martedì 26 giugno 2012

Racconto d'estate (e delle 4 stagioni della vita)



Estate. Di film vacanzieri se ne vedono tanti, di film vacanzieri di buon gusto, ci sono solo i suoi, quelli di Eric Rohmer. Penso a  "Racconto d'estate" e mi viene in mente il personaggio introverso e insicuro dello studente Gaspard sulla spiaggia brettone di Dinard. Mi domando se col malgusto che imperversa oggi, si possano trovare tra i più giovani, degli amanti del cinema di Eric Rohmer, maestro dell’invisibilità e della discrezione. Eterno indeciso e dongiovanni suo malgrado,  Gaspard, trascorre le proprie serate solo in casa a comporre melodie alla chitarra, si ritrova diviso fra tre diverse ragazze: Léna (Aurelia Nolin), fidanzata assente e dal carattere volubile; Solène (Gwenaëlle Simon), spigliata e sicura di sé, con la quale il giovane intrattiene un breve flirt; ed infine Margot (Amanda Langlet, ex-quindicenne di “Pauline alla spiaggia”), che incarna il ruolo tipicamente rohmeriano della confidente del protagonista, dispensatrice di consigli nelle questioni di cuore ma, allo stesso tempo, attratta anche lei dal fascino ombroso di Gaspard. Attorno a questo quadrilatero, Rohmer tesse un malizioso intreccio di fugaci passioni estive e di tenere amicizie, descritte con un tono intimista abilissimo nel catturare i sentimenti, le insicurezze e le contraddizioni dei personaggi.
Per chi ancora avesse avuto qualche dubbio, “Racconto d’estate” costituisce l’ennesima conferma che nessun regista, quanto l’anziano Rohmer, ha saputo rappresentare con tale partecipazione e finezza psicologica la generazione dei ventenni: vulnerabili, egocentrici, impegnati nel difficile passaggio verso la maturità dell’età adulta. La leggerezza e l’ironia della narrazione racchiudono tuttavia un profondissimo senso di verità, che permette allo spettatore di immedesimarsi nelle vicende dei protagonisti e di condividere le loro emozioni. Non manca, come di consueto nel cinema rohmeriano, una lieve nota malinconica, qui affidata ad un finale in cui i dubbi di Gaspard – e gli scherzi del Caso – interromperanno questo delicato intreccio. (http://filmedvd.dvd.it/commedia/racconto-d-estate/)


Quanto al regista Rohmer, nato  a Nancy in Alsazia-Lorena nel 1920 e  spentosi all’età di 89 anni l’11 gennaio 2010, aveva un vezzo: non farsi riconoscere. Tant’è vero che andava a ritirare i premi in incognito come se fosse qualcun altro, anche in tarda età, con tanto di occhiali e baffi finti . Memorabile la sua lettera al Festival di Cannes “Signor Presidente, mi dispiace comunicarle che non ho intenzione di venire a Cannes né di tenere l’abituale conferenza stampa…”. Aggiungendo poi che la sua decisione era motivata egoisticamente da “semplici ragioni di convenienza personale”. Detestava infatti autopromuoversi “come un commesso viaggiatore”. Rohmer è  stato il contrario di quanto circola oggi:  il presenzialismo ad ogni costo tipico di una società di massa che reclama il suo quarto d’ora di gloria mediatica. L’invisibilità è la condizione essenziale dell’eleganza – diceva Cocteau, postulato fatto proprio da lui.  Non abbandonò mai l’insegnamento di letteratura francese in un liceo classico (ovvero l’anonimato), pur continuando a girare film.  La cifra del suo cinema è il rigore morale un po’ giansenista alleggerito da un tocco di grazia settecentesca. La tecnica del suo “girato” ce la spiega egli stesso in tre sequenze: campo-controcampo-cronologia.La sua estetica potrebbe essere “il faut absolument etre antimoderne”: l’esatto contrario del motto di  Rimbaud. Lo ha dimostrato mettendo in scena in un rigore classicistico ”La marchesa von O” di Kleist e “Perceval il gallese” di Chrétien de Troyes. Anche i film su stili di  vita di ragazze  moderne come “La collezionista” (1967) che esalta la grazia di Haydée Politoff e   ”Le notti della luna piena” (1984) con  la  giovane attrice Pascale Ogier scomparsa prematuramente, mantengono una distanza come se la contemporaneità  non  lo riguardasse. Il tutto, viene filtrato da un occhio smagato da entomologo dei comportamenti, senza mai essere freddo  né cinico. Nessun effetto speciale, niente  rivoluzionarismi nel montaggio e il prezioso apporto della nitida fotografia di Nestor Almendros, già fotografo di culto di Truffaut.


Haydée Politoff in una scena di La collezionista

La mia notte con Maud
Il suo vezzo  era non inserire quasi mai commenti musicali nei film, registrando invece i rumori della natura e  degli ambienti circostanti. Ad esempio, il frinio  delle cicale della Provenza e lo sciabordio delle acque in La collezionista (foto in alto)  o il fragore delle onde in "Racconto d'estate". Rohmer è un esponente essenziale di quella Nouvelle Vague dai film che a volte sembrano dei bozzetti  un po’ in fieri, da ritoccare. Amava infatti servirsi dei suoi attori per completare le sceneggiature (Haydée Politoff ne “La collezionista”, Marie Rivière in “Il raggio verde”, solo per fare alcuni esempi).  I finali dei suoi film sono quasi sempre sospesi o aperti. Inizia anche lui, come gli amici Chabrol, Rivette e Truffaut, da critico cinematografico dei prodigiosi Cahiers du Cinéma, prima di passare alla regia. Poi decine di titoli filmici suddivisi per  tema in Sei Racconti morali, Commedie e Proverbi, Racconti delle 4 stagioni, anticipando Kieslowski. In uno dei suoi più importanti film della prima raccolta, “La mia notte con Maud” (con Jean-Louis Trintignant e Françoise Fabian), sorprende la conversazione notturna tra Jean-Louis e Maud avente per argomento le religioni e le rispettive visioni del mondo:  cattolico lui, atea lei. E la decisione a priori di lui che, con una donna già divorziata così lontana dalla sua fede e visione delle cose, non avrebbe mai potuto costruire niente, nonostante ne fosse attratto. Siamo in pieno razionalismo cartesiano.

 Nei  Contes des 4 Saisons, c’è  il memorabile Racconto d’Autunno dove un  Rohmer  ormai 78enne dà vita  ad un fresco intrigante Gioco dell’Amore e dell’Azzardo come in un  marivaudage ambientato ai nostri giorni nella regione vinicola dell’Ardèche tra una non più giovane viticultrice Magali,  vedova e sola   e uno sconosciuto imprenditore. Il quale venne pescato in un annuncio matrimoniale dalla sua amica libraia Isabelle che la vuole rimaritare ad ogni costo.  Le schermaglie amorose si dipanano  in una spumeggiante commedia  degli equivoci e dei camuffamenti. Mentre nel primo della quadrilogia "Racconto di Primavera", le conversazioni di filosofia entrano addirittura nel film.
Con la morte  di Eric Rohmer se ne va qualcosa della douce France, quando c’era molto tempo per conversare tra bon mots e petits bonheurs.
I suoi sono infatti tra i film più “conversati” del cinema, come se avesse voluto costruire per noi dei piccoli libri visivi. I suoi Contes, sono in fondo delle  vere e proprie operette morali sulle quattro stagioni delle vita.  Qui uno spezzone da Racconto d'estate.


A tutti gli amici e internauti auguro una Buona Estate. Il Giardino rallenta...ma non chiude.

Hesperia

mercoledì 20 giugno 2012

Le Mille e Una Notte o il trionfo dei contrari



Le mille e una Notte è un labirinto narrativo dove ogni racconto si biforca in altri racconti, dando origine a infinite metamorfosi di situazioni, di generi, di personaggi; la realtà si confonde spesso col sogno, ogni cosa è quella cosa ma anche, prima o poi, il suo contrario. Dalle spoglie di un uccello si materializza un principe, ogni animale può nascondere un uomo, ogni uomo può rivelarsi quello che non ci si aspetta. Un povero vestito di stracci nasconde un califfo o un guerriero. Un barbiere sembra un perditempo e uno sciocco ma poi si palesa per un sapiente. Un’isola dove i naviganti scendono per riposarsi si trasforma in una balena che s’immerge, trascinando nell’abisso gli incauti che l’hanno scambiata per una terraferma. Personaggio paradigmatico di tutta l’opera è Harùn el Rashìd, il califfo che, per scoprire come vivono e cosa pensano i suoi sudditi, si traveste da popolano e si mescola alla folla, divenendo al tempo stesso monarca e popolano e sperimentando così la vertigine di essere se stesso e l’altro da sé. L’autore, o meglio gli autori di questa macchina prodigiosa non hanno letto Aristotele e non conoscono il suo principio di non contraddizione, secondo il quale un uomo è un uomo e non può essere anche una trireme o un muro: nozione che ha guidato per lungo tempo il cammino di noi occidentali.




La stessa cornice di questo immenso contenitore di novelle si presenta come un’affermazione dei contrari: il tradimento sostituisce la lealtà, la maestà e la bellezza esigono il coniugio col plebeo e col laido. All’origine del meccanismo narrativo c’è un adulterio, quindi, apparentemente, l’evento più comune e banale, ma quello che più d’ogni altro sfrena la lingua e, in quanto causa di disordine e conflitto da cui scaturisce la tragedia o la commedia, il motore stesso della narrazione. Ma il tradimento viene consumato sempre all’insegna dell’affermazione dei contrari: le mogli dei due sultani traditi commettono l’adulterio affinché si verifichi la congiunzione del bianco col nero, del regale col servile, della bellezza con la deformità, del luminoso col tenebroso; una regola che si perpetuerà per tutta la durata delle Notti. Dunque, c’è un adulterio, anzi due adulteri, perché i mariti traditi sono due, i fratelli sultani, i quali, alla scoperta del tradimento, reagiscono entrambi decretando la morte immediata delle mogli e degli amanti infedeli. Ma uno dei due, sia per scongiurare il ripetersi dell’onta subita, sia per vendicarsi del genere femminile, giudicato ormai non degno d’alcuna fiducia, adotta una singolare e crudele abitudine: quella d’impalmare ogni giorno una nuova fanciulla, facendola giustiziare allo spirare della prima notte nuziale trascorsa con lei. E’ a questo punto che entra in scena Sharazade, la giovinetta dotata d’un dono di narratrice così cattivante da far rimandare ogni volta la sua esecuzione al re che non può fare a meno d’ascoltare, notte dopo notte, i suoi infiniti e seducenti racconti.


Da quando, tre secoli orsono, il francese Antoine Galland tradusse e pubblicò i suoi Contes arabe, (non importa se, come fu affermato in seguito, alcune novelle le tradusse, altre le inventò, tutte le riscrisse nel suo stile squisito e incantatore), l’Europa fu sedotta e irretita da questo lussuoso ginepraio abitato copiosamente dall’errore e dall’equivoco, da questo viaggio notturno dove la realtà e il meraviglioso si scambiano incessantemente le parti e dove si transita con estrema disinvoltura dalla soglia dell’essere a quella dell’apparire. Come per un’ubriacatura o per una vertigine, la coscienza europea fu pervasa dall’impressione che il sovrannaturale abitasse in mezzo agli uomini e che la frivolezza andasse a braccetto della tragedia, che il reale fosse alleato dell’inverosimile e che il miracolo fosse un attributo del gioco. La sua immaginazione cominciò a nutrirsi di questo equivoco e a percorrere con leggerezza i deliri evocati dalla magia ambigua e illusionistica delle Notti Arabe. Nessuno ha mai indagato veramente il significato che ha avuto per la cultura europea la lettura delle Mille e una notte, specialmente nei domini dell’arte, in quella letteraria naturalmente ma anche, e in modo sensibile, in quella figurativa e in quella musicale. Qui ma, com’è ovvio, non solo qui, la saldezza del principio aristotelico di non contraddizione viene inquinato dall’attitudine ad attribuire ad ogni cosa un volto molteplice. Il concetto di identità diventa una nozione fluida, segreta, misteriosa, per conoscere la quale bisogna affidarsi al sogno che esplora le regioni occulte dell’essere. Montesquieu e Nerval, assieme ai più accesi spiriti romantici, sono gli alfieri di questa nuova tendenza a indagare il sotterraneo e l’arcano. Ma la schiera di coloro che hanno bevuto alla fonte esoterica e illusionistica delle Mille e una notte è diventata, col tempo, una vera e propria legione. Il grande Wolfgang Mozart vi ha attinto a grandi sorsi, come prova Il flauto magico, una delle sue opere più famose. Perfino un cultore dell’equilibrio e dell’ordine come l’altro grande Wolfgang di Germania, Goethe, ha guardato a quel modello per comporre il suo insuperabile Faust. Tra gli altri che hanno subìto fortemente l’influenza delle Notti vanno segnalati, considerando letterati, musicisti e pittori (e ci limitiamo solo ai nomi più illustri), Chautebriand, Hoffman, De Quincey, Diderot, Balzac, Flaubert, Ingres, Delacroix, Gericault, Renoir, Rimskij-Korsakov, Dickens, Stevenson, Hofmannsthal, Borges. Nemmeno Marcel Proust può dirsi esente da quell’influsso e perfino, certo senza alcun sospetto da parte dell’interessato,  Sigmund Freud, indagatore di sogni e di chimere sessuali. 



Dionisio


Le illustrazioni, nell’ordine: stampa ottocentesca con la narratrice Sharazade; due dipinti ispirati al mondo arabo di  Eugene Delacroix; ritratto d’arabo di Theodore Gericault; due scene tratte dal film “Il fiore delle Mille e una Notte” di Pier Paolo Pasolini (episodio “Storia di Alì Shar e della schiava Zumurrud ”).

lunedì 11 giugno 2012

Santa Giuseppina Bakhita

Santuario Madonna del Rosario - Vimercate

Quel giorno le campane di Vimercate suonavano a distesa, ed io, da una stanza del suo vecchio ospedale non ne capivo le ragioni: venivo da fuori, e non ero informato di quanto stava avvenendo in  città. Il motivo lo intuii più tardi, quando una suora, in visita ai reparti, mi donò un santino con l'effige di colei che era stata canonizzata quel giorno in San Pietro. L'immaginetta, ben conservata, reca scritto Madre Giuseppina Bakhita, con sotto la foto di una suora nera. Più sotto sta scritto che è la prima santa africana.

Madre Giuseppina Bakhita - dal Forum Virgilio

Era la domenica I° ottobre 2000, e fu solo anni dopo, ripensando a quel giorno, che capii le vere ragioni di tanta festa: suor Bakhita aveva trascorso due anni nel noviziato di quella città. Era giunta lì da Schio, per dare una mano alle consorelle, sciegliendo spontaneamente di svolgervi servizi umili e faticosi. Era il 1937, e suor Giuseppina, già in odore di santità, aveva 68 anni. Durante quei due anni di soggiorno a Vimercate, visitò alcuni centri canossiani, dislocati soprattutto nel nord Italia. Durante una di quelle visite, pervenne a Nova Milanese.
Nova in quegli anni era ancora un piccolo centro, prettamente rurale, di nemmeno 5000 abitanti, che vivevano all'interno di corti e cortili, 45 delle quali resistono tuttora, quale segno distintivo di questa cittadina brianzola. C'era un solo asilo, distante pochi passi dalla chiesa parrocchiale. Fungeva anche da oratorio femminile, e conteneva un'aula adibita a scuola di cucito. Le suore, dell'Ordine Canossiano, dimoravano al piano superiore dell'asilo. In una di quelle stanze visse il suo periodo novese suor Bakhita. Ancora oggi, anziani del luogo, che allora avevano tra i 6 e i 10 anni, hanno un vivo ricordo della "suora nera" della loro infanzia. Li intratteneva nel gioco, accompagnandoli poi in chiesa per le funzioni. L'asilo era stato costruito nel 1913, rapidamente, e con gli scarsi mezzi finanziari del tempo. Alla fine degli anni '80, non più a norma con le direttive moderne, l'asilo venne demolito. Ora, in tutto il comprensorio comunale esistono almeno cinque nuovi moderni asili. Del vecchio asilo, dove soggiornò la Santa, non esiste più nulla.

Dopo la canonizzazione di suor Bakhita, l'amministrazione novese dovette decidere se dedicarle o meno un appropriato spazio o luogo pubblico, che ricordasse degnamente il suo passaggio da questo territorio. L'imput venne da una petizione popolare. Fu creato un parco, che venne intitolato alla Santa. Così nacque Parco Bakhita di Nova Milanese, nel 2007 (vedi anche il post Toponomastica femminile). E' bene ricordare che la causa di beatificazione di suor Bakhita era iniziata nel 1959, ad appena 12 anni dalla sua morte, indice questo di grande santità.

Ciò nonostante, però, Santa Bakhita restava sempre sconosciuta al grande pubblico. Ci ha pensato Rai1 a rompere il silenzio, realizzando, nel 2008, la ponderosa fiction romanzata: Bakhita.
Trasmessa su Rai1 il 5 aprile 2009, è stata riproposta da Tv2000, nelle sere del 19 e 20 maggio scorso. La fiction ripercorre tutta la vita della santa, dalla nascita fino all'arrivo a Venezia, discostandosi un poco dalla storia vera, ma solo per esigenze cinematografiche, e senza però snaturarne l'essenza. Nella fiction il racconto della vita di suor Bakhita si interrompe nel punto in cui viene battezzata, cresimata, e pronuncia poi i voti che le consentiranno di entrare nell'Ordine delle suore Canossiane. Stando alla storia vera siamo nel 1896.


1/6/2012 - Parco comunale Bakhita - Nova Milanese - foto di Mariella Simonetta

La news di Antonio Socci, del Natale 2008, dedicata totalmente alla santa, può essere considerata una sorta di panegirico, sulla falsariga di quanto Dante scrisse di San Francesco nella Divina Commedia, 700 anni fa (Paradiso, Canto XI). Per conoscenza, trascrivo alcuni brani della news:

..."La padrona quel giorno si annoiava, così decise di far seviziare le tre ragazzine nere che aveva comprato come schiave: avevano circa 10 o 11 anni. Bakhita fu bloccata a terra e con un rasoio le fecero 114 tagli nella carne. Poi riempirono di sale le ferite. Così, per divertimento. Perché era considerata una cosa dai padroni musulmani.

All’età di sette anni, nel 1876, era stata rapita nel suo villaggio sudanese e venduta come schiava quattro volte. Aveva conosciuto solo la ferocia. Così è la storia umana senza Gesù. ...

... Morta nel 1947, è stata proclamata santa nel 2000. Non c’è situazione tanto estrema e drammatica che non possa essere raggiunta e liberata da Dio fatto uomo. Anche oggi, tempo di diverse schiavitù. ...".

Di lei sono stati scritti diversi saggi, due dei quali scandagliano a fondo il pensiero della santa. Nel primo, "A Sua immagine", di Cànopi Anna Maria, Edizioni Emp, viene accomunata ad altri tredici mistici, dalla santità altrettanto eroica, tra i quali: Elisabetta della Trinità, Silvano del Monte Athos , Faustina Kowalska, Luigi Orione, Massimiliano Maria Kolbe, Edith Stein.
Nel secondo, "Quarto libro dei ritratti di santi", di Antonio Maria Sicari, Edizioni Jaca Book, viene ritratta in compagnia di altri "grandi santi". Tra di loro: Chiara d'Assisi, Antonio di Padova, Rita da Cascia.

Qui il trailer del film della Rai: http://youtu.be/w3NdcWR9mSs

Post correlati:
Istituto Canossiano - Venezia
Chiesa di Sant'Alvise - Venezia

domenica 3 giugno 2012

I miti greci hanno ancora molto da raccontarci


Il ratto d'Europa - Tiziano
Vorrei parlare della Grecia per quello che è stata e non per come la stanno attualmente riducendo. La Grecia dei miti, della grande scultura e architettura, di Omero e dei suoi poemi, delle tragedie teatralidella radici culturali occidentali che si stanno perdendo per un manipolo di rapaci quanto ottusi economisti e finanzieri  incapaci di esprimere bellezza, ordine e armonia e che mettono in ginocchio il mondo con la loro avidità priva di scrupoli.
Il mio primo approccio con la cultura greca avvenne da bambina (facevo la prima media) su un libro dal titolo "Cento racconti di mitologia classica" di Le Monnier (Firenze), vecchio libro che conservo ancora. E ovviamente divorai quei miti come fossero fiabe e favole. Mi resi però conto che a differenza delle fiabe, dove l'Eroe, nonostante le dure prove a cui è sottoposto,  è artefice della sua salvezza e il lieto fine della sua vicenda umana è assicurato, nei miti greci,  eroi, dei, semidei,  mortali e immortali dovevano sottostare al Fato, una sorta di divinità del Destino alla quale (o al quale) non ci si poteva sottrarre. Nemmeno gli stessi dei, benché immortali,  potevano sottrarsi alla forza trascendente del Fato e ai suoi disegni.
Gli attuali Greci hanno ragione di dire che l'Europa (a partire dal nome) l'hanno creata e personificata loro nel mito. E a rifletterci sopra non nasce poi così bene, visto che Europa è una ninfa rapita da Zeus, il quale si trasforma in un toro, la porta lontano sfidando perfino i perigli dei flutti per poi accoppiarsi con lei. Non sarà la sua Bellezza a salvarla. Anche a tutti noi hanno "rapito" la vera anima ed essenza dell'Europa.
Non sono pochi gli artisti, i pittori, i poeti che si sono ispirati ai miti greci. Lo stesso Dante nella Commedia. Per non parlare della psicoanalisi che ha costruito molta della sua speculazione traendo origine dai miti (Jung in particolare e la sua Teoria degli Archetipi, ma anche lo stesso Freud). Prima della scienza, prima della religione, c'è il mito. Modo ingenuo - ci dicono - modo fantasioso, spregiudicato e prescientifico, di spiegare l'origine delle cose e degli uomini, gli usi i costumi e le leggi. Filologia, etnografia, antropologia hanno lacerato il velo del mito, evidenziandone le radici ideologiche, il retroterra di superstizione e di magia. Ma i miti, così dissezionati, ci vengono restituiti alla stregua di freddi reperti anatomici, buoni tuttalpiù per qualche museo.
Robert Graves nel suo saggio "I miti greci" è riuscito a rianimare questa materia ormai inerte, restituendocela con tutto il suo splendore, il suo sense of wonder e (anche) of humour.

Molti sono i miti che ci hanno suggestionato nel corso del tempo e della nostra educazione cultural-sentimentale: Il Ratto di Persefone, Apollo e Dafne, Orfeo ed Euridice, il mito di Narciso e il mito di Giacinto e Zefiro (narrati da Ovidio nelle Metamofosi), Dedalo ed Icaro, il mito di Fetonte e il carro del Sole, Teseo e il Minotauroil Vello d'oro di Giasone, e numerosi altri che sarebbe troppo lungo elencare.


Il mito di Orfeo è forse quello che più d'ogni altro è carico di simbolismo, attorno al quale ruota una letteratura abbondantissima, arrivando a esercitare una sicura influenza sulla formazione del Cristianesimo primitivo e attestato nell'iconografia cristiana. Figlio di Eagro e di Calliope (la più importante delle 9 muse), Orfeo è di origine tracia. Viene rappresentato vicino all'Olimpo in procinto di cantare e suonare con la lira e la cetra. Cantava canzoni così soavi che le belve feroci lo seguivano ammansite, mentre piante ed alberi si piegavano verso di lui.
Orfeo e Euridice di Enrico Scuri
Orfeo partecipa, secondo altre intepretazioni del mito, anche alla spedizione degli Argonauti alla ricerca del Vello d'oro, la sua funzione consistette nel cantare distraendo le Sirene dai loro propositi di sedurre gli Argonauti. Ma la vicenda mitica più celebre relativa ad Orfeo è quello della sua discesa agli Inferi alla ricerca della giovane sposa Euridice. Un giorno la ninfa Euridice passeggiava lungo un fiume della Tracia, ma fra l'erba calpestò una serpe che la morse uccidendola prematuramente. Orfeo sconsolato, discese agli Inferi e con gli accenti della sua lira non incantò solo Cerbero, il cane a tre teste guardiano dell'Inferno, ma anche gli dei del regno delle ombre Ade e Persefone, che acconsentirono a restituire Euridice al marito. Ad un patto. Orfeo risalito alla luce seguito dalla sposa, non doveva voltarsi per vederla; non prima di aver lasciato il loro Regno. Orfeo accetta e si mette in cammino. E' già quasi risalito alla luce del giorno, quando lo assale il terribile dubbio che la regina Persefone possa essersi fatto beffe di lui. Per sincerarsi che Euridice fosse davvero dietro di lui, si volta, ma lei sviene e muore una seconda volta. Orfeo corre a cercarla, ma questa volta Caronte è inflessibile e gli nega l'accesso al mondo infero. Sconsolato Orfeo deve far ritorno tra gli umani. Si narra che dopo questo dolore non volendo più avere rapporti con le donne, suscitò le ire delle donne trace che lo uccisero facendo a pezzi il suo cadavere, gettandolo in un fiume. Dopo la morte, la sua lira fu trasportata in cielo dove divenne una costellazione, mentre l'anima trasmigrò nei Campi Elisi, rivestita da lunga veste bianca, e allientando coi suoi canti i Beati. Molte sono le varianti, variazioni e variabili di detto mito su cui si formò una teologia detta orfica. Orfeo resta sempre il simbolo della Poesia e dell'Arte che sconfiggono la Morte. In epoca più tardiva,  il poeta Rainer Maria Rilke  compone "I sonetti ad Orfeo",  una raccolta di liriche che evocano immagini di quiete e di rara bellezza.


E quasi una fanciulla era. Da questa
felicità di canto e lira nacque,
rifulse nella trasparente veste
primaverile e nel mio udito giacque.


E in me dormi. Tutto fu il suo dormire:
gli alberi che ammiravo, le distese
sensibili, le grandi praterie
presenti e lo stupore che mi prese.

Il Ratto di Persefone di Bernini
Un altro mito ad alta valenza simbolica è il Ratto di Persefone (Proserpina per i Romani), dea degli Inferi e moglie di Ade (Plutone per i Romani). La leggenda ci narra che  Ade si innamorò di lei mentre la vide alle falde dell'Etna intenta a  raccogliere dei narcisi insieme alle sue compagne. Il carro infernale tirato da cavalli neri squarciò la terra e il dio la rapì. Questo rapimento fu reso possibile. grazie alla complicità di Zeus, mentre la madre Demetra era assente. A questo punto si pongono i viaggi di Demetra per ritrovare la figliola rapita e per vendicarsi non fece più maturare le messi (era la dea dei campi e dell'agricoltura). Alla fine, visti i disastri e la carestia sulla terra, Zeus ordinò al fratello Ade di restituire la fanciulla alla madre, ma ciò non era più possibile, poiché lo sposo le fece mangiare un chicco di melagrana, con la quale intendeva legarla per sempre a sé. Per mitigare il fatto, Zeus decise ch' ella avrebbe diviso il proprio tempo tra il mondo sotterraneo e il mondo terreno. Durante i mesi  la ricongiunzione di Persefone con la madre, la terra diventava florida, gli alberi fiorivano e fruttificavano , mentre nei campi le messi maturavano. Durante i mesi in cui Persefone tornava agli inferi, la terra era spoglia,  fredda e senza sole e riposava. Questo era in sostanza il modo, per i Greci di interpretare l'avvicendarsi delle stagioni.



Il Narciso del Caravaggio

Un mito affascinante che servì di ispirazione a poeti e pittori è il mito di Narciso. La sua leggenda è riferita in modo diverso a seconda degli autori. Secondo le Metamorfosi di Ovidio, Narciso è figlio del dio fluviale  Cerfiso e della ninfa Liriope. Diventato adulto fu oggetto di passione di un gran numero di ninfe e di ragazze, alle quali però restava insensibile. La ninfa Eco si innamorò di lui, ma non ottenne più delle altre. Allora disperata, si ritirò in solitudine, dove dimagrì e della sua persona non rimase che una voce lamentosa. Tutte le giovani disprezzate da Narciso, chiesero vendetta  e Nemesi le sentì. Fece in modo che in un giorno di grande caldo dopo la caccia, Narciso sostasse presso uno specchio d'acqua  per dissetarsi. Qui scorse il proprio volto così bello, che se ne innamorò all'istante. Insensibile , in quel momento a quanto lo attorniava si piegò verso la sua immagine e si lasciò morire annegato. Nel luogo in cui morì, spuntò un delicato fiore bianco profumato che ebbe il suo nome.
Gli dèi capricciosi, suggerisce Hillman, sono stati cacciati dalle nostre religioni, per trasformarsi in complessi.

Apollo e Dafne del Bernini
 Il mito di Apollo e Dafne è, secondo Gianluca Mattarelli (sito Ripensandoci) ,la storia di un amore infelice, perché mai realizzato. Proprio il dio protettore delle arti mediche non riesce a trovare un farmaco per la ferita infertagli da Eros; proprio il nume che conosce presente, passato e futuro, lascia che la sua mente onniveggente sia offuscata dalla tenace passione per la bellissima Dafne, figlia del fiume Peneo e di Gea.
La fanciulla, incurante dell’amore, preferisce aggirarsi per i boschi e dedicarsi alla caccia, essendo una sacerdotessa consacrata alla vergine Artemide (o alla madre Gea). Un giorno Apollo la scorge da lontano e inizia a correrle incontro. Dafne si accorge del bellissimo giovane, alto, aitante, biondo e inizia a fuggire da lui. Forse è stata colpita dalla freccia dell’odio scoccata da Eros, desideroso di fare un dispetto ad Apollo (secondo una versione del mito) o forse vuole evitare di cadere in tentazione e di recare un torto alla divinità a cui si  è consacrata, promettendo castità.
Dafne per sottrarsi alla seduzione di Apollo si fa trasformare in alloro.
La fanciulla, impaurita, è costretta ad attraversare sterpaglie, graffiandosi la pelle e strappandosi le vesti, mentre Apollo continua a inseguirla accanitamente gridando il suo amore e avanzando proposte seducenti. Quando ormai sta per essere ghermita, Dafne, esausta, rivolge una preghiera al padre (o alla madre), affinché la sua forma, causa di tanto tormento, sia tramutata in qualcos’altro. In pochi istanti la giovinetta si irrigidisce, i piedi divengono radici, le braccia rami, il corpo si ricopre di una ruvida scorza: si sta trasformando in un albero di alloro (in greco antico daphne significa appunto “alloro”). Apollo la raggiunge, ma è troppo tardi; riesce appena a rubarle un bacio, prima che anche la sua bocca sia ricoperta dalla corteccia.

L’irrazionalità della passione amorosa

Viene naturale prendere le parti di Dafne, che, per mantenersi casta, fugge da un accanito e possessivo spasimante, intento a soddisfare egoisticamente la sua passione senza tener conto della volontà dell’amata, fino a rovinarle completamente la giovinezza e la vita. È opportuno, tuttavia, riflettere anche sulla sofferenza di Apollo, sul dolore di chi ama senza essere ricambiato. Il dio potrebbe avere tutte le fanciulle che vuole, ma desidera Dafne, non per un capriccio, ma perché è stato ferito dalla freccia d’amore di Eros. Non si sceglie di amare. Se potessimo scegliere razionalmente la persona di cui innamorarci, di certo non opteremmo per il dolore e per il rifiuto. Apollo può conoscere il futuro, quindi probabilmente avrebbe potuto prevedere le tragiche conseguenze della sua passione; eppure, invece di rivolgere la sua bramosia altrove, insegue Dafne. Egli è il dio dell’ordine e del raziocinio, eppure compie atti irrazionali per amore. La ragione è sconvolta sempre dal sentimento; è difficile rimanere indifferenti e calmi di fronte alla visione di colui o colei che desideriamo ardentemente.
Un dono tuttavia, Apollo lo ebbe da questa sventurata esperienza: il lauro o alloro, con cui si fece un serto ornandosene il  capo nel Parnaso insieme alle nove Muse. Laureato, laurea ecc. proviene proprio dalla pianta di cui Apollo si fece ornamento, in seguito riservato a tutti i poeti e agli uomini illustri.
Non dimentichiamo inoltre che buona parte della cultura greca, ci viene tramandata attraverso l'etimologia delle nostre parole.  Basta pensare alla moderna parola "ecologia", dalla ninfa Eco che abbiamo  già incontrato nel mito di Narciso. Nei periodi di cupezza e di oscurantismo della storia, i miti assumono un carattere fondativo. Si pensi solo alla leggenda di Romolo e Remo allattati dalla lupa che danno avvio alla civiltà e cultura romana. Ma questa, ovviamente,  è un'altra storia...

Hesperia