mercoledì 19 marzo 2014

La fine della sovranità secondo Alain de Benoist

Sovranità vo' cercando... Abbiamo una sovranità monetaria? No, perché l'Euro è moneta battuta senza stato a cambio fisso. Con tutte le storture e le conseguenze del caso.  I parametri di Maastricht sono i requisiti economici e finanziari ai quali gli stati membri dell'Ue  devono sottostare, non importa come.   
Abbiamo un'indipendenza giuridica? Siamo ancora uno stato di diritto? No, perché la Magistratura si è sempre più internazionalizzata ed ha finito col diventare il braccio armato del NWO (Mani pulite - Clean Hands docet, grazie al quale furono smantellati i migliori assetti industriali su ordine americano).
Abbiamo un'indipendenza geografica e demografica? No, perché ci sono i trattati Ue che hanno sancito la libera circolazione degli uomini, delle merci e dei capitalii. Perché abbiamo avuto nel '94 il Trattato commerciale di Marrakech eppoi Schengen messo a punto nel dicembre del 2007. Perché le politiche migratorie vengono decise a Bruxelles.
 
Abbiamo un'indipendenza produttiva e industriale? No, non esiste più made in Italy Italian style; c'è la deindustrializzazione, c'è stata e c'è la delocalizzazione degli impianti industriali. Il mercato globale è senza regole e pertanto ci vietano di applicare dazi o altra forma di protezione.
Abbiamo un'indipendenza culturale? No. Perfino in Alto Adige (che è casa nostra) si decide di far sparire i cartelli in lingua italiana  a favore del tedesco, col consenso del  fu governo Letta.
Abbiamo un'indipendenza militare? meno che mai. E' stato smantellato da anni  il servizio obbligatorio di leva. La Marina Militare si limita a fare la badante per i clandestini, andandoli a prelevare financo nelle coste dei paesi di provenienza.  Le nostre missioni militari dette peacekeeping e peacenforcing  ci costano un occhio della testa per guerre non nostre a cui dobbiamo partecipare per amore o per forza.
Alain de Benoist nel suo libro "La fine della sovranità"  (Arianna editrice) analizza lucidamente le conseguenze del "cesarismo finanziario" che depreda i popoli della loro storia e del  loro futuro.

La fine del mondo c'è stata, eccome! Non è avvenuta in un giorno preciso, ma si è spalmata su più decenni. Il mondo che è scomparso era un mondo in cui la maggior parte dei bambini sapevano leggere e scrivere. In cui si ammiravano gli eroi invece delle vittime. In cui gli apparati politici non si erano ancora trasformati in macchine per stritolare le anime. In cui si avevano a disposizione più modelli che diritti. Era un mondo nel quale si poteva capire che cosa intendeva dire Pascal quando sosteneva che il divertimento ci distrae dall'essere veramente uomini. Era un mondo nel quale le frontiere garantivano a coloro che vivevano al loro un interno un modo di essere e di vivere che era di loro specifica pertinenza. Era un mondo che aveva anche i suoi difetti e che talvolta è stato addirittura orribile, ma dove la vita quotidiana del maggior numero di persone era quantomeno garantita da dispositivi di senso capaci di dispensare punti di riferimento. Attraverso i ricordi, quel mondo rimane familiare a molti. Taluni lo rimpiangono. Ma non tornerà.
Il nuovo mondo è liquido. Al suo interno, lo spazio e il tempo sono aboliti. Liberata dalle sue tradizionali mediazioni, la società è diventata sempre più fluida e sempre più segmentata, il che ne facilita la mercantilizzazione. Vi si vive secondo il modo dello zapping. Con la scomparsa di fatto dei grandi progetti collettivi, in altre epoche portatori di visioni del mondo differenti, la religione dell'io — un io fondato sul desiderio narcisistico di libertà incondizionata, un io produttore di sé a partire dal niente — è sfociata in una "detradizionalizzazione" generalizzata, che va di pari passo con la liquidazione dei punti di riferimento e dei punti fissi, rendendo l'individuo più malleabile e più condizionabile, più precario e più nomade. Da un mezzo secolo, l'«osmosi finanziaria della destra finanziaria e della sinistra multiculturale», come ha scritto Mathieu Bock-Coté, si è sforzata, con il pretesto della "modernizzazione" emancipatrice, di far confluire liberalismo economico e liberalismo societario, sistema di mercato e cultura marginale, grazie soprattutto alla strumentalizzazione mercantile dell'ideologia del desiderio, capitalizzando così sulla decomposizione delle forme sociali tradizionali.

L'obiettivo generale è eliminare le comunità di senso che non funzionano secondo la logica del mercato. Parallelamente, sono all'opera vere e proprie trasformazioni antropologiche. Toccano il rapporto con se stessi, il rapporto con l'altro, il rapporto con il corpo, il rapporto con la tecniche. E domani giungeranno sino alla fusione programmatica fra l'elettronico e il vivente. Quando il desiderio di profitto si impone come unica motivazione a detrimento di tutte le altre, il suo effetto performativo è di generalizzare lo spirito mercantile, che decompone la popolazione in semplici clientele. In questo contesto, il "politicamente corretto" non è una semplice moda un po' ridicola, ma un mezzo forte per trasformare il pensiero, per restringere ulteriormente uno spazio comune generatore di obbligazioni reciproche, per rendere impossibile la riabilitazione di un universo di senso oggi scomparso.
Stiamo infine assistendo all'istituirsi della governance, una sorta di cesarismo finanziario che consiste nel governare i popoli tenendoli in disparte. Lo Stato terapeutico e gestionale, dispensatore di ingegneria sociale e Grande Sorvegliante, si impegna, dal canto suo, a sopprimere la barriera esistente tra l'ordine e il caos. Esso basa il proprio potere sulla costituzione assolutamente volontaria di una situazione subcaotica, sullo sfondo di una fuga in avanti e di una illimitatezza generalizzate, creando in tal modo una situazione di guerra civile fredda. Lo stesso concetto di classe sociale viene congedato da una sociologia vittimistica che al suo posto colloca la denuncia dell'"esclusione" e la "lotta contro le discriminazioni", e da una "scienza" economica che guarda al concetto di popolo come ad una categoria residuale, nel momento stesso in cui la lotta di classe è più che mai in auge.

Sotto l'effetto delle politiche di "austerità", l'Europa sta scivolando nella recessione, quando non nella depressione. La disoccupazione di massa continua ad estendersi, lo smantellamento dei servizi pubblici comporta la riduzione dei beni sociali e il potere d'acquisto crolla. Un quarto della popolazione europea (120 milioni di persone) è sotto la minaccia della povertà. In passato, si sono fatte rivoluzioni per meno di questo. Oggi, non accade niente di simile. Delocalizzazioni, licenziamenti e piani sociali provocano, certo, proteste — ma non assistiamo a nessuno sciopero di solidarietà, e meno che mai a scioperi generali: la lotta per il mantenimento del posto di lavoro non ha prospettive al di là di se stessa. Perché la crisi viene subita così passivamente? Perché i popoli sono sfiniti, sbalorditi, sgomenti? Perché hanno interiorizzato l'idea che non esistano alternative? I popoli vivono sotto l'orizzonte della fatalità. Attendono che questo accada. Ma non accadrà, perché il capitalismo si scontra oggettivamente con limiti storici assoluti.
Viviamo una crisi di un'ampiezza assolutamente inedita, che tocca il sistema capitalista ad un livello di accumulazione e di produttività ancora mai raggiunto. Le crisi del XIX secolo avevano potuto essere superate perché la Forma-Capitale non si era ancora impadronita di tutta la riproduzione sociale. Quella del 1929 lo è stata grazie al fordismo, alla regolazione keynesiana e alla guerra. La crisi attuale, che interviene sullo sfondo della terza rivoluzione industriale, è una crisi strutturale, contrassegnata dalla completa emancipazione della finanza di mercato rispetto all'economia reale e dall'indebitamento generalizzato. Uno dei suoi effetti diretti è consistito nell'affidare il potere politico ai rappresentanti di Goldman Sachs e di Lehman Brothers. Ma nessuno di loro risolverà il problema, perché non esiste un meccanismo che consenta di aver ragione della crisi. Le bolle finanziarie, il credito di Stato e la macchina che stampa banconote, vale a dire la creazione di capitale-denaro fittizio, non possono più risolvere il problema della desostanzializzazione generalizzata del Capitale.
Sia che ci si diriga verso un'inflazione incontrollabile in assenza di qualsiasi reale valorizzazione — trattando l'attuale crisi di solvibilità come una crisi di liquidità — sia che si vada verso un generalizzato default nei pagamenti, tutto ciò non può che finire con un terremoto.
In un'epoca come la nostra, ci sono solo quattro tipi di uomini. Ci sono coloro che, del tutto consapevolmente, vogliono che ci si infili sempre più lontano nel caos e nella notte. Ci sono quelli che, volontariamente o no, sono sempre pronti a subire. Ci sono i diplodochi reazionari, che vivono la situazione attuale sul registro della deplorazione. Fra geremiadi e commemorazioni, credono di poter far tornare il vecchio ordine, ragion per cui non fanno altro che registrare sconfitte. Infine, ci sono coloro che vogliono un nuovo inizio. Quelli che vivono nella notte ma non sono della notte, poiché vogliono ritrovare la luce. Quelli che sanno che al di sopra del reale c'è il possibile. A loro piace citare George Orwell: «In un'epoca di universale disonestà, dire la verità è un atto rivoluzionario».

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45665

Hesperia

mercoledì 5 marzo 2014

Sorrentino, una Bellezza senza Verità


Ierisera ho visto in tv "La Grande Bellezza" di Paolo Sorrentino, appena reduce da  Oscar, un titolo accattivante buono per essere tradotto in tutte le lingue (The Great Beauty, La grande Beauté, Die Grosser Schoenheit ecc). Volendo essere pignoli, la bellezza quando c'è  per davvero non ha bisogno di aggettivi, ma tra le tante ipotesi che si fanno sul titolo del film, è evidente che il riferimento  principale è alla Diva Roma. La trama-racconto è volutamente disarticolata e procede per epifanie visive a sprazzi e a sbalzi. Uno dei difetti principali che rimprovero al regista è  quello di un auto compiacimento estetizzante che indugia sulle cose: lunghe carrellate su monumenti, chiese, cupole, colonnati, palazzi signorili, fontane e fontanili, giardini patrizi, quasi fosse una sorta di campionario entro il quale si agitano vite sospese senza  nessun apparente scopo che non sia quello di oziare e di divertirsi, da una terrazza romana all'altra. 
Recensioni su questo film, già in circolazione dal 2013, ce ne sono a iosa: sia PRO che CONTRO. Perciò mi limito qui a fornire alcune note critiche sulla ricaduta di questo film  nella società italiana in questo tragico periodo.
Storia di un 65enne, Jep Gambardella che abita in una lussuosa casa con vista sul Colosseo e che sembra rispondere perfettamente all'aforisma di Pavese: si è giovani una volta solo, si è immaturi sempre. Sì, perché alle feste nelle case ci siamo andati tutti quanti qualche volta nella vita, ma lo si fa soprattutto quando si è giovani. Poi  col tempo e  la maturità, diventa un divertimento vacuo, noioso e finisce col non divertire nemmeno più. Se un personaggio dell'età di Gambardella (una specie di cronista un po' stranito alla Lino Jannuzzi , giornalista di L'Espresso che fu noto donnaiolo anni '60,  )  lo trapianti a Bergamo e lo metti nelle case a ballare "i trenini" ("quelli che non vanno da nessuna parte"), con musica  che rimbomba a tutto volume, ecco che chiamano subito l'ambulanza per il ricovero.  Ma a Roma, dove nacque il  motto latino panem et circenses è, a quanto pare,  uno stile di vita non solo consentito ma addirittura incoraggiato. Quel che narra Gambardella  della sua vita, lo  sintetizza egli stesso nella frase: "Volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire". Insomma, un deus ex machina della mondanità.

E ancora "Roma ti fa perdere un mucchio di tempo", motivo questo, per cui dopo un primo fortunato romanzo, non scrive più un rigo, se non istantanei articoli di cronaca mondana sui giornali - mestiere questo che gli procura moltissime  conoscenze ed inviti.

Ma Roma è diversa: non è Bergamo, Mantova, né Milano né altra città del Nord o del centro Italia. "Roma Godona", come dice dagospia, corrompe anche gli spiriti più  austeri e calvinisti. Figurarsi un Gambardella che proviene da Napoli! Peraltro si muove con disincanto e flemma partenopeo, quello che gli permette di sopravvivere in mezzo a questo magma in ebollizione di dive con Botox, di intellettuali che no, il Botox mai, ma poi si convertono al "ritocchino", di strani vescovi con poca fede ma  con l'hobby della cucina, di marchese, di contesse, di aspiranti star in cerca di ingaggi, di spogliarelliste fallite,  di nane, di cocainomani, di froci, di marchettari e chi più ne ha, più ne metta.
Una Roma bella e fatua, con una romanità trash e  monumenti che creano l'effetto Piranesi, il maestro incisore del '700 che dedicò tutta la vita a ricreare col "bulino" la magnificenza della grande architettura romana di ogni periodo storico, con una precisione  quasi maniacale e certosina. Ma ciò che sta accanto a ciascun monumento è il Nulla. Campi e terra incolta, pozzanghere accanto a Palazzi patrizi, erbacce e sterpaglie accanto a pietre antiche appena attraversate da un cane.
Eppure la Bellezza della città un po' santa e un po' meretrice, crea una sindrome di Stendhal fino ad uccidere, come si vede nella scena iniziale del giapponese stramazzato a terra, dopo averla fotografata: vedi Roma e poi muori.  Come Piranesi, anche Sorrentino ci mostra un mondo di rovine, di tetti, di colonnati di templi, di cupoloni, in mezzo ai quali però si agitano esseri umani, non più nel silenzio dell'artista veneto, ma nel chiasso della movida romana, dei gruppi di turisti in stile "Playtime" di J. Tati, di pseudoartisti che si sentono eternamente in scena anche quando non lo sono, di gente cinica e bara che mente per professione, mente per convenienza, ma mente soprattutto a sé stessa. Di scenografie da funerali preparate con la cura di un melodramma, di pranzi e cene, di buffet su terrazze spalancate sulla "Bellezza" della città eterna.
 Si è parlato molto di Fellini e il riferimento al maestro ispiratore l'ha fatta Sorrentino stesso durante il gala di premiazione all'Oscar. Ma il Fellini ripreso da Sorrentino,  diventa un "Fellini Hag" decaffeinato dall' onirismo, che poi è la vera cifra felliniana. Inoltre il gran maestro di Rimini, non faceva mai abuso di carrellate a vuoto sulle beltà, e pur rinunciando alla trama vera e propria, sapeva trovare l'immagine-chiave, la folgorazione "irripetibile" in grado di attraversare il tempo. Un esempio per tutte, la scena della fontana con la dea vichinga Ekberg insieme all'ammaliato  Marcello in La dolce vita.
O l'ultima scena con la virginale immagine di Valeria Ciangottini  sulla spiaggia che sembra spalancare la prospettiva di una nuova vita a un Marcello sempre più disilluso. Per trovare l'immagine davvero Bella, bisogna non eccedere in  immagini estetizzanti come fossero un catalogo, ma al contrario, economizzare.

Intendiamoci, il film di Sorrentino,  tutto sommato non è spiacevole e ha anche delle trovate sceniche riuscite (la  sagace redattrice nana di nome Dadina che sembra contrapporsi al modello americano della patinata Meryl Streep di "Il diavolo veste Prada"; gli artisti veri che si mescolano ai finti e che a differenza dei finti mostrano sobrietà e voglia di dileguarsi; gli interpreti tutti bravi, in primis Toni Servillo  che è una maschera di straordinaria teatralità). Ma non è nemmeno quel capolavoro mozzafiato che i media ci strombazzano in questi giorni.  Certo l'Oscar a un film italiano inorgoglisce, anche quando  si sa da sempre che questo premio, è un compromesso tra lobby, majors cinematografiche, occasioni di marketing prossime venture, nuovi mercati ecc. Ricevere l'imprimatur di un Academy Award, è importante per la carriera di un regista, ma non di per sé garanzia, (nemmeno per i prodotti cinematografici made in Usa) d' eccezionalità di un film. Sono comunque contenta per l'Italia, nonostante ci sia  un ma...

E' di questi giorni la notizia che l'Aspen Institute ha fatto un convegno dal titolo provocatorio "Italia Museo o occasione per investire? ". L'immagine che Sorrentino ha propagato col suo film è quello dell'Italia un po' museo, un po' Disneyland nel quale si balla freneticamente al ritmo di "A far l'amore comincia tu" di Raffaella Carrà sul Titanic  malfermo della crisi. Ovviamente quando a breve schiatterà  (il comune di Roma sta per andare in fallimento, tant'è  vero che hanno dovuto fare un decreto "salva Roma"  pro sindaco Marino),  gli ambienti d'Oltreatlantico, diranno che ben gli sta all'Italia che vive nel lusso e nello spreco, "al di sopra delle sue possibilità". Così ci terranno definitivamente ostaggi dello spread e dei cosiddetti "mercati finanziari".
Ma il punto è che  la faccia vera dell'Italia non si limita a  questo, caro Sorrentino. L'Italia di questi tempi è quella dei poveracci stremati da una crisi atroce che li ha costretti ai numerosi suicidi, a case pignorate, a fabbriche dismesse e in via di dismissione, a negozi che chiudono.  Nemmeno la stessa Roma fa eccezione a questa triste regola, visto che  la maggioranza dei romani non vive nel lusso né in mezzo alla nobiltà  papalina dei Colonna,  degli Orsini o dei Borghese.
Tanto per essere sospettosi, l'indugiare della videocamera sulle bellezze, potrebbe dar luogo ad una beauty list  già pronta per l'uso a beneficio  degli "investitori stranieri", in modo tale che "Vendesi Fontana di Trevi" alla fin fine non rimanga solo una gag di Totò. 
Intanto però gli stereotipi contro di noi si allargano. C'era una volta lo stereotipo "Italia, spaghetti, pizza, mandolino e mafia". Ora dopo l'era Sorrentino a cui la Fiat ha subito affidato uno spot pubblicitario sulla nuova Cinquecento chiamandola "la piccola grande bellezza" (la grande Marchetta, ironizzano i siti satirici), avremo altri stereotipi aggiornati per l'uso: Bellezza, long drinks, ozio, e feste orgiastiche Cafonal, alla faccia della crisi che ci attanaglia, vista  quasi come un castigo meritato ex aequo con Grecia a Spagna. Sodoma  delenda est. E' un copione già scritto che viaggia per il mondo.
Curioso che quando eravamo in fase di ricostruzione e  di sviluppo economico, i registi del cinema neorealista facessero film particolarmente mesti sulle condizioni miserabili di vita degli ultimi (Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, ecc. ), tanto che l'allora ministro dello spettacolo Andreotti sconsigliò  cineasti e produttori dal continuare a deprimere il morale delle gente con film da lui giudicati "disfattisti".  Mentre oggi invece che viviamo una crisi più feroce del '29, ci sia chi ha voglia di darci il narcotico dell'effimero e dell'evasione, come se intorno nulla fosse davvero accaduto. Vale la pena di soffermarsi su questo strano fenomeno e sui diversi ruoli della cosiddetta "opposizione" di allora come di oggi. Allora c'era il PCI che influenzava prepotentemente gli intellettuali dell'era "neorealista" con Cinecittà, in pratica una sua roccaforte. Ma l'opposizione di una volta è oggi  al potere, pertanto non ha più  interesse a "svegliare" la gente attraverso uno strumento efficace e di grande impatto  propagandistico nel mondo qual è il cinema.
 Per ciò che mi riguarda, resto in attesa di un John Ford italiano che ci racconti il suo legittimo "Furore" per questa sfida brutale da cui non sappiamo nemmeno  quando e come ne usciremo vivi. Mai come oggi è necessario che  il Bello sappia coniugarsi al Vero.
Bellezza e Verità non sono pertanto due concetti antitetici.

Hesperia