lunedì 31 marzo 2008

Bon ton e umorismo


In questi giorni Egle non riesce a stare sdraiata nel Giardino...Incombenze varie la occupano, ma
é da un po' che riflette sui modi e le maniere della gente nei giorni nostri.
Parlo sempre, naturalmente, guardando all'Occidente.

C'é una tale maleducazione in giro, e una maleducazione ostentata, di cui alcuni vanno persino fieri, che mi vengono in mente spesso due libretti che erano negli scaffali della casa della mia infanzia.

Uno era il "Saper vivere" di Donna Letizia, cioé Colette Rosselli e l'altro, Il Signore di buona famiglia di Giuseppe Novello.

Il Saper Vivere era consultabile a piacere, quando ci si doveva vestire, quando si avevano ospiti e in altre circostanze come matrimoni, funerali, battesimi..

Era una società borghese a cui nessuno aveva ancora detto che era una società cattivissima e sfruttatrice. La gente ambiva allo status borghese e alle buone maniere che la caratterizzavano.
Le buone maniere volevano anche dire rispetto per tutti, dal ricco al povero, dal principe allo stalliere. La borghesia ambiva all'aristocrazia.
I difetti e i vizietti di quel mondo erano magnificamente illustrati da Giuseppe Novello, umorista grafico magistrale.
Non faceva satira politica e faceva divertire senza alcuna volgarità.

A una prima occhiata sembrerebbe un mondo schiavo delle formalità, ma se si guarda meglio, si osserva una società che cercava semplicemente di dare un ordine grazioso all'esistenza.

Oggi, dopo la "livella" degli anni 70, e in seguito, la globalizzazione dei costumi, non si sa piu' a cosa servivano quelle regole.

Su questo sito si possono vedere molto bene
le vignette di Novello

mercoledì 26 marzo 2008

Scandalo al cinema

Fin dagli albori il cinema ha fatto scandalo, o meglio “è stato” scandalo: ogni gesto della vita, fissato sulla pellicola, prende corpo, si fa carne e sangue, infiamma la vista e fa abbassare lo sguardo. Là dove la letteratura suggerisce il cinema mostra, trasformando in atto visibile e reale, la seduzione, l’erotismo, il sesso o la crudeltà e la violenza. Dà corpo al sublime, ma anche alle abiezioni dell’animo umano. Motivo per cui, spesso, le forbici della censura hanno tagliato impietosamente capolavori indimenticabili.
L’epoca del muto fu ancora una “zona franca”, al punto da lasciar passare le “ divagazioni” erotico-feticiste di Bunuel (autore di uno dei film più contestati della storia: L’age d’or) e le orge di nudi di Von Stroheim (Femmine Folli, Marcia nuziale).
Negli anni trenta sul cinema calò la “mannaia” del Codice Hays, dal nome del suo creatore Will H. Hays, il Production Code, una serie di linee-guida che per molti decenni ha falcidiato le produzioni Usa. Dobbiamo a lui, per esempio, il fatto che fino agli anni sessanta, anche i coniugi dormissero in letti separati, per scongiurare qualsiasi allusione al sesso, anche se coniugale.
Eppure, quelle severissime censure stimolavano la fantasia dei registi, costringendoli a ingegnarsi per rendere una scena quanto più sensuale possibile senza violare il “comune senso del pudore” e le ritorsioni dei censori. Penso siano nate così sequenze indimenticabili della storia del cinema. Quelle in cui non si vede niente, ma ciò che i gesti e gli sguardi suggeriscono va oltre ogni immaginazione: la T-shirt bianca e sudata di Marlon Brando in “Un tram che si chiama desiderio”, il lecca-lecca di Lolita, , i corpi che si rotolano sulla sabbia in Zabrisky Point, le calze nere di Laura Antonelli in Malizia, Richard Gere che fa ginnastica in American Gigolò, la corsa a tre in Jules&Jim…

André Bazin, fondatore dei prestigiosissimi "Cahiers du Cinèma" e padre teorico-spirituale dei registi della "Nouvelle Vague" era sostenitore del principio secondo il quale il cinema può dire tutto ma non mostrare tutto: “Come la morte, l'amore si vive e non si rappresenta, non è senza ragione che lo si chiama piccola morte, o almeno non lo si rappresenta senza violazione della sua natura. Questa violazione si chiama oscenità”.
Concetto che condivido in toto. Difficile, infatti, coi tempi che corrono, parlare di vero e sano erotismo nel cinema, facile parlare di pornografia (che con l’erotismo ha ben poco da spartire), si è passati dalla rappresentazione della tensione emotiva dell’erotismo alla semplice concatenazione di atti sessuali di ogni tipo legati da un labile filo narrativo, dove l’atto stesso è protagonista insieme al corpo dell’attore/attrice. Niente di meno erotico.
Un infelice esempio di tale degrado è rappresentato dal “cinema” di Tinto Brass autore di film falsamente scandalosi (quelli di ieri) e “ginecologici” (ipse dixit) quelli di oggi. Film che non esaltano l'erotismo, ma lo sviliscono, perchè banalmente e insopportabilmente "pruriginosi".

Aretusa



venerdì 21 marzo 2008

Risvegli di Primavera

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino
Eran d'intorno violette e gigli
fra l'erba verde, e vaghi fior novelli
azzurri gialli candidi e vermigli:
ond'io porsi la mano a côr di quelli
per adornar e' mie' biondi capelli
e cinger di grillanda el vago crino.
Ma poi ch'i' ebbi pien di fiori un lembo,
vidi le rose e non pur d'un colore:
io colsi allor per empir tutto el grembo,
perch'era sì soave il loro odore
che tutto mi senti' destar el core
di dolce voglia e d'un piacer divino.
I' posi mente: quelle rose allora
mai non vi potre' dir quant'eran belle;
quale scoppiava della boccia ancora;
qual'eron un po' passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: «Va', co' di quelle
che più vedi fiorite in sullo spino».
Quando la rosa ogni suo' foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a metter in ghirlande,
prima che la sua bellezza sia fuggita:
sicché fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino

Angelo Poliziano (XV secolo)


Un augurio Pasquale, primaverile e per propiziare la natura e i suoi indispensabili risvegli.






lunedì 17 marzo 2008

La carne, la morte e il diavolo

Il critico come artista? In Italia è merce rara, ma qualcuno esiste. E resiste. Bisogna però risalire al 1931 allorché il geniale critico Mario Praz, sconvolse tutti gli accademici e letterati italiani con un saggio davvero inconsueto per com'era strutturato, il cui titolo un po' biblico, un po' apocalittico è "La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica". E quando leggo saggi e opere straniere dove questo interessante critico viene ripreso, citato e ricitato, sono presa da orgoglio nazionale. Detta opera poco ortodossa e fortemente osteggiata da Benedetto Croce per il suo non assoggettamento alla Dea Storia, ha ottenuto (e ottiene ancor oggi) un grande successo nei paesi anglofoni, tradotta col titolo "The Romantic Agony", e continua ad essere studiato con rinnovato interesse da intere generazioni di studenti universitari italiani e stranieri . Fu strutturata come i labirinti di Edgar Allan Poe ne "La caduta di casa Usher". Quasi un gioco a incastri e cunicoli. Ma la cosa più interessante è che la grande letteratura e quella minore e popolare (il cosiddetto feuilleton) vi convivono a vicenda e con pari dignità. Poiché non è lo studio astratto della letteratura romantica (della prima e seconda metà Ottocento) a interessare questo grande critico-artista. Ma la letteratura intesa come esperienza di vita, con il suo studio dei tipi psicologici (le dramatis personae). Per cui Praz , ci parla tanto di Flaubert in Salambò quanto de "I misteri di Parigi" di Eugène Sue. Di romanzi, poesie e racconti così come di dipinti e pitture famosi : Gustave Moreau (nella foto piccola a destra), Khnopff (foto in alto a sinistra), Beardsley, Dante Gabriel Rossetti, Klimt ecc. Di grande suggestione, il capitolo dedicato alla Belle Dame Sans Merci (la bella signora senza pietà - la famosa ode di John Keats ) dove analizza tutte gli archetipi femminili della letteratura, relativi a femmes fatales, dark ladies, allumeuses.
Ma chi sono les femmes fatales? Sono i prodotti della bellezza medusea, ovvero la "bellezza intorbidata" con elementi di corruzione per usare le sue parole, già presente in molti dipinti nordici del '500-600. Si tratta di figure femminili, che trattenendo in sé le cariche erotiche e affettive che ricevono, si illuminano fino a diventare idoli irraggiungibili. Da Elena, a Pandora; dalla Circe di Omero, alla maga Alcina di Ariosto e Armida del Tasso, a Lady Macbeth di Shakespeare. Su su fino al '700 e alla perfida marchesa di Meurteil in "Le relazioni pericolose" di Laclos, all'angelo dissoluto Manon Lescaut di Prévost, e ovviamente ai protitpi di bellezza medusea gelida e viperina in Keats. Le dark ladies di Swinboune e di altre poesie inglesi. La Ligeia di Poe. Fino alla Salomé di Oscar Wilde, passando per la Cécily dei Misteri di Parigi e per l'incendiaria Cochita di "La donna e il burattino" di Pierre Louys o all'innocente-perversa Lulù di Wedekind ne "Il vaso di Pandora". Praz è influenzato nella sua ricerca, dall'estetica di Edmund Burke, sul Sublime che ci atterrisce e che nasce dall'Orrido. Il termine "sublime" viene infatti dal latino "sub lime": cioè "sotto il fango".


E chi è l'artista secondo la sua concezione? E' colui che distrae lo sguardo dalla natura in sé "orrida" simboleggiata dalla gorgone Medusa per portare a compimento la propria opera. L'arte è lo specchio di Perseo che serve a non guardare negli occhi direttamente la terribilità di Medusa, per non rimanerne pietrificati. Ma l'Orrido, immortalato su tela o nell'opera narrativa, diventa Sublime, grazie a questo gioco di specchi di immagini traslate. Per Praz l'arte è dunque shock of recognition. Potremmo dire che la grande arte è tutta misogina? Nella conceziona prazziana, necessariamente sì.
Una curiosità sull'uomo Mario Praz, inauguratore del binomio Bellezza-Bizzaria, il quale ci ha lasciato a Roma la sua grande casa-museo a Palazzo Primoli, piena di cunicoli, corridoi, dipinti, arazzi e arredi di inestimabile valore : un po' salotto di Dorian Gray, un po' Vittoriale dannunziano, un po' Casa Usher di Poe. Ecco il link relativo al Museo Praz e alla piantina della casa. http://www.museopraz.beniculturali.it/
La vita (la sua) imita l'arte molto più di quanto l'arte non imiti la vita. Praz, il prazzismo e aggettivi creati a misura sua come "prazzesco" è un personaggio legato a quell'inattuale sempre attuale di cui si sente tanto la nostalgia. Ebbe, oltretutto, la fortuna di non essere stato fascista né antifascista, preso com'era a salvare la Bellezza dalla corrosione del tempo. Una sorta di aristocratico Des Esseintes (il capostipite degli eroi decadenti uscito dalla fantasia di J.K.Huysmans) che ha vissuto eternamente à rebours (a ritroso).
(Hesperia)

martedì 11 marzo 2008

Musica per ariano solo



Johannes Brahms (1833-1897): Ein Deutsches Requiem Op. 45
Baritono - Bryn Terfel, Soprano - Barbara Bonney, Direttore - Claudio Abbado. Berliner Philharmoniker - Swedish Radio Choir, Eric Ericson Chamber Choir.

Anche solo l'accennare ad un argomento come questo sara' presto materia da codice penale in tutto il "mondo libero", nondimeno mi ci provo senza troppo approfondire.

Che io sappia, non e' ancora accaduto che il responsabile di un esecuzione del Deutsches Requiem di Johannes Brahms, come quella nel video, sia stato accusato di razzismo per non aver incluso nell'organico di coro e orchestra un'eguale percentuale di persone di colore, o di discriminazione sessuale per aver rifiutato di inserire una soprano tra i bassi del coro in obbedienza al dogma delle pari opportunita', ma probabilmente accadra' presto; o forse e' gia' accaduto e m'e' sfuggito, il che non mi stupirebbe affatto. Di come possa trovarsi bene una signora dalla voce acuta tra le voci gravi maschili e di quanto questa possa amalgamarsi con quelle, credo che nessuno ne dubitera', ma del fatto che un sudamericano o un africano possano aggiungere solo un apparenza di colore tra i visi pallidi, credo siano molti ad esserne certi. Mentre in relta' e' il "suono" stesso che cambia, ma quel che piu' conta e' l"ethos" che ne fa maggiormente le spese.

Infatti si considera ormai l'arte (del passato) "patrimonio dell'umanita'" e "universale", ma questa non e' mai nata nell'iperuranio ed ha caratteristiche specifiche direttamente collocabili nel tempo e nello spazio. La musica di Bach e' distante da quella di Brahms in ragione degli anni che separano i due autori, ma la musica di Bach e' diversa da quella di Vivaldi in quanto allo spazio fisico e ai diversi costumi nazionali, sebbene i due fossero coevi. E non si tratta solo di due individualita' differenti, ma di due individualita' calate in due culture a loro volta differenti. In definitiva sono piu' vicini i tedeschi Bach e Brahms, o i coevi Bach e Vivaldi? Certo, da un punto di vista stilistico i due coevi sono piu' vicini, ma e' innegabile che l'opera di Brahms nasce anche dall'eredita' accettata dell'opera di Bach e il concetto stesso di nazionalita' si basa sulla tradizione. E che dire degli interpreti? quando un concerto di Vivaldi doveva essere eseguito in Germania bisognava istruire gli esecutori ad una prassi diversa da quella che era loro abituale. Questo capitava ad ogni volta che l'opera di una scuola nazionale doveva essere eseguita altrove. E si sprecano le "querelles" sulla supposta supremazia dell'una o dell'altra scuola, il che ci suggerisce una cosa sola: le culture erano profondamente diverse tra loro. Uomini diversi in quanto individui, ma diversi anche in quanto prodotti di usi e costumi diversi. E nell'antichita' nessuno veniva incarcerato se diceva che un francese e un tedesco erano diversi anche per "razza". Era un fatto comunemente accettato anche nell'ambito massonico che pure, era il piu' universalista fra tutti.

Nel (ahime') comune sentire di oggi, solo l'idea di assistere alla rappresentazione del "Requiem Tedesco" evoca immediatamente nella maggior parte dei non-tedeschi (ma anche in parte dei tedeschi stessi), il nazismo, anche se non c'entra niente, come del resto accade per ogni accenno, seppur'anche lato, alla Germania; per non parlare dell'opera di R. Wagner, la cui sola messa in cartellone provoca tumulti in alcuni Stati del mondo. Ebbene, chi scrive non sarebbe portato a definire questa situazione assolutamente normale. Come cio' sia potuto avvenire lo si indovinerebbe facilmente, solo ponendosi onestamente la domanda, ma si preferisce la rimozione correndo il rischio che S. Freud aveva ben previsto per questa pratica lavatrice del subconscio; e questo semplicemente perche' il rischio del porsi alcune domande sembra ancora molto piu' elevato che quello di non porsele.

Che lo si voglia o meno, i popoli nordici hanno conservata, nonostante la criminalizzazione post IIa GM, una fortissima coscienza di popolo, anche se esibita in modo molto riservato, e la rappresentazione musicale (extrema Thule del Sacro, ormai anch'essa violata) e' l'ultima occasione che essi hanno per farne mostra. Nei paesi del nord la pratica della musica d'assieme (quella corale su tutte) e' ancora molto diffusa, ma non si tratta solo di un fatto eminentemente culturale: e' un modo per esternare un sentimento di appartenenza. Infatti si puo' leggere nei visi degli esecutori la celebrazione della propria identita' nazionale, prima ancora che dell'ispirazione religiosa, ridotta quasi a mero pretesto. E questa ostentata appartenenza suscita spesso nei piu' sensibili contemporanei orrore e ribrezzo.

Perche' questo e' "male", anzi nella fattispecie, Male Assoluto. Ma, dato che se un Requiem viene denominato "tedesco", ci sara' pure una ragione, e' assai probabile che una compagine nordica sia in grado di eseguirlo meglio di quanto non potrebbe fare un'altra mediterranea o australe.

Questo lo capisce al volo chi abbia mai fatta musica d'assieme, pratica nella quale si stabilisce un'intesa segreta tra tutti gli esecutori; un'intesa che obbedisce ad un ethos molto particolare e, come da termine, assolutamente impalpabile e sfuggente, ma nondimeno percepita come reale. Provate, ammesso che mai ci riusciate, a far recitare il Padre Nostro ad un'assemblea di monaci tibetani ed ascoltatene con attenzione il risultato. Ebbene, qualcosa di molto simile lo sperimenteranno i posteri quando ascolteranno un'opera come questa. Per quanto potranno essere studiosi e attenti, avranno perso irrimediabilmente un patrimonio che nel passato si tramandava di padre in figlio e che nessuna educazione esterna riuscira' mai a rendere loro.

Si ha un bel voglia a dire che "siamo tutti uguali", ma le differenze si vedono e non consistono solo nel colore della pelle, dei capelli, nel naso a patata o la statura. Le sole concezioni letteraria e musicale portano gia' un marchio ben preciso e sono il frutto di un'elaborazione culturale che e' avvenuta in un ambito etnico prevalente: unico e irripetibile. Quella "diversita' biologica" tanto apprezzata in agricoltura diviene sacrilegio se applicata alla specie umana.

A meno che non si pensi fermamente che Goethe sarebbe stato ancora Goethe se fosse nato e vissuto ai tropici, sarebbe facile capirne il perche'. Una volta tanto riflettiamo anche su questo aspetto, volutamente demonizzato dalla cultura corrente, perche' fra non molto il patrimonio del passato sara' del tutto inintelligibile per le generazioni future che saranno totalmente prive di ogni identita'. E, osservando l'oggi potremmo gia' dire, senza averne guadagnato nulla in umanita'.

J. Brahms

Ein Deutsches Requiem

sabato 8 marzo 2008

Il piacere di abitare


Questa é la foto di una grande città del NordAmerica e, come le altre, ha un profilo (skyline)che si lancia verso l'alto, sfruttando in altezza lo spazio e limitando in questo modo gli spostamenti nei centri delle città.
Nelle città nordamericane si vive preferibilmente nelle banlieues, nei dintorni, e i quartieri residenziali sono carini, ben tenuti e tranquilli. Le zone commerciali e industriali son generalmente ben delimitate, distanti dalle abitazioni.





Lo sviluppo delle nostre città italiane dell'epoca moderna, invece, é stato alquanto disordinato e disomogeneo.
Dagli anni sessanta si é cominciato a costruire senza alcun rispetto per l'ambiente e lo stile locale, e sono spuntati edifici bruttissimi che bisognerebbe abbattere. Abbiamo costretto la gente a vivere in locali ristretti, in condominii come alveari che suscitano l'aggressività di chi é costretto a condividere spazi irrinunciabili.



Pensare che nel passato in Italia i paesini, anche quelli piu' poveri, erano costruiti artigianalmente, con semplicità e a misura d'uomo-pedone.
Mi riferisco ai villaggi dei pescatori come Portofino o Positano. Non parlo delle città d'arte che si arricchirono di magnifici Palazzi, e neppure di cio'che resta delle architetture greco-romane, ma solo dell'Italia dei paesini, quelli con la piazza centrale, la Chiesa, la fontana.



Nelle città nordamericane non esiste il centro. Si', lo chiamano cosi', ma non é come lo intendiamo noi. É un insieme di strade, dei servizi come il municipio, ma....la piazza? Non c'é.
Non c'é il concetto di piazza. Fa parte dello stile di vita italiano e non le hanno previste.
Ultimamente ne hanno create all'interno dei grandi Centri Commerciali, spesso l'unico luogo di svago di molte cittadine. E tutto é costruito a misura di...automobile.
É imperativo il parcheggio e la possibilità di arrivare con l'auto sino alla
É anche vero che oggi stanno iniziando a rendere pedonabili certe strade piu' vecchie, le abbelliscono e ci mettono le boutiques, ma é cosa limitata a cittadine piu'..turistiche.

La vita si svolge all'interno molto di piu' che in Italia, per questo amano abitare in case
confortevoli di cui curano amorevolmente sopratutto la facciata e coltivano sogni e invenzioni
nei loro garage o nelle loro cantine attrezzatissime.

lunedì 3 marzo 2008

Anche la fotografia è arte

In passato un’opera d’arte per essere considerata tale aveva canoni ben precisi.
Oggi si dice che se “una bottiglia di latte entra dentro un museo diventa immediatamente un'opera d'arte”, questo perché l’arte contemporanea si avvale di mezzi diversi per esprimersi, uno dei quali è appunto la fotografia, anzi è proprio grazie ad essa, che ritrae perfettamente il mondo circostante, che la pittura ha potuto abbandonare la riproduzione minuziosa della realtà, per esprimersi in altre forme più fantasiose.
Gli impressionisti, per esempio, analizzavano i rapporti variabili di luce all’interno della natura con l’ausilio di una macchina fotografica, per ottenere in seguito, nelle loro opere, una migliore resa dell’atmosfera.
Il modo d’intendere la fotografia una forma d’arte, iniziò quindi nel 1890, raggiunse il suo apice nel 1910 e si diffuse in tutto il mondo, ma soprattutto in Francia, patria dell’impressionismo.
Luis Ducon du Hauron ideò nel 1889 un dispositivo per ottenere il cosiddetto “trasformismo” in fotografia (immagini alterate da specchi deformanti), che però non piacque al pubblico.
A questo link, potete leggere un interessante saggio sulle connessioni fra arte pittorica e fotografia fin dagli albori della seconda.
Non è facile stabilire quando la fotografia diventa arte, e non è detto che sia appannaggio solo dei grandi fotografi, vi sono al mondo dei fotografi dilettanti che scattano fotografie meravigliose.
Ed è questo il grande pregio della fotografia, il poter esprimere il proprio estro artistico, anche se non si conoscono nozioni tecniche complicate.
Chi non ha mai provato a “rubare” alla natura la sua grande maestria di pittrice di se’ stessa?
In ogni modo, per avvicinarsi all’arte, dietro alla fotografia ci dev’essere un pensiero. Deve esprimere, cioè un concetto, sociale, politico, legato al tempo in cui stiamo vivendo, inquinamento, povertà, opere umane, forze della natura, ecc. tutto può essere filtrato dall’obiettivo e può trasformarsi in arte, basta che dietro ci sia “un pensiero”.
In questo senso illuminante è la storia di una fotografa americana, Nan Golding, segnata dal suicidio della sorella, è proprio fotografando la sua famiglia e gli amici punk drogati e disperati che ha iniziato il suo lavoro fotografico, rimasto ignorato per molto anni.

Nan era poverissima, poi un giorno, qualcuno si è accorto della sua bravura perché lei, Nan Golding, era dentro il “mondo” che descriveva, la sua opera è inseparabile dalla sua vita.
Il
Whitney Museum of American Art, un museo di arte contemporanea americana di New York ha realizzato una mostra su un book di sue fotografie. Nan Golding, oggi, vende moltissimo, dopo essere stata poverissima per tutta la vita. Questo perché lei ha raccontato, dal di dentro e molto bene, (senza sapere niente di storia della fotografia, dell'arte, della composizione) il mondo “estremo” in cui viveva. Oggi le sue fotografie costano cifre da capogiro, e pur non pensando minimamente di fare arte, Nan Golding è arte, perché è dentro un museo.










Francesco Cito, Corleone, 1989


















Antonio Biasucci, Fango stampa Lambda ai sali d'argento su alluminio



















Rebecca Norris Webb, Veracruz, Mexico, 2003

















Isabel Muñoz, Torso d'uomo con ornamenti di fango


Isabel Muñoz, Maschio nero rannicchiato su se stesso a braccia incrociate
Aretusa