Più che per le opere è per la biografia che il nome di Matilde Serao viene, talvolta, ancora ricordato. In effetti, il carattere intrepido ed esuberante della scrittrice napoletana, capace di conquistare e mantenere a lungo posizioni di grande responsabilità nella stampa e nella letteratura in tempi difficilissimi per le rappresentanti del genere femminile, sembra fatto apposta per suscitare ammirazione. Ma relegandola nel ruolo esclusivo di regina del paleo-femminismo si fa un grande torto a una donna che invece merita di essere ricordata soprattutto per ciò che ha scritto.
Matilde Serao si considerava in primo luogo una giornalista e i suoi romanzi traevano spesso ispirazione dall’acuta osservazione delle virtù ma soprattutto dei vizi del popolo napoletano su cui basava tanti suoi articoli. Il paese di cuccagna, uscito a puntate nel 1890 su “Il Mattino” di Napoli e immediatamente pubblicato dalla milanese Treves, che a quel tempo era la maggiore casa editrice italiana, fa tesoro della sua lunga inchiesta Il ventre di Napoli, apparsa nel 1884 sul “Capitan Fracassa”. Le gioiose atmosfere e gli affascinanti colori della città partenopea, così sapientemente descritti nel romanzo, non nascondono i mali gravissimi che più di un secolo fa affliggevano la città partenopea e che sono più o meno gli stessi di oggi. Tra questi mali emerge l’abitudine di disperdere le più belle energie in cose di poco conto e assolutamente improduttive, almeno per l’epoca. Rassegnati e fatalisti, pronti ad affidare le loro sorti al gioco del lotto piuttosto che a un qualsiasi progetto costruttivo, i napoletani riescono ad animarsi fino allo spasimo e si indebitano fino a rischiare la bancarotta solo quando si tratta di ben figurare nel carnevale, la festa più effimera e caotica dell’intero calendario. Matilde prima osserva e descrive attentamente il comportamento dei suoi conterranei: “Dai primi di gennaio Napoli era stata presa da una smania di lavoro che si diffondeva da una bottega all’altra, da una casa all’altra, di strada in strada, di quartiere in quartiere, dalla regione nobile a quella popolare, con un movimento continuo, ascendente e discendente. Dagli stabilimenti agli opifici usciva più forte il rumore delle seghe, delle pialle, dei martelli…” Poi non risparmia loro il più severo dei giudizi quando spiega il motivo di tanta inusuale alacrità: “La grande città si era data a quell’impetuosa e gioconda fatica, non per amore del lavoro in sé, per quel lavoro che è causa e conseguenza di benessere, che è, in sé, fondamento di bontà e decoro, la grande città non si era abbandonata a quella fervente attività per uno scopo immediatamente civile, miglioramento igienico o industriale, esposizione di arte o di commercio, trasformazione di vecchi quartieri o creazione di nuovi: era per il carnevale, soltanto pel carnevale, un carnevale decretato ufficialmente dal palazzo della Prefettura e da quello del municipio, un carnevale caldeggiato da comitati, commissioni, associazioni, messo su da mille persone, creato e realizzato come una grande istituzione e diffuso nello spirito di tutti i cinquecentomila abitanti…” Ma più avanti, e probabilmente suo malgrado, si fa prendere la mano e si fa coinvolgere dall’arrivo dei carri bizzarramente addobbati che scorrono come un fiume in piena nelle vie e nei corsi, sommersi dalla pioggia incessante dei fiori di carta, delle piccole bomboniere e dei mestoli di coriandoli che scendono dalle finestre dei piani alti senza soluzione di continuità, e si perde nell’ammirazione dei terrazzini situati più in basso che la fantasia del popolo ha trasformato in harem, in cucine, in improbabili casette giapponesi nel tentativo di dar vita a qualcosa di memorabile, possibilmente di unico per suscitare l’altrui meraviglia. Lo fa con tanto calore e tanti colori da farci rimpiangere di non poter più assistere alla rappresentazione di uno di quegli antichi carnevali napoletani che per fantasia e sfoggio del superfluo non dovevano aver proprio nulla da invidiare a quelli più famosi dei nostri giorni.
La Serao dimostra altrettanta efficacia nelle opere in cui porta in scena i personaggi del mondo, da lei ben conosciuto, delle redazioni, come quel Riccardo Joanna, protagonista del romanzo I capelli di Sansone. Questo azzimato giornalista è il prototipo della razza, fortunatamente estinta, degli intellettuali dandy che alla fine dell’Ottocento godevano del favore delle donne belle e frivole che popolavano i migliori salotti della capitale. Spontanea e poco incline alle smancerie, Matilde doveva trovare insopportabile questo genere di giovanotti effemminati, sempre pronti a sciogliersi in languori, e ce lo mostra impietosamente mentre gira a bordo d’una carrozza presa a nolo nella disperata quanto vana ricerca di qualche conoscente disposto a prestargli le mille lire che gli servono per evitare il protesto d’una cambiale, in scadenza per l’indomani. Le sue tasche sono drammaticamente vuote e non sa neppure come pagare il conto del vetturino che cresce di ora in ora. Ma l’ansia che l’attanaglia non è sufficiente ad impedirgli di compiacere il suo narcisismo smisurato; infatti, è sempre pronto a dimenticare per qualche istante i suoi guai per corteggiare le signore che incontra lungo il suo angoscioso pellegrinare. Di tutte queste belle donne, regolarmente sposate, egli si dice perdutamente innamorato.
Sempre aggiornata e partecipe della vita intellettuale, Matilde non disdegna di trarre ispirazione dalle mode letterarie del suo tempo. La protagonista de La virtù di Cecchina è una piccola borghese che assomiglia tanto alla Madame Bovary magistralmente raccontata da Flaubert. Ma la mancanza di originalità del soggetto non toglie nulla all’imprevedibilità con cui ella sviluppa la vicenda, fino al suo malinconico ma soprattutto ridicolo epilogo. C’è una certa sottile perfidia femminile nel ritrarre questa donna frustrata, pronta a tutto per soddisfare i suoi desideri, che poi torna indietro e rinuncia all’adulterio semplicemente perché spaventata dall’aspetto truce del portinaio installato all’ingresso del palazzo in cui risiede l’uomo che dovrebbe diventare il suo amante: “Ma sulla soglia, sbarrando la metà dell’entrata, appoggiato al muro, vi era il portinaio, un uomo alto e grosso, dalla faccia volgare e irsuta di peli bigi… Cecchina si fermò, senza osare attraversare la via. Per entrare nella porticina, bisognava domandare al portinaio di poter entrare, chiedergli se il marchese di Aragona era su… ella riunì tutte le sue forze per fare questo tentativo ma a mezza via si fermò di nuovo”. Ogni sforzo per vincere i suoi timori risulta vano e alla fine Cecchina, che pure aveva mentito a tutti e lottato contro ogni fattore avverso pur di concedersi l’agognata avventura, si arrende come una bambina spaventata davanti a quel viso brutto e irriverente, mentre la Serao non nasconde il proprio divertimento nel castigare la patetica borghesuccia.
Merita un cenno anche la scrittura, sanguigna, ricca di umori, popolare, ma non dimentica della lezione della miglior narrativa del passato e a lei contemporanea, di questa nostra scrittrice ingiustamente dimenticata.
Miriam
Matilde Serao si considerava in primo luogo una giornalista e i suoi romanzi traevano spesso ispirazione dall’acuta osservazione delle virtù ma soprattutto dei vizi del popolo napoletano su cui basava tanti suoi articoli. Il paese di cuccagna, uscito a puntate nel 1890 su “Il Mattino” di Napoli e immediatamente pubblicato dalla milanese Treves, che a quel tempo era la maggiore casa editrice italiana, fa tesoro della sua lunga inchiesta Il ventre di Napoli, apparsa nel 1884 sul “Capitan Fracassa”. Le gioiose atmosfere e gli affascinanti colori della città partenopea, così sapientemente descritti nel romanzo, non nascondono i mali gravissimi che più di un secolo fa affliggevano la città partenopea e che sono più o meno gli stessi di oggi. Tra questi mali emerge l’abitudine di disperdere le più belle energie in cose di poco conto e assolutamente improduttive, almeno per l’epoca. Rassegnati e fatalisti, pronti ad affidare le loro sorti al gioco del lotto piuttosto che a un qualsiasi progetto costruttivo, i napoletani riescono ad animarsi fino allo spasimo e si indebitano fino a rischiare la bancarotta solo quando si tratta di ben figurare nel carnevale, la festa più effimera e caotica dell’intero calendario. Matilde prima osserva e descrive attentamente il comportamento dei suoi conterranei: “Dai primi di gennaio Napoli era stata presa da una smania di lavoro che si diffondeva da una bottega all’altra, da una casa all’altra, di strada in strada, di quartiere in quartiere, dalla regione nobile a quella popolare, con un movimento continuo, ascendente e discendente. Dagli stabilimenti agli opifici usciva più forte il rumore delle seghe, delle pialle, dei martelli…” Poi non risparmia loro il più severo dei giudizi quando spiega il motivo di tanta inusuale alacrità: “La grande città si era data a quell’impetuosa e gioconda fatica, non per amore del lavoro in sé, per quel lavoro che è causa e conseguenza di benessere, che è, in sé, fondamento di bontà e decoro, la grande città non si era abbandonata a quella fervente attività per uno scopo immediatamente civile, miglioramento igienico o industriale, esposizione di arte o di commercio, trasformazione di vecchi quartieri o creazione di nuovi: era per il carnevale, soltanto pel carnevale, un carnevale decretato ufficialmente dal palazzo della Prefettura e da quello del municipio, un carnevale caldeggiato da comitati, commissioni, associazioni, messo su da mille persone, creato e realizzato come una grande istituzione e diffuso nello spirito di tutti i cinquecentomila abitanti…” Ma più avanti, e probabilmente suo malgrado, si fa prendere la mano e si fa coinvolgere dall’arrivo dei carri bizzarramente addobbati che scorrono come un fiume in piena nelle vie e nei corsi, sommersi dalla pioggia incessante dei fiori di carta, delle piccole bomboniere e dei mestoli di coriandoli che scendono dalle finestre dei piani alti senza soluzione di continuità, e si perde nell’ammirazione dei terrazzini situati più in basso che la fantasia del popolo ha trasformato in harem, in cucine, in improbabili casette giapponesi nel tentativo di dar vita a qualcosa di memorabile, possibilmente di unico per suscitare l’altrui meraviglia. Lo fa con tanto calore e tanti colori da farci rimpiangere di non poter più assistere alla rappresentazione di uno di quegli antichi carnevali napoletani che per fantasia e sfoggio del superfluo non dovevano aver proprio nulla da invidiare a quelli più famosi dei nostri giorni.
La Serao dimostra altrettanta efficacia nelle opere in cui porta in scena i personaggi del mondo, da lei ben conosciuto, delle redazioni, come quel Riccardo Joanna, protagonista del romanzo I capelli di Sansone. Questo azzimato giornalista è il prototipo della razza, fortunatamente estinta, degli intellettuali dandy che alla fine dell’Ottocento godevano del favore delle donne belle e frivole che popolavano i migliori salotti della capitale. Spontanea e poco incline alle smancerie, Matilde doveva trovare insopportabile questo genere di giovanotti effemminati, sempre pronti a sciogliersi in languori, e ce lo mostra impietosamente mentre gira a bordo d’una carrozza presa a nolo nella disperata quanto vana ricerca di qualche conoscente disposto a prestargli le mille lire che gli servono per evitare il protesto d’una cambiale, in scadenza per l’indomani. Le sue tasche sono drammaticamente vuote e non sa neppure come pagare il conto del vetturino che cresce di ora in ora. Ma l’ansia che l’attanaglia non è sufficiente ad impedirgli di compiacere il suo narcisismo smisurato; infatti, è sempre pronto a dimenticare per qualche istante i suoi guai per corteggiare le signore che incontra lungo il suo angoscioso pellegrinare. Di tutte queste belle donne, regolarmente sposate, egli si dice perdutamente innamorato.
Sempre aggiornata e partecipe della vita intellettuale, Matilde non disdegna di trarre ispirazione dalle mode letterarie del suo tempo. La protagonista de La virtù di Cecchina è una piccola borghese che assomiglia tanto alla Madame Bovary magistralmente raccontata da Flaubert. Ma la mancanza di originalità del soggetto non toglie nulla all’imprevedibilità con cui ella sviluppa la vicenda, fino al suo malinconico ma soprattutto ridicolo epilogo. C’è una certa sottile perfidia femminile nel ritrarre questa donna frustrata, pronta a tutto per soddisfare i suoi desideri, che poi torna indietro e rinuncia all’adulterio semplicemente perché spaventata dall’aspetto truce del portinaio installato all’ingresso del palazzo in cui risiede l’uomo che dovrebbe diventare il suo amante: “Ma sulla soglia, sbarrando la metà dell’entrata, appoggiato al muro, vi era il portinaio, un uomo alto e grosso, dalla faccia volgare e irsuta di peli bigi… Cecchina si fermò, senza osare attraversare la via. Per entrare nella porticina, bisognava domandare al portinaio di poter entrare, chiedergli se il marchese di Aragona era su… ella riunì tutte le sue forze per fare questo tentativo ma a mezza via si fermò di nuovo”. Ogni sforzo per vincere i suoi timori risulta vano e alla fine Cecchina, che pure aveva mentito a tutti e lottato contro ogni fattore avverso pur di concedersi l’agognata avventura, si arrende come una bambina spaventata davanti a quel viso brutto e irriverente, mentre la Serao non nasconde il proprio divertimento nel castigare la patetica borghesuccia.
Merita un cenno anche la scrittura, sanguigna, ricca di umori, popolare, ma non dimentica della lezione della miglior narrativa del passato e a lei contemporanea, di questa nostra scrittrice ingiustamente dimenticata.
Miriam
16 commenti:
Ottima scrittrice.
Nelle due opere che di lei ho letto, Il Ventre di Napoli e Il Paese di Cuccagna è racchiuso il meglio di questa sensibile scrittrice, che io ho adorato.
Vero che Matilde Serao, è una scrittrice da riscoprire. Puntuale ed esaustivo excursus dell'opera letteraria più significativa fatto da Miriam.
E' altresì vero che viene più ricordata come giornalista e in particolare come "direttrice" del "Corriere di Roma" che come romanziera. E che in questi ultimi anni, c'è stata e c'è una tendenza alla riscoperta di figure femminili della letteratura e della pubblicistica in chiave femminista, che a mio modesto parere risulta essere un po' riduttivo.
Vale però la pena di ricordare che di direttori dei giornali donne, allora non se ne vedevano in giro. E che in fondo anche oggi, non sono molte. Un saluto a Miriam
Confesso che, a parte "Il paese di cuccagna", letto un milione di anni fa e ampiamente dimenticato, della Serao so poco e nulla. Naturalmente non si può pretendere di leggere tutto, ma almeno dei libri che si hanno in casa non si dovrebbe trascurare la lettura. La nota di Miriam mi sollecita a rimediare alla (colpevole)lacuna.
Dionisio, a volte si legge più volentieri la letteratura straniera e si trascura la nostra. Forse è anche un po' colpa del marketing. In Francia sono molto più protezionisti, al riguardo.
E pensare che degli scrittori stranieri, in realtà leggiamo delle gran traduzioni; mentre dei nostri scrittori, leggiamo soprattutto la buona lingua italiana.
Ottimi commenti,
consiglio a tutti la lettura del "Paese di cuccagna" e "Il ventre di Napoli", i cui temi fondamentali furono poi ripresi da Giuseppe Marotta ne "L'Oro di Napoli" e da Luciano De Crescenzo in "Così parlò Bellavista". Per chi vuol conoscere il vero carattere dei "martoriati" napoletani, tutte queste sono opere fondamentali.
Josh ricorderà che in una certa occasione parlammo dei LOFT e dei BASSI DI NAPOLI. Ebbene, in tutte quelle opere si parla dei BASSI DI NAPOLI, vere e proprie scatole chiuse, spesso con una sola apertura verso l'esterno, che danno sulla famosa strada dei Rioni Spagnoli, dove si svolgeva (e credo si svolga parzialmente tuttora) la vera vita sociale dei napoletani meno abbienti.
In seguito a quel dibattito con Josh, effettuato all'interno delle pagine di questo blog, volevo dedicare un mio post ai BASSI DI NAPOLI, ma poi non ne feci nulla.
Matilde Serao, nel "Ventre di Napoli", descrive assai bene come vi si svolgeva la vita: un solo locale stretto e basso, e con un'unica apertura verso l'esterno, che faceva da tutto: cucina, soggiorno, camera a letto, bagno (si fa per dire).
Leggendo questo saggio della Serao si può comprendere anche il perchè i napoletani siano così molto legati ai Re d'Italia e perchè, nonostante ciò che affermano le malelingue, siano molto legati a Berlusconi, che vedano in lui la loro reincarnazione.
Per saperne di più, ho trovato questo sito sul Ventre di Napoli di Matilde Serao.
Miriam,
scrivendo che...
"Merita un cenno anche la scrittura, sanguigna, ricca di umori, popolare, ma non dimentica della lezione della miglior narrativa del passato e a lei contemporanea, di questa nostra scrittrice ingiustamente dimenticata"...
...hai scritto la miglior conclusione possibile per questa fine e sensibilissima scrittrice: basta leggere soltanto alcuni dei suoi brani, quelli riportati nel link di cui al commento qui sopra, per afferrare al volo la comprensione di tali concetti, "fine e sensibilissima".
Non posso quindi che concordare con te quando scrivi che è stata igiustamente dimenticata. Va inoltre ricordato che qualcuno l'ebbe candidata al Nobel, ma poi si preferì caldeggiare la candidatura di Grazia Deledda, che infatti lo vinse.
La scelta degli scrittori da leggere è naturale che obbedisca a criteri e gusti personali, che esulano dalla lingua di appartenenza (mi sembrerebbe assurdo poi invocare una sorta di protezionismo in questo settore, tanto più oggi che siamo globalizzati e il mondo è oggettivamente diventato - piaccia o non piaccia - un enorme villaggio dove regna la babele, d'accordo, ma dentro il quale stiamo stivati tutti a stretto contatto di gomito) e certo il lettore intelligente, che ha sviluppato un palato fine, non ha certo bisogno di affidarsi al marketing per decidere cosa leggere. E' altresì vero che tra gli scrittori considerati "minori" si possono trovare spesso delle opere interessanti, ma questo dipende anche dal fatto che davanti alla quasi desertificazione letteraria contemporanea (soprattutto italiana ma non solo)è facile rivalutare tanti scrittori del passato, i quali almeno conoscevano il mestiere.
Sto rileggendo la Serao e, a prima vista, benché apprezzabile (non solo perché conosceva il mestiere, naturalmente) penso che non possa paragonarsi alla Deledda, che, tra le nostre scrittrici, è certamente una delle più grandi (se non la più grande); almeno a parer mio.
Non mi hai capita, Dionisio.Volevo dire che conosco abbastanza bene la Francia per affermare che innanzitutto promuove e protegge la propria cultura, lingua, letteratura e perfino musica. E questo, alla faccia del "villaggio globale".Tanto per fare un esempio alla radio francese si ascoltano il 70% di canzoni francesi, e solo il 30% straniere. Che poi sono angloamericane. Perché è inutile confutare un dato imprescindibile: chi veicola più "cultura" e lingua sono le potenze egemoni. Il Grand Larousse aspetta 5 anni prima di inserire un neologismo inglese nelle enciclopedie della lingua francese. Saranno anche dei parrucconi, ma mostrano orgoglio, fierezza e spirito di resistenza. Noi no.
Scusami tanto, ma il mondo globalizzato non è una risorsa in più per la cultura (termine ormai troppo esteso e onnicomprensivo), semmai un impoverimento e una decomposizione. In particolare linguistica, tenuto conto che il buon italiano non si studia, non si insegna e non si impara più nemmeno a scuola. "Contaminazione" è diventato - chissà perché - quasi un valore aggiunto.
Un'ultima cosa: oggi c'è un nuovo termine che sembra essere diventato il nuovo "male assoluto": protezionismo. Chiediti perchè.
Prima gli artisti e gli scrittori erano a contatto tra di loro nel mondo senza bisogno del mercato, e si incontravano o si associavano per affinità nei loro luoghi di cui abbiamo già parlato in questo blog.
Purtroppo anche i cosiddetti "palati fini" non possono prescindere dall'invasività del marketing. Piaccia o non piaccia, la fa da padrone. Non voglio però andare OT.
Comunque sulla rilettura dei "minori" ti do ragione.
Odio il genere di globalizzazione intesa come torre di babele che ci stanno imponendo, e su questo non ci piove. Ma la letteratura, quella vera, non può avere confini; e chi ama la letteratura vera va a cercarla ovunque essa si trovi. Omero è greco? Dante è italiano? Shakespeare è inglese? Quando ci si trova di fronte a questi giganti (e anche a tutti gli altri che il mondo ha prodotto) non si pensa al luogo da cui provengono perché la loro opera è patrimonio di tutti quanti, almeno di coloro che sanno apprezzarla. E' questo che intendevo dire.
Quanto al fatto che in Italia non si apprezzi a sufficienza il grande patrimonio che abbiamo alle spalle (solo alle spalle perché, ripeto, il presente è quasi deserto di produzione letteraria di pregio e il futuro appare quanto mai incerto) dipende dal fatto che da svariati decenni la scuola analfabetizza e induce a non applicarsi veramente allo studio, e le ultime generazioni non hanno più gli strumenti per comprendere e amare quel patrimonio (generalmente parlando, si capisce, perché non tutti buttano il cervello alle ortiche e qualcuno capisce che per pensare di seguire le orme dei grandi del passato bisogna continuare a studiarli e ad applicarsi come essi hanno fatto per conseguire risultati degni di affiancarsi ai loro).
La Serao è stata una scrittrice di talento, certo legata al suo tempo e alla pratica giornalistica, come molti altri grandi autori napoletani, ma una donna fuori dal comune.
Ha segnato un'epoca per certi versi, e aperto un genere di 'romanzo verista' napoletano, con un colore e notazioni sue proprie.
Non so se la possiamo considerare così dimenticata, nè più nè meno di tanti altri e altre, io la studiai e la faccio studiare.
'Il ventre di napoli', 'Il paese di cuccagna' da voi citati sono già buoni testi, come gli altri citati nello stesso post.
Bisogna cercare bene ...per avere altra letteratura napoletana interessante, o più legata all'arte 'pura' che al giornalismo. Penso a Di Giacomo...ma anche all'iperrealista Mastriani...o in seguito Michele Prisco. Ugualmente la Serao è stata in qualche modo prodroma ad Anna Maria Ortese, una scrittrice molto originale, tormentata e complessa.
Ma il provenire dal giornalismo non significava non conoscere l'arte di scrivere alta, bensì saper trasfigurare la realtà, già fin troppo ben conosciuta. C'è anche da dire che con-intorno-dopo la Serao e grazie anche al suo esempio prende in qualche modo ufficialità una letteratura della Napoli postunitaria, che si sentiva espugnata dalla nuova Italia unita....Il realismo, l'approfondire le note di vero in questo genere di romanzo avevano anche il valore di reclamare un'identità che si avvertiva come rubata.
@Hesperia: leggendaria anche la fondazione del 'Mattino' e de 'Il Giorno'.
@Marshall: sì mi ricordo, ma saranno 2 o 3 anni fa la nostra equazione 'prima erano bassi napoletani, oggi du lampade de design e una scala postindustriale e son loft milionari' :-))
@Miriam: bella idea questa di rimpolpare i post con tante signore: La Mansfield, La Serao...così le Esperidi tornano femminili:-)
@Dionisio ed Hesperia che discutevano:-) :
Ottima idea riscoprire nostri Autori meno famosi.
Alcuni come accennavo sopra non è detto siano così poco famosi, dipende per che pubblico.
Per i licei e università letterari italiani (e anche esteri)sono pane quotidiano, nei programmi degli ultimi 25 anni ci sono, anche la Serao.
Una cosa dobbiamo rilevare anche: l'Italia non è stata propriamente la 'patria del romanzo', oggettivamente. Abbiamo buoni romanzi sì, ma...
non come lo sono state in modo specifico e magniloquente la Russia, la Francia, l'Inghilterra, ma anche la Germania, gli USA....
Intendo dire che non si tratta di avere avuto in Italia quasi solo autori minori, ma proprio pochi autori di romanzi rispetto agli altri paesi.
Di questo nelle vostre valutazioni scrittori italiani-scrittori esteri dovete tenere conto.
Unitamente alla storia recente d'Italia: unità raggiunta da pochi anni e non sempre avvertita, dopoguerra pesante con monopolio culturale etc
Poi per il resto è anche vero ciò che dice Hesperia:"chi veicola più "cultura" e lingua sono le potenze egemoni." Calzante l'esempio delle radio, per esempio o di diversa politica rispetto alla Francia.
Ma pure vero che in questo senso per certi versi abbiamo meno 'prodotti' esportabili almeno in certi periodi storici.
Mi spiace Dionisio, ma proprio non mi vuoi capire e spero che tu non me ne voglia visto, che non ti rivolge a me per nome.
"la letteratura, quella vera, non può avere confini; e chi ama la letteratura vera va a cercarla ovunque essa si trovi. Omero è greco? Dante è italiano? Shakespeare è inglese? Quando ci si trova di fronte a questi giganti (e anche a tutti gli altri che il mondo ha prodotto) non si pensa al luogo da cui provengono perché la loro opera è patrimonio di tutti quanti" .
Ma questa non è affatto "globalizzazione". Qui siamo nell'ambito di quell'universo fatto di affinità e di interazione delle culture che è sempre esistito in ambito artistico-letterario. Tutta l'arte vera tende all'universalità. E chi lo vuol negare? Verba volant e le idee pure.
Tuttavia - non puoi confutarlo - oggi in libreria estitono "prodotti" editoriali alla Dan Brown, alla Ken Follet e alla John Grisham che vengono tradotti, distribuiti, e veicolati in tutto il mondo, in un numero esorbitante di copie. E che esiste una lingua egemone, una cultura egemone, gruppi editoriali egemoni, non si può negare. Perfino le piccole librerie spariscono per fare post all'OUTLET del libro e alle grandi concentrazioni editoriali. E vuoi che tutto ciò non condizioni la letteratura e il suo modo di fruirla? Secondo me, sì.
Josh, vedo che tu hai capito perfettamente. Del resto c'è stato Céline che ha sempre fatto una battaglia durissima (ancorché perdente) contro la moda delle "traduzioni" dei best sellers.
Sono io forse che non mi faccio capire. La questione per me non sono i Ken Follet e simili, che per me sono autori di merce scadente e quindi neppure meritevoli di essere menzionati. Qui parliamo di letteratura vera, mi pare, non confondiamo le acque. Che poi questi autori di merce scadente siano comprati e letti (ovviamente da chi non è in grado di distinguere tra merce buona e merce scadente) perché esiste un mercato di questa roba gestita da gruppi potentissimi nessuno lo nega.
Josh, la tua notazione sul fatto che l'Italia abbia scarsi romanzieri rispetto agli altri paesi dell'Occidente è verissima. Infatti i nostri grandi, tra Ottocento e Novecento, si contano sulle dita di una mano o poco più, mentre tra i francesi, gli inglesi, i russi e, in parte, gli americani si contano a decine e decine. Anche per questo chi è appassionato di narrativa ha dovuto attingere alla produzione straniera. Con buona pace di chi, come Hesperia, vorrebbe che esaltassimo soprattutto i nostri prodotti.
"Con buona pace di chi, come Hesperia, vorrebbe che esaltassimo soprattutto i nostri prodotti".
Guarda che io non ho parlato di prodotti legati all'agroalimentare e sinceramente non capisco questa tua boria. Inutile continuare.
C'eravamo già spiegati in privato Dionisio, e come ho già scritto, disgraziatamente l'Internet non è il miglior mezzo per comunicare e capirsi. Ed è proprio l'Internet che ti ha fatto il dispettuccio informatico di farmi avere per due volte il tuo commento sull'account di google, ma curiosamente non compariva nel modulo del commento del Giardino. Così ho provveduto a farne un copiaincolla, io stessa.
Radiguet, è stato un vero genio precoce ma la sua fiamma è bruciata troppo in fretta. Da sempre, letteratura vuole dire lingua e cultura dei popoli. E in fondo lo stile,costante dell'arte di un individuo o di un gruppo di artisti, nella storia dell'arte serve per determinarne luogo di provenienza e datazione storica. Mi piace pensare all'accostamento dei termini stile-stilo. Cioè penna.
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