre e comunque un uomo del popolo.
Alla fine,non é più nulla,nè uno nè l'altro,non gli resta che morire,anche se coraggiosamente.
Molti sostengono che ritrovi un'identità nell'atto finale,io vedo solo una grande disperazione,una perdita totale di ogni identità.L'ombra non può esistere senza la persona.
Un finale meno eroico.

Hesperia ha detto...

Anch'io non vedo un grande atto di eroismo nell'atto finale di Kagemusha. Concordo con la visione di Johnny sulla tragedia della perdita di identità e questa persona che ha cercato di emulare il monarca, alla fine resta pur sempre "ombra del guerriero". Guerriero che non è.

Dionisio ha detto...

D'accordo, ognuno interpreta secondo la propria sensibilità e inclinazione (le grandi opere sono belle proprio per questo). L'unica obiezione che faccio è questa: se ben ricordo il film, la controfigura non prende mai nessuna decisione; queste spettano ai dignitari, lui fa sempre e solo la controfigura, quindi non esiste alcuna possibilità che possa identificarsi nel nobile guerriero di cui interpreta il ruolo. Nel Kagemusha scatta l'identificazione non con l'uomo di cui ha preso il posto bensì, secondo me, un senso di appartenenza col clan dove in qualche modo è stato ammesso a far parte e che rappresenta qualcosa di più elevato (di più nobile, per lui ex ladruncolo) rispetto alla vita priva di principi, o mossa da motivi miserabili, che conduceva prima. In questo modo la sua morte cercata dà un senso al film che diventerebbe molto più povero se inteso solo come fine inevitabile di una personalità che non può più vivere perché ha perduto gli agi di cui aveva nascostamente goduto. Così interpreto io il film, anche alla luce della tematica di Kurosawa che percorre tutta la sua filmografia, ma posso sbagliarmi, naturalmente.

johnny doe ha detto...

A me sembra che invece Kagemusha, ad un certo punto della sua vicenda,volesse totalmente identificarsi col principe (vedi anche l'attaccamento al nipotino che lo chiama anche nonno),e non con il clan.Il film si gioca tutto sull'identità personale e quasi per nulla sul senso di una appartenenza ad una classe.
L'episodio del cavallo é indicativo:il compagno più vicino al principe morto Takeda non lo riconosce.Quasi un disconoscimento del principe del desiderio di Kagemusha di impersonarlo.
La tragedia vera é che questo poveretto ha perso ogni identità,compresa la sua originale,in cui non si riconosce più. (restituisce anche la mancia).Lo morte finale,a mio vedere,é solo un atto di disperazione.Non sa più chi é.
Ovviamente il pregio di una grande opera é anche di travalicare il significato attribuitogli dall'autore,restando aperta a diverse interpretazioni.

GL ha detto...

Johnny doe:
… “"riscattare il carattere ricattato nel ruolo",non ridiventerà più il ladruncolo che era”. …

Riscattare il carattere ricattato nel ruolo non è ridiventare il ladruncolo che era, ma fare qualcosa in più. E Kagemusha lo ha fatto, infatti è morto, e non in un scontro con la polizia, neanche regnando come ladruncolo fino alla vecchiaia. Il valore suo atto rimane lo stesso anche nel caso dell’interpretazione di un suicidio voluto, velato dietro un eroismo imitato, per causa di perdita dell’identità del ladruncolo con conseguenza di crisi di identità del ladruncolo (essere ladruncolo è essere in crisi di identità, altrimenti siamo conciati benne). Nel contesto della cultura giapponese il suicidio ha pari valore, e forse di più, che la morte in guerra.

Diversamente da quando si crede in generale nei tempi moderni culturally correct (derivato del politically correct - Nietzsche il profeto della democrazia, che ironia), tutte le interpretazione di un opera non sono legittimi (come buoni o veri). Ci sono limiti definiti (press a poco) da criteri di giudizio oggettivi. Concretamente l’interpretazione di Dionisio mi sembra più vera appunto perche fatta “alla luce della tematica di Kurosawa che percorre tutta la sua filmografia” (dico in più di Dionisio: anche la sua biografia). Non si giudica un scrittore da un romanzo, un romanzo da una pagina e meno di meno una pagina dalla stessa pagina.

Visto che siamo in Oriente, mi riferisco alla famosa parabola buddista con l’imperatore che mando i consiglieri per verificare lo status di un animale, e loro riportavano informazioni parziali sbagliate di forme mostruose (interpretazioni personali) per un intero normale elefante.

GL ha detto...

Dionisio,
scusami ma non posso accontentare la tua curiosità riguardo la mia provenienza per paura di condizionare negativamente il giudizio su di me, o più esattamente su quello che scrivo. Credo che basta il fastidio (conscio o inconscio sia) che do ai altri commentatori per il miei sbagli linguistici. Approfitto dal caso per chiedere scusa per i sbagli.

Avevo capito bene il tuo punto di vista per il “buon” maestro; a parte i problemi del mio italiano non corretto, il vero problema è che abbiamo (forse) punti di vista diversi per la relazione tra opera ed autore. Vedi che, diversamente da te che il termine buono lo scrivi con virgolette, io lo scrivo semplicemente buono.

Dionisio ha detto...

OK GL, rispetto il tuo desiderio di non voler comunicare la tua provenienza, ma ti posso assicurare che essa non condizionerebbe in alcun modo il mio giudizio nei tuoi confronti. Invece mi è servito capire che l'italiano non è la tua lingua madre, perché adesso cerco di interpretare correttamente le tue intenzioni.
Di Kurosawa sai molte cose più di me. Io lo giudico come appassionato di cinema (lo sono di tutte le manifestazioni artistiche; di qualcuna ho anche qualche cognizione tecnica, di altre meno) e sulla base delle opere sue che conosco; senza pretendere, naturalmente, d'aver capito tutto, che non è l'aspetto che mi interessa, perché il mio giudizio è soprattutto di carattere estetico.

johnny doe ha detto...

GL

Qui non si tratta di GIUDICARE uno scrittore o un regista,ma solo di ESAMINARE una sua opera che si presta a diverse interpretazioni,siano più o meno in linea con la sua poetica generale (che può anche avere diversi risvolti).
Questo accade a tutte le opere artistiche di valore,le cui interpretazioni vanno al di là delle intenzioni dello stesso autore.L'opera ha una vita sua
Il relativismo niciano,il politcally correct,il soggettivismo non c'entrano nulla,ci sono opere che di per se stesse sono aperte a diversi livelli di significato.
Ricordo anche che l'opera non é mai l'uomo,biografia compresa.
Casomai questo é l'errore che si commette oggi,dove sembra più importante l'autore in se stesso delle sue opere.
Mi sembra una riedizione della annosa querelle Proust-Sainte-Beuve.
Quest'ultimo tentava di costruire un "metodo scientifico" per la valutazione "oggettiva" delle opere letterarie basato su elementi biografici...mentre Proust separava nettamente l'opera dall'autore.

L'aneddoto finale dell'imperatore mi pare solo una evidente forzatura del discorso che stiamo facendo.

GL ha detto...

Citato dal Wiki, voce Sainte-Beuve:

“Una delle questioni maggiormente dibattute da Sainte-Beuve s'interrogava sulla necessità, al fine di comprendere l'opera di un artista, di conoscerne la biografia. Marcel Proust prese spunto da tale questione per scrivere un articolo teso a confutarla. L'articolo di Proust (con titolo “CONTRO Sainte-Beuve”) prese infine la forma de Alla ricerca del tempo perduto, opera - per ironia – autobiografica”.

Il discorso chi è più importante autore o opera, è simile con chi è più importante l’uovo o la gallina? (alias Sainte-Beuve o Proust?). Chi è più importante dalle due opere di Umberto Eco, “I limiti dell’interpretazione” (l’uovo) o “Opera aperta” (la gallina)?

Opera deve essere contestualizzata nella situazione specifica di vita autore e di contesto culturale, altrimenti si rischia OT. Come ho detto in un commento sopra non si può esaminare un suicidio giapponese con pregiudizi occidentali (parlo nel senso tradizionale, per non confondersi nei discorsi senza capo ne coda sull’eutanasia), perché loro valutano lo stesso fenomeno con segni contrari.

Ammirare e produrre statue classiche di marmo bianche senza colori e cieche senza occhi, lo stesso per le poesie senza cantarli accompagnati con la lira, pitture vecchie oscure ecc, vuol dire decontestualizzare, in ultimo piano falsare, percepire trasfigurando la realtà come il sordo, il muto, lo cieco.

Sympatros ha detto...

Opera deve essere contestualizzata nella situazione specifica di vita autore e di contesto culturale, altrimenti si rischia OT.

Sono almeno due le modalità di approccio all'opera d'arte. Una che ha dominato l'estetica di buona parte del novecento… un approccio storico-sociologico, secondo cui l'opera d'arte è prodotto di un contesto, in questo caso necessariamente la conoscenza del contesto, sia allargato che ristretto, tipo biografia, è molto importante. Però c'è un però. Questo metodo si puo' adottare per qualsiasi cosa storicamente determinata, quindi l'opera d'arte non si verrebbe per nulla a diversificare da un altro qualsiasi prodotto storico. Se invece l'opera d'arte accampa il diritto dell'eccezionalità del bello e del sublime, che va al di là del tempo e della storia e rompe i confini del contesto, in questo caso il contesto non è essenziale all'essenza dell'opera d'arte, a quel quid che fa di un'opera d'arte qualcosa che non sopporta vincoli contestuali e storico-ideologici. Per dire che qualcosa è bello non devo conoscere vita morte e miracoli dell'autore, posso benissimo ignorarne nome e biografia e contesto storico sia allargato che ristretto.

In pratica quando si parla d'arte, si finisce sempre per impelagarsi in problemi di critica che hanno la caratteristica della lana caprina.

GL ha detto...

@Sympatros,
aspettavo che rispondesse ad un domanda che ti ho fatto per il punto di vista esterno IPOTETICA.

Potevi risparmiarti sul termine “lana caprina” per rispetto di se stesso per prima, poi per i altri discutenti del blog, e anche perché il tuo commento non è nient’altro che critica d’arte, anzi peggio (secondo il tuo punto di vista) è una critica della critica, dunque è lana artificiale di policlorurvinile.

“L'opera d'arte accampa il diritto dell'eccezionalità del bello e del sublime” alquanto l’opera religiosa e opera filosofica (tempo fa si chiamava teologica). La critica d’arte si chiama anche estetica, e anche filosofia d’arte, dunque al livello di pensiero, sapere, conoscenza, accampa il diritto dell'eccezionalità del vero, credo cosa sublime con potenzialità di scoprire che tipo di lana si nasconde dietro la foglia del fico del ladruncolo.

La decontestualizzazione dell’opera (prima non voluta, e poi voluta) ci ha portati in punto dove siamo oggigiorno che si considera opera bella e sublime istallazione del calendario Maya sopra un orinatoio.

Sympatros ha detto...

e anche perché il tuo commento non è nient’altro che critica d’arte, anzi peggio (secondo il tuo punto di vista) è una critica della critica, dunque è lana artificiale di policlorurvinile.

Oh, hai indovinato… è proprio quello che volevo dire.. solo che io sono nostalgico di una visione naturistica-bucolica e propendo per il naturale, per le capre.. tu invece sei proiettato sulla modernità e parli di plastica. Sostanzialmente siamo d'accordo, è fuori luogo perciò il tono e il rimbombo della tua risposta. L'altra domanda mi sarà sfuggita, ma son sicuro che saremo d'accordo anche su quella!

GL ha detto...

@Dionisio
Da un giudizio estetico Kurosawa deve risultare, non un buon maestro, ma un bel maestro. Senza togliere nulla al tuo bellissimo e buon post, dico in più un piccolo fatto concreto che dimostra quanto sono ricercati esteticamente i suoi film. Per trovare il tramonto dovuto per una schema di battaglia, ha fatto aspettare per mesi e mesi decina di migliaia di comparse che non facevano nulla, oltre che aspettare in ozio il momento del sublime tramonto. Immagini la scena della mobilitazione dopo il segno: “adesso ci siamo”. Veramente un opera d’arte totale, come infatti merita di essere il film.

Il merito principale come buon maestro di Kurosawa è che è tra di quei pochi che hanno tentato, e con buon risultato, un sintesi tra oriente ed occidente, oggi come ieri vista come eresia pericolosa (templari). Ancor di più ha merito visto che lo ha fatto in un contesto del Lontano Oriente, e di un paese dove la tradizione ha tratti specifici aggressivi incomparabili con la più aggressiva della storia europea, quella tedesca. Centrati per egoismo collettivo nella loro storia, i europei hanno poco sentore per l’aggressività giapponese, vedono di più i lati buoni e belli del japonaiserie. I americani, per esperienza propria, sano di più.

GL ha detto...

@Sympatros
Eh, eh, finalmente d’accodo, finalmente incontrati nei verdi campi calpestando l’erba con scarpe Adidas, danzando dionisiacamente intorno alla capra Dolli.

Dionisio ha detto...

Grazie a tutti per i commenti, tutti di elevata qualità, al di là di qualche divergenza di opinione, inevitabili quando si tratta di grandi artisti e di grandi opere che, proprio per questo, si prestano spesso a più interpretazioni.
Un altro grande regista sul quale i critici non smettevano mai di scontrarsi era Ingmar Bergman. Ricordo che alcuni lo accusavano di occuparsi solo di temi metafisici o psicologici e di trascurare i grandi temi come la guerra e simili (non era del tutto vero perché già Nel "Settimo Sigillo" il suo giudizio sulla guerra traspariva da come ne parlava il cavaliere che tornava dalla crociata). Poi lui girò "La vergona" che a mio avviso è uno dei film più belli e pregnanti sulla guerra perché fa vedere che può trasformare in belve umane le persone più miti del mondo (il musicista che uccide uno sconosciuto solo per prendergli le scarpe).
Parleremo anche di Bergman se ne avremo occasione.
Un saluto a tutti.