lunedì 31 maggio 2010

WILLIAM FAULKNER, CANTORE DELLE LACERAZIONI DEL CUORE

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La scrittura di William Faulkner colpisce e avvince per la sua originalità, per la sua prodigiosa ricchezza sintattica e strutturale, per la complessità e sinuosità dei suoi periodi, paragonabili spesso a torrenti in piena di cui talvolta si stenta a seguire il corso, infine per l’acutezza psicologica con cui riesce a restituire i personaggi – il tutto fuso in un pathos potente e pervasivo che si traduce nei momenti più elevati in poesia rapinosa. In questi momenti si viaggia dentro la scrittura di Faulkner come all’interno d’una grande sinfonia polifonica che riesce a fondere il linguaggio alto e raffinato della tradizione narrativa più nobile con le tecniche sperimentali del flusso di coscienza e del monologo interiore in una mirabile armonia, fitta di digressioni e contrappunti, che sfida qualunque paragone. Senza dubbio si tratta d’una prosa difficile, dove il lettore superficiale o disattento rischia facilmente di smarrirsi, ma stiamo parlando, com’è ovvio, di musica per orecchie allenate ad assaporare la consonanza più articolata degli accordi e la ricchezza più raffinata dei suoni; roba per palati fini, insomma; eppure, a ben guardare, meno di quanto possa sembrare. Si è spesso affermato che Faulkner discende dalla tradizione sperimentale di scrittori europei di tecnica sopraffina come James Joyce, Virginia Woolf e Marcel Proust; e si capisce perché, in quanto è evidente che questi scrittori il nostro autore li ha letti attentamente e ne ha assimilato fino in fondo le tecniche; ma, ciononostante, nella sua scrittura si sente una spontaneità infinitamente maggiore dei suoi modelli, una spontaneità per certi versi popolare e istintiva, quella d’un narratore di storie dotato naturalmente d’una capacità affabulatoria così straripante e incontenibile da costringerlo a inserire nel suo narrare tutte le divagazioni, le variazioni e le parentesi che la vena gli suggerisce. In questa tendenza, che è popolare e colta al tempo stesso, risiede per l’appunto l’originalità e la grandezza di Faulkner; addirittura, se vogliamo, il suo limite, giacché quel rischio di impantanarsi nella complessità del suo stile a volte lo corre lui stesso, quando l’ispirazione cede per un momento e il lettore avverte come un ansare del linguaggio, un capzioso girare attorno all’argomento come accade al raccontatore che si sia lasciato troppo trasportare dal suo estro e rischi di smarrire il filo principale del discorso. Ma sono solo attimi, brevi lacune di chi è costretto a padroneggiare una capacità oratoria fluviale e debordante e di cui comunque non perde mai il controllo; in certi casi, addirittura, riesce a trarsi fuor dalle secche con una trovata tecnicamente geniale, come quando, resosi conto d’essersi lasciato trasportare troppo avanti nella presentazione di un personaggio o di un fatto, smette la narrazione e, senza mettere il punto, va a capo e la riprende, omettendo la maiuscola, dal momento in cui l’ha cominciata (si veda, ad esempio, l’inizio del racconto Fu, incluso nel volume Scendi Mosé). Il che, sia detto per inciso, è il modo migliore di far uso dello sperimentalismo, quello efficace e funzionale alla comprensibilità del racconto, non come è stato spesso applicato in passato da tanti scrittori, in maniera gratuita e poco utile, quando non addirittura incomprensibile.
Ma lo stile di Faulkner è degno di nota soprattutto se lo si considera in rapporto alla letteratura americana. Personalmente non vado pazzo per la narrativa americana, contraddistinta per lo più da una cifra asciutta e minimalista (a parte quella di alcuni scrittori come Herman Melville, per l’afflato epico che la contraddistingue, e quella di Henry James per la sua eleganza e complessità, che però ha trovato il proprio terreno di sviluppo in una lunga permanenza in Europa), cifra poco congeniale alla mia inclinazione per la scrittura doviziosa, di gusto barocco (da intendersi, naturalmente, nel senso migliore del termine, non nell’accezione negativa che taluni erroneamente gli attribuiscono, perché il Barocco fu un periodo quanto mai fulgido e fecondo della cultura europea). Faulkner, in verità, è un caso più unico che raro nell’ambito della letteratura americana. Almeno per la scrittura, egli sembra appartenere più alla cultura europea che a quella americana. Forse perché nato nel Mississippi, in uno di quegli stati del sud che fu a lungo sotto il dominio della Francia prima che la sostituisse l’Inghilterra, sembra abbia assorbito in profondità la ricchezza e raffinatezza della cultura francese sette-ottocentesca, pur restando, nell’indole e nella mentalità, profondamente americano. Del resto conosceva così bene il francese che fu lui stesso a collaborare minuziosamente alla traduzione in quella lingua de L’Urlo e il Furore, uno dei suoi libri stilisticamente più complessi. E poi era cresciuto alternando alle letture d’autori di lingua inglese – Shakespeare, Conrad, Eliot, Keats e, appunto, Joyce e la Woolf – molte altre d’autori di lingua francese, come Balzac, Baudelaire e Proust. Conosceva, peraltro, anche i classici, Omero anzitutto, come si evince da un passo di quello stupendo racconto intitolato L’orso (incluso anch’esso in Scendi Mosé), che narra di una lunga caccia “nella terra in cui il vecchio orso si era guadagnato un nome (Old Ben) e attraverso la quale correva neppure come una bestia mortale ma come un anacronismo indomabile e invincibile sgorgato fuori da un tempo antico e sepolto, un fantasma, un’epitome e un’apoteosi della antica vita selvaggia su cui si avventavano per demolirla a piccoli colpi in una furia di avversione i piccoli e meschini esseri umani simili a pigmei intorno ai malleoli di un elefante assopito: il vecchio orso solitario, indomabile e solo, rimasto vedovo, senza figli e assolto dalla mortalità: vecchio Priamo orbato della vecchia moglie e sopravvissuto a tutti i suoi figli”.
Abbiamo letto un bell’esempio della prosa di Faulkner. Ho detto anche dell’acutezza psicologica con cui i personaggi si stagliano sulla sua pagina. Sentite come descrive un capo indiano che si presenta davanti al Presidente degli Stati Uniti in persona per ottenere il suo giudizio in un complicato affare d’omicidio, commesso non si sa quanto intenzionalmente dal nipote a danno di un uomo bianco durante una corsa a cavallo organizzata presso il guado di un fiume (il racconto, d’epoca e ambientazione che possiamo definire western, si intitola appunto Il Guado e figura nel volume I Negri e gli Indiani pubblicato anni fa da Mondadori) : “E ora il Presidente e il segretario sedevano dietro al tavolo sgombro e guardavano l’uomo che stava ritto e come incorniciato dalle porte aperte dalle quali era entrato, tenendo il nipote per mano come uno zio che per la prima volta conduca un giovane parente provinciale in un museo cittadino di figure di cera. Immobili, essi contemplavano il molle uomo panciuto che stava davanti a loro con la sua molle, gentile faccia ermetica… il lungo naso da monaco, le palpebre sonnolente, il doppio mento cascante, color caffellatte, emergente da uno spumeggiar di merletto sudicio di un’eleganza da cinquant’anni superata e svanita; la bocca era piena, piccola e molto rossa. Eppure dietro all’espressione del volto flaccido e greve di delusione, come dietro alla voce gentile e a quella leziosità quasi femminile, in qualche punto s’annidava qualcos’altro: qualcosa d’ostinato, d’astuto, imprevedibile e dispotico.”
Sono solo alcuni personaggi di quella vastissima e fascinosa commedia umana che si sviluppa nell’immaginaria contea di Yoknapatawpha del Mississippi, che significa grosso modo “Terra spaccata”, lo spazio mitico dominato dal conflitto tra le razze bianca nera e indiana, tra il passato e il presente e tra il bene e il male, illustrato da Faulkner attraverso le saghe familiari dei Sartoris, degli Snopes e dei Compson e che si traduce in numerosi volumi, tra cui Santuario, L’urlo e il Furore, Non si fruga nella polvere, Assalonne Assalonne!, Gli invitti, Luce d’agosto, Mentre morivo, Requiem per una monaca. Faulkner è uno degli scrittori più importanti del Novecento, della cui grandezza il mondo letterario, ancor oggi, non è forse del tutto consapevole e il cui valore, beninteso, non è solo di carattere estetico. La sua arte ha una valenza universale che investe i grandi temi dell’umanità, ma che l’attuale miopia del mondo letterario accademico tende a disconoscere e a minimizzare. Addirittura certa critica americana, quella più politically correct, cerca di ridurlo al ruolo edificante e consolatorio del difensore dei vinti della storia americana, il Sud piegato e asservito agli yankee del Nord a seguito della Guerra di Secessione, la nobiltà sudista decaduta e votata all’autodistruzione, i neri, gli indiani e i poveri bianchi condannarti all’emarginazione, alla frustrazione esistenziale, alla rivolta e alla violenza. Ma i temi che egli affronta e il suo modo di trattarli non si prestano a letture ideologicamente edificanti. Il suo atteggiamento è di umana compassione ma anche di lucidità priva di moralismi, talvolta non ignara d’una arguzia capace di stigmatizzare senza indulgenza le ipocrisie e le storture a cui gli esseri umani spesso si riducono. Da grande scrittore qual è, sa frugare nel cuore dell’uomo con sguardo limpido e asciutto, consapevole delle drammatiche lacerazioni prodotte da un retaggio di schiavismo e di violenza rimasto vivo nella memoria e nel sangue del popolo americano. Del resto fu lui stesso a dichiarare con chiarezza, nel discorso di accettazione del Premio Nobel che gli fu conferito nel 1950, di essere interessato ai “problemi del cuore umano in lotta con se stesso: questo soltanto può generare una scrittura efficace, poiché di questo soltanto val la pena di scrivere”.
DIONISIO

22 commenti:

Hesperia ha detto...

Dionisio, hai scritto un pezzo di un rigore ineccepibile. E vedo che ti hanno messo anche su Tocqueville - sezione cultura.
Come ho già avuto modo di dirti, apprezzo la genialità di Faulkner nella struttura e nella tecnica narrativa. Che però richiede l'intervento attivo e partecipe del lettore.
Mi piacque molto, in particolare, in un certo periodo della mia vita per lo spirito innovativo.

Non so però se ad una rilettura mi entusiasmerebbe ancora nella stessa misura.

dionisio ha detto...

Hesperia, è vero che la lettura di Faulkner richiede l'intervento attivo e partecipe del lettore, ma questo vale per la lettura di qualsiasi scrittore, purché ci si trovi davanti a una scrittura bella e, possibilmente, originale (scrivere bene e in modo originale - il che significa con uno "stile" proprio, inconfondibile - è, in definitiva, il compito e il dovere di ogni scrittore). Del resto il confronto con uno scrittore è sempre un colloquio "intimo" tra lui e noi e questo colloquio è tanto più intenso e fecondo quanto più il frammento di anima che la sua opera esprime incontra affinità e coincidenze con la nostra. Leggere è un'azione che comporta un uso intenso delle facoltà intuitive e sentimentali (solo accessoriamente di quelle mentali, almeno per la letteratura); azione che, ripetuta nel tempo, costituisce un allenamento all'ascolto e quindi l'acquisizione della facoltà di distinguere tra voce e voce e, tra queste, quella che esprime di più e meglio ciò che è parte della tua anima e che è capace di farla vibrare più o meno intensamente.
Questo per dire che Faulkner rappresenta una di quelle voci speciali che trova in me corde particolarmente sensibili, sia per le cose che racconta, sia per il "come" le racconta. E' una questione, com'è ovvio, di gusti personali, e non credo si debba necessariamente pensare che ciò derivi da una mia predilezione per le cose non facili (anche se quello che è troppo facile non mi attira). Per farmi capire meglio, dirò che un altro scrittore che prediligo tra molti altri ha un modo di raccontare estremamente più semplice e piano di quello di Faulkner, ed è Antòn Cechov. E' il mondo interiore di Cechov che trovo estremamente ricco e complesso, e intensamente coinvolgente, almeno per i miei gusti, il suo modo di esprimerlo. Ecco: Cechov e Faulkner hanno in comune questa intensità di espressione.
Mi fermo qui, per ora. Mi piacerebbe sentire i pareri di altri amici, Josh, Marshall, Marcello/Sarc, ecc., purché, ovviamente conoscano abbastanza Faulkner (perché, com'è ovvio, non è un obbligo conoscerlo; ognuno di noi ha le sue preferenze e su questo non si discute). In ogni caso, per chi volesse approfondirne la conoscenza, attualmente lo sta ripubblicando Adelphi (consiglio, per chi non l'avesse letto, "Il borgo" nella traduzione di Cesare Pavese) ma anche negli Oscar Mondadori si dovrebbero trovare diversi libri suoi.

Nessie ha detto...

Dionisio, la scrittura di Faulkner è quella di più punti di vista. Come fosse una polifonia. Per questo si colloca a buon diritto nel discorso novecentesco, dove le trame si dilatano ad libitum o si sfilacciano.
Ma il risultato de "L'urlo e il furore" francamente è quello di un rompicapo dove addirittura ci sono un paio di personaggi che portano lo stesso nome, il che aumenta a dir poco la confusione. Del resto è quello che l'autore desidera, per dare la sensazione della vita come di "un lungo monologo visto con gli occhi di un idiota il cui significato è nulla".
Megliori risultati si ottengono senz'altro in "Mentre morivo".

dionisio ha detto...

Be', Nessie, hai citato forse i libri più difficili di Faulkner, quelli più sperimentali, scritti probabilmente in un periodo in cui egli voleva accreditarsi come scrittore tra i più all'avanguardia del tempo e dove il significato risulta più ermetico. E' difficile spiegarsi quando non si hanno i testi sott'occhio, ma il Faulkner che preferisco io è quello della scrittura che si espande come un fiume in piena e nella quale l'autore riesce a fondere e ad armonizzare in quella che ho chiamato una grande sinfonia gli aspetti anche contraddittori del suo carattere, quello del gentiluomo del sud o della nobiltà decaduta che guarda il mondo e la sua crudeltà e la sua degradazione con l'eroico distacco di chi sa che il senso della vita è la sconfitta e che proprio da quel sentimento nasce la tendenza a degradarsi e ad essere crudeli, ma non per questo si dovrebbe abdicare al senso dell'onore, al coraggio, alla lealtà che devono comunque guidare il nostro agire. Si può dire che Faulkner sia uno scrittore classico (che ha assimilato Omero e i tragici greci ma anche il linguaggio assoluto e monitorio della Bibbia)e che tuttavia racconta la dissoluzione di ogni classicità poiché la modernità, in cui si immerge in pieno e di cui egli stesso è un prodotto, è un labirinto limaccioso in cui l'esistenza e i sentimenti dell'uomo si aggrovigliano in un'oscura vocazione alla consunzione, al naufragio, all'autodistruzione. Diciamo che Faulkner prosegue e porta quasi alle estreme conseguenze il cammino iniziato da Conrad - uno dei suoi maestri più autentici - creando strutture narrative tortuose e complesse perché il moderno, con la sua perdita di valori, con la sua apertura sul nulla, prefigura appunto esistenze confuse e sfilacciate, come giustamente dici tu.
Credo sia questo il fascino maggiore di Faulkner: la sua classicità, che si libra nonostante tutto sul suo essere moderno.

di Mammi ha detto...

Dionisio
Non conosco Faulkner pertanto evito di commentare l’opera dello scrittore e mi attengo a quanto scritto,in modo chiaro, nel post e nei commenti.( tuoi e Nessie). D’altronde i miei principali interessi sono per la filosofia, religioni e scienze, anche se non disdegno l’arte e la letteratura. Leggere articoli su argomenti, di cui si era all’oscuro, porta sempre ad un arricchimento culturale.
Qualcosa posso dire su quanto scrivi all’inizio del tuo primo commento, ossia sul rapporto scrittore-lettore.
Lo scrittore professionista “deve“ cercare di instaurare, quanto più gli è possibile, un “dialogo” con chi legge, se non altro perché deve vendere il libro.
Deve interpretare quello che, in un determinato periodo storico, il lettore vuol sentirsi dire, deve raccontare una “realtà” che, più che corrispondere alla realtà vera, sia una “realtà” che impressioni il lettore.
Se poi in questo suo scrivere riesce ad infondere anche frammenti della sua anima ed usare una tecnica di scrittura adeguata, allora scrive un capolavoro.
Lo scrittore che non abbia problemi economici ed essere, quindi, scevro da condizionamenti contingenti, può permettersi il lusso di scrivere per il puro piacere di scrivere, allora il rapporto è tra lo scrittore e se stesso che, forse, è il rapporto più difficile. Scrivere qualcosa di appagante per il proprio Ego non è cosa semplice, ma, se ci riesce non ha importanza il giudizio degli altri: se l’opera non piace pazienza e se piace tanto meglio.
Ciao
Marcello

dionisio ha detto...

Marcello,
premesso che qui parliamo solo del prodotto più autentico dello scrittore, quello che scaturisce dalla sua anima e dal suo cuore (perché di quanto si fa per mercede, almeno in questa sede, possiamo permetterci di trascurarlo), è vero quello che dici che, inizialmente, si scrive per se stessi, cioè per provare a sé che si è versati nell'arte della scrittura e che si riesce attraverso essa ad esprimere la parte più intima e vera di noi stessi, del nostro mondo interiore, delle nostre prefereze e inclinazioni, ecc. Ma, immediatamente dopo, è anche vero che l'arte (e, tra tutti i vari linguaggi artistici, forse la letteratura più degli altri) è un mezzo di comunicazione coi nostri simili, perciò chi scrive non può fare a meno di pensare che scrive "anche" per gli altri, benché si pensi sempre a un lettore ideale, capace cioè di intendere il nostro mondo interiore perché affine con esso.
Ancora, lo scrittore vero si impegna a dare il meglio di sé ogni volta che si cimenta in un lavoro, tendendo, ad ogni tappa del suo cammino, a superarsi e a raggiungere un risultato che vada sempre oltre il già fatto e il già sperimentato.
Faulkner era così, tant'è vero che, anche i lavori già pubblicati, li sottoponeva spesso a revisioni per ripubblicarne una versione successiva. Questo denota un'insoddisfazione di sé e uno sforzo continuo a dare sempre qualcosa di più e meglio. Cosa che a me piace molto perché, in tutto ciò che si fa, ho sempre pensato che la regola sia di impiegare tutte le nostre migliori risorse (ed è un peccato che, almeno oggi, questa regola non valga per tutti).

di Mammi ha detto...

Dionisio
Potremmo dire Scribo Ergo Sum.
Anche se tra pensare e scrivere c’è un differenziale temporale, lo scritto è il riflesso del pensiero, col non trascurabile pregio della persistenza, il pensiero è labile ed è destinato a scomparire con l’individuo pensante: la res cogitans scompare, mentre la res extensa, per quanto imperfetta possa essere, rimane.
Questo “rimanere” è l’input a perfezionare i romanzi, a fare revisioni a distanza di tempo, perché, col suo trascorrere, l’autore acquista maturità e nota meglio le discrepanze da correggere, e quello che rimarrà sarà il risultato del massimo impegno da lui profuso.
E’ questo, a mio avviso, l’entanglement , ossia l’intreccio, la complicità che lo scrittore vuole mettere in atto, con il lettore, perché la sua opera sopravviva alla morte, se ho ben capito la tua posizione.
A me, invece, non interessa molto questa persistenza nella storia, anche se, in ipotesi, avessi scritto qualcosa di valido, per me Ego, con la scomparsa della mia res cogitans, scompare anche la mia res extensa, anche se questa “rimane”, più o meno negletta, in un mondo che non mi appartiene più.
Ciao
Marcello

di Mammi ha detto...

Dionisio
scusa ma nel fare copia incolla, da word, ho saltato l'ultime righe.


Per questo se scrivo o faccio qualcosa, cercando di dare il meglio, lo faccio solo per me stesso e per mettermi alla prova, perché “Io sono" e tutto il resto potrebbe non essere.
ciao

dionisio ha detto...

No, non penso all'immortalità, Marcello, perché non credo che le opere dell'uomo, anche le più grandi, abbiano un lungo futuro: prevedo l'avvento di un'epoca di barbarie distruttiva che lascerà ben poco dopo il suo passaggio. Del resto, del passato più grande dell'umanità, quanto si è tramandato fino a noi? Dei capolavori di Fidia, il più grande scultore della Grecia classica, del quale si dicono meraviglie, non è rimasto nulla. Con l'incendio della biblioteca di Alessandria, sono andati perduti gran parte dei testi più insigni dell'antichità. L'uomo, nel corso della sua storia, non ha fatto altro che distruggere le orme del suo passaggio. I bombardamenti dell'ultima guerra quante opere preziose hanno ridotto in cenere?
No, non conviene pensare all'immortalità. E' solo che se uno si impegna a fare qualcosa, spera sempre di farlo nel modo migliore possibile, così da suscitare qualche "Oh!" di meraviglia o di ammirazione, cosa del resto che, con la caduta verticale del gusto dei contemporanei, è praticamente un'illusione anche dove si producesse davvero qualcosa degno d'ammirazione.
Insomma, come Conrad e Faulkner, siamo consapevoli che la vita si traduce solo in sconfitte; ciò nonostante, ci impegniamo ugualmente a fare il meglio che possiamo, se non altro per rispetto di noi stessi, per senso del dovere e per fare onore a quel poco o tanto di talento che abbiamo ricevuto in sorte.

di Mammi ha detto...

Dionisio
sostanzialmente siamo d'accordo, anch'io penso che si vada verso un epoca di barbarie, per questo condivido quando dici:
".... ci impegniamo ugualmente a fare il meglio che possiamo, se non altro per rispetto di noi stessi, per senso del dovere e per fare onore a quel poco o tanto di talento che abbiamo ricevuto in sorte."

E quindi soprattutto per noi stessi.
ciao
Marcello

Hesperia ha detto...

Un'altra cosa volevo aggiungere sui rapporti tra l'America e il vecchio mondo. Hai citato H. James ed è un po' luogo comune dire che molti scrittori americani abbiano avuto influenza e frequentazione col vecchio mondo europeo. Poe visse a lungo in GB, T.S. Eliot nato statunitense acquisì la cittadinanza britannica e Ezra Pound scrisse perfino in Italiano e in latino, Fitzgerald si trapiantò in Francia (Costa azzurra) e fu fortemente influenzato da Conrad . Ecco vorrei aggiungere che quella crisi morale che ci investe, investe anche le arti e la letteratura in Usa dove ormai trionfano gli "instant book" alla Dan Brown, alla John Grisham. Poi ci sono letterature di genere come le spy story, i thriller ecc. (Ken Follet, Le Carrè e così via).
I "prodotti" librari vengono già concepiti per essere venduti in ampie tirature mediante sapienti inchieste di marketing.
Ma man mano che verranno avanti i mezzi tecnologici e audiovisivi, la scrittura diventerà sempre più veloce, labile ed effimera e il romanzo come possibilità di ripensare alla condizione umana, temo sarà solo un bel ricordo.

dionisio ha detto...

Hesperia, metti il dito sulla piaga. Sappiamo tutti che la barbarie incombe, e incombe su tutti i fronti. La cattiva letteratura, o meglio la non letteratura che oggi dilaga nel mondo, trova il suo punto di partenza proprio da lì, dall'America. Lo stesso accade per la cattiva economia, o meglio la non economia. Ma non scherziamo nemmeno in Europa, quanto a barbarie, che, per l'appunto, non è alle porte: è già dilagante. Gli scrittori di cui parliamo erano ancora dei giganti, perché, sebbene registrassero il disfacimento della realtà e l'approdo verso il nulla (poiché erano testimoni autentici del loro tempo e quindi ne descrivevano le caratteristiche), lo facevano molto bene perché si erano nutriti ancora degli strumenti che forniva la grande cultura che avevano alle spalle. Ma oggi il contatto con quella cultura è quasi spezzato. Chi ne ha conservato ancora un po' di memoria, appartiene alla categoria degli ultimi samurai. Ma ce ne sono sempre meno.

dionisio ha detto...

Volevo aggiungere due cose, prendendo spunto dalle note di Marcello e di Hesperia.
Marcello, la rex extensa resta, in teoria, ab aeternum se la poni nel web; e quindi quello che abbiamo scritto magari di fretta, senza troppo preoccuparci dell'ortografia e neppure della sintassi (come spesso avviene in questi commenti) rimane nostro malgrado (e a nostro ludibrio) sotto gli occhi della posterità (confondendosi in mezzo a un miliardo di sciocchhezze e spazzatura letteraria varia, ma insomma resta perché, a quanto ne so io, non c'è verso di cancellarlo, e quindi finché esisteranno i computer e il sistema internet bisognerà sorbirseli). Saremo immortalati quindi anche per le sciocchezze e gli strafalcioni che avremo scritto.
Hesperia, ho visto in TV che addirittura i libri si potranno leggere sui computer di prossima generazione (che però ormai sono già qui) semplicemente facendo scorrere le righe e voltando le pagine ponendo un dito sullo schermo; schermo - pare - molto meno affaticante per gli occhi degli attuali. Insomma stanno facendo di tutto per eliminare il libro fatto di carta, quello su cui siamo cresciuti noi e che (almeno io) abbiamo amato come un oggetto prezioso da conservare tra le cose più care della nostra vita.
Su questa strada, altro che incentivare alla lettura e a riscoprire la buona (e vera) letteratura! Ogni cosa si farà sempre più di corsa, quindi anche la lettura, e addio al godimento che dà scorrere lo sguardo sulle righe e "seguire" Fabrizio del Dongo mentre galoppa sul suo cavallo per raggiungere l'armata di Napoleone, o "sentire" il battito del cuore di Jim Hawkins quando, nascosto nel barile delle mele sul ponte dell'Hispaniola, ascolta il piano di Long John Silver e dei suoi compari bucanieri per trucidare capitano e ciurma dei galantuomini non appena questi li avranno condotti al nascoglio del tesoro del pirata Flint.
Ma è probabile che i nuovi barbari cancelleranno la digitalizzazione e, forse, in qualche catacomba o convento nascosto in cima a un monte qualche amanuense continuerà a ricopiare i testi più belli e importanti della letteratura e del pensiero mondiale. E qualcuno poi li riscoprirà per avviare un'èra di rinascita. Amen.

Hesperia ha detto...

Posso essere malpensante? Con la digitalizzazione si vuole cancellare la memoria: libri comodi e scomodi in un sol colpo.
L'universo di Bradbury descritto in Fahrenheit 451 è già qui e non ci sarà nemmeno bisogno di pompieri brucialibri per realizzarlo. Basta l'high tech.

di Mammi ha detto...

Dionisio
Giusto: la res extensa può rimanere nel web (questo lo decide il provider) ma, non esistendo più la res cogitans, che importanza ha?
Purtroppo blogger non permette la correzione dei commenti, ad esempio, ho scritto "un'epoca" senza apostrofo, quando me ne sono accorto era troppo tardi, avevo già premuto invio…
In questa piattaforma è impedita "la revisione faulkneriana". eheheh
Per quanto riguarda i pc che si usano con le mani (touchscreen), per sfogliare, aprire o chiudere pagine l'ho comprato da sei mesi. In più ha la possibilità di eseguire comandi o di scrivere in word "parlandogli", ma alla fine stanca, pertanto uso, quasi sempre, tastiera e mouse.
Successivamente, forse, inventeranno pc a controllo cerebrale, a controllo visivo ci sono già, anche se sperimentali, e poi chissà che altro. Sempre che la tempesta barbarica, che si sta addensando, non spazzi via anche la scienza.
Il piacere di sfogliare un libro è impagabile specie se è antico.I libri antichi sono "umani", con le loro imperfezioni, con i loro caratteri ormai obsoleti, con le pagine che mostrano i segni del tempo.
Se pensiamo che l’umanità è passata dai graffiti preistorici ai papiri, alla pergamena e alla carta, difficilmente potremo evitare che prevalga l'uso di nuovi supporti, come il cd (anch'esso ormai quasi superato), pendrive o HD.
Ciao


Hesperia
Giusta osservazione la tua: non sarà più necessario bruciare un’altra volta la biblioteca di Alessandria, sarà sufficiente cancellare i supporti magnetici dei providers oppure modificarli, così il ” grande fratello” avrà concluso la sua opera.
ciao

Josh ha detto...

caro Dionisio, eccomi un po' in ritardo dopo l'ubriacatura (in senso buono) della pausa a metà settimana:-)
Lussureggiante...è l'attributo che mi sorge sempre spontaneo alla lettura dei tuoi pezzi.
La caratteristica della scrittura di Faulkner è proprio come dici la 'prodigiosa ricchezza sintattica e strutturale'. E' la stessa cosa che noto nella sua scrittura sinfonica e che mi affascina.
Toccante anche la sua riflessione in occasione del Nobel.

Josh ha detto...

Devo anche ammettere che F. l'ho letto da ragazzo, e solo in parte...nel periodo dello studio matto e disperatissimo, non mi ricordo tutto tanto bene da entrare in dettaglio. Molto meglio ricordo Conrad, James...e chiaramente la letteratura europea, italiana...latina e greca ahaha per forza.
Quoto il commento di Hesperia sui rapporti tra America e Vecchio mondo e alcune sue valutazioni.

dionisio ha detto...

Ciao, Iosh, benvenuto in questa interessante conversazione. Quoto anch'io le cose che dice Hesperia sul rapporto tra America e Vecchio Mondo. Sono ancora più cattivo di lei: quei pochi buoni scrittori che l'America ha prodotto si sono fatti tutti le ossa o venendo in Europa o studiando a fondo la produzione narrativa e poetica europea (antica e moderna). Ammetto di non conoscere bene i contemporanei. Ho letto due romanzi di Toni Morrison: discreti ma non travolgenti, inoltre è una che si rifà in parte a Faulkner per la scrittura, restando ben lungi dalla sua grandezza di stile e di contenuti (negli ultimi che ha scritto, il critico Harold Bloom dice che è diventata troppo politically correct, pertanto evito di leggerli). Di Nathanael West, di Thomas Pynchon e di Ralph Ellison non ho mai letto niente. Di Cormac MacCarthy ho sentito dire un gran bene (da Harold Bloom, ma anche da alcuni amici miei), ma l'unico libro suo che ho letto, "La strada" (dal quale è stato tratto il film appena uscito con Viggo Mortensen) non mi ha detto un granché, né mi ha particolarmente impressionato l'altro film tratto da un suo libro, "Non è un paese per vecchi". Troppo poco, comunque, per giudicarlo, lo ammetto, tuttavia il suo mondo non mi attrae molto. Vedrò di approfondire. Resta da dire, comunque, che al di là degli studi e dei testi su cui ci si forma, il talento è il talento, e quello o si ha o non si ha (Faulkner, per esempio, è uno che indubbiamente ce l'ha, anche se aver letto e studiato gli autori europei più importanti l'ha aiutato a forgiarlo nel modo migliore).

Hesperia, pensi proprio che la digitalizzazione dei libri nasconda lo scopo di cancellarli? Sono d'accordo con te che esiste un piano (anzi è probabile che nel tempo ne siano stati stesi e via via aggiornati successivamente molti altri, rispetto al primo) per far fuori la nostra civiltà, e che la cancellazione della nostra memoria (oggi particolarmente attiva e agguerrita) rientri in questo piano (o serie di piani successivi), anche se si può anche pensare che, come avviene per le valanghe, basti far cadere la prima pietra dall'alto di una montagna, perché tutta la montagna via via le vada dietro. Gli agenti che si muovono obbedendo ad imput trasmessi da persuasori occulti si trovano facilmente, una volta introdotto un meccamismo di pensiero che orienta le coscienze e quindi le azioni degli uomini.
Insomma, tutto questo per favorire l'avvento della barbarie. Per ottenere che cosa? Questo è un altro discorso, su cui un giorno o l'altro torneremo.
Comunque, quello che voglio dire è che ci sarà sempre chi non rinuncerà al mondo che ha amato; quindi si troveranno in ogni caso gli amanuensi che continueranno a copiare i testi amati per tramandarli, a dispetto del fatto che l'universo di Bradbury prima o poi si realizzi completamente.

Josh, non mi dispiace che tu definisca "lussureggianti" i miei testi. Non è un caso che mi piaccia Faulkner: anch'io prediligo la prosa ricca, densa, con periodi molto ampi anche se equilibrati, ricorrendo spesso alla subordinazione e ad un linguaggio ricco di aggettivi. Un amico prof di greco e latino dice che la mia scrittura ricorda la varietà e insieme l'ampiezza e l'armonia dello stile latino. Peccato che di latino non ricordi più nulla perché l'ho studiato solo alle medie (poi ho fatto gli studi artistici) EMa è anche vero che ho letto e riletto i classici greci e latini, sia pure in traduzione.

Tornando a Faulkner, è vero, spesso non è facile leggerlo (penso, per esempio, ai capitoli storico-narrativi di "Requiem per una monaca" che si alternano alle parti redatti in prosa teatrale, davvero terribilmente complessi); ma nei momenti migliori della sua prosa, questa diventa poesia sublime, paragonabile a certi momenti di Shakespeare. Quando li incontri, apprezzi anche gli aspetti più ostici del suo stile.

dionisio ha detto...

A proposito Marcello, io non faccio il copia e incolla e i commenti li butto giù senza rileggerli, e faccio male perché poi li trovo pieni di strafalcioni. Per esempio mi sono accorto di aver scritto "nascoglio" anziché "nascondiglio", e spesso il genere o il numero non concordano tra soggetto e verbo.

marshall ha detto...

Dionisio,
pericolo scampato.
La lacrimuccia che pensavo mi sarebbe scappata nel leggere questo post, non c'è stata. In compenso, la presentazione che fai, mi ha reso molto simpatico lo scrittore, tanto che questa estate leggerò qualcosa di lui. Ho pensato a L'urlo e il Furore, molto simile, nel titolo, a Furore di Steinbeck, un romanzo che Nessie recensì molto bene nel suo blog, e del quale me ne procurai la copia, senza peraltro averla ancora letta. Per nciso, pare che il tema della Grande Depressione stia tornando d'attualità, nella realtà della vita.

C'è quel passo, del tuo post, che mi ha reso particolarmente simpatico Faulkner, dove scrivi:

"Addirittura certa critica americana, quella più politically correct, cerca di ridurlo al ruolo edificante e consolatorio del difensore dei vinti della storia americana, il Sud piegato e asservito agli yankee del Nord a seguito della Guerra di Secessione, la nobiltà sudista decaduta e votata all’autodistruzione, i neri, gli indiani e i poveri bianchi condannarti all’emarginazione, alla frustrazione esistenziale, alla rivolta e alla violenza. Ma i temi che egli affronta e il suo modo di trattarli non si prestano a letture ideologicamente edificanti. Il suo atteggiamento è di umana compassione ma anche di lucidità priva di moralismi, talvolta non ignara d’una arguzia capace di stigmatizzare senza indulgenza le ipocrisie e le storture a cui gli esseri umani spesso si riducono. Da grande scrittore qual è, sa frugare nel cuore dell’uomo con sguardo limpido e asciutto..."

Quello del politically correct è un tema affrontato spesso da questa rete di blogger. Per noi, quelli che assumono atteggiamenti politicamente corretti, ma che lo fanno con atteggiamento da falsi, oltre che grandi ipocriti sono anche gran ridicoli.

Per non fartelo perdere, e affinchè tu legga la parte finale del commento, lo copio incollo anche sul mio De Marchi e Pianelli.

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