martedì 29 marzo 2011

Le antimemorie di Mario Soldati


Incontrare Mario Soldati per Tellaro di Lerici non era difficile. Il piccolo borgo marinaro di poche anime, considerato tra i più suggestivi della Riviera ligure, è stato davvero animato e impreziosito dalla sua simpatica presenza. E ora che Soldati non c'è più (non vedrà il "nuovo mondo" del 2000 per sua fortuna, poiché morì nel 1999), manca davvero qualcosa d' importante. Egli stesso non disdegnava interminabili partite a carte coi pescatori del luogo, allietate da una buona bottiglia di vino. A quel tempo la sottoscritta faceva collaborazioni saltuarie per un periodico femminile del Canton Ticino, sicché non ebbi difficoltà ad incontrarlo, pensando alla fatidica intervista. Ma la verità è che Soldati, che aveva allora ottantotto anni, mantenne fino all'ultimo il cipiglio burbanzoso, ma bonario del regista e l'intervista se la fece praticamente da sé, decidendone i modi e i tempi. Avevo diligentemente predisposto una scaletta, ma ben presto mi resi conto che avrei dovuto sottopormi alla non facile impresa di seguirlo nelle sue scarmigliate memorie. Anzi, "antimemorie" . In Via D.H. Lawrence, poeta e scrittore inglese da lui amato, nascosta tra il verde.argenteo degli ulivi, quello più scuro dei lecci, dei pitospori e dei pini marittimi, era situata la sua bella dimora, una grande villa con una tenuta molto estesa che degrada verso la scogliera perennemente aggredita dai flutti marini.

- Luce! - intimò imperiosamente entrando in una delle ampie stanze che componevano il suo appartamento-studio situato al piano superiore della grande magione. Mi indicò la lampada del suo ampio scrittoio in legno chiaro col bastone, perché l'accendessi. E a proposito di ciò mi indicò pure gli scalini "assassini" d'ardesia che collegano una delle due stanze comunicanti tra di loro , i quali furono la causa di una brutta caduta con frattura al perone. Ragion per cui, dovette aiutarsi col bastone.
Gli cadde l'occhio sulla copertuna bianca orlata di rosso di
"America primo amore" nei tascabili Mondadori che tenevo sotto braccio, compiaciuto del fatto che avessi letto uno dei suoi libri più felici, mi chiese in che libreria l'avessi comprato. Gli dissi che l'avevo letto di getto e gli chiesi perché non avesse mai pensato di farci un film: sarebbe stata una sceneggiatura perfetta.
- Fallo tu!- mi disse con aria divertita.
Gli chiesi perché mai dopo il 1958 avesse abbandonato definitivamente il cinema (memorabile la sua collaborazione con King Vidor per "Guerra e pace" da Tolstoj).
 - Perché per fare un bel film occorrono troppe cose. Per fare un buon libro, invece, bastano carta e penna.  Eppoi perchè il cinema mi piace ma non quanto la letteratura.

Mi sottopongo al gioco caleidoscopico e arbitrario delle libere associazioni, delle digressioni, degli incisi, a lui così confacenti.

Soldati insieme a Zavattini, suo grande amico con cui girò molti documentari per la Rai (ricordo Viaggio nella valle del Po alla ricerca di cibi genuini), appartiene a quella generazione di scrittori del Novecento che mantiene vivo un senso del magico dell'esistenza ove la letteratura è il demiurgo capace di produrre miracoli anche nella quotidianità. Mi indicò le fotografie appese alle pareti, alcune delle quali ritraggono la prima moglie, "la sposa americana" Marion Rickelmann; in altre, invece la seconda moglie Giuliana (Iucci) Kellermann. Raccontò che poté risposarsi con Iucci solo dopo la morte di Marion, la quale era fervente cattolica e non volle mai saperne di divorziare.
 
- Rickelmann e Richelmy! - sottolinea divertito la somiglianza fonetica tra il cognome della "sposa americana" e quello del suo migliore amico, il poeta piemontese Tino Richelmy. Gli faccio notare che anche Kellermann è assonante con Rickelmann, due cognomi tedeschi.
- Uhm... mein Gott! - sospirò con la sua voce arrochita dal sigaro, come volesse ripensare a tutte le strane coincidenze e corrispondenze della sua vita.
Entrambe le donne avevano in comune una bellezza delicata e immateriale, vagamente sofisticata e poco attinente alle aspettative maschili dell'epoca. Giuliana detta Iucci, pareva uscita dalle commedie di Lubitsch, gli faccio osservare.

- Lubitsch? Come fai a sapere di Lubitsch tu? (sottinteso: che appartieni a una generazione tanto lontana dalla mia).
- Ma anche grazie a lei che nei suoi articoli di cinema ha parlato per primo del Lubitsch touch.

Sorrise compiaciuto lasciando  trapelare in questo suo immutato stupore per le cose, qualcosa di segretamente naif. Si dice che la scrittura sia il doppio dell'artista, ma poche persone rassomigliano a quanto scrivono come Mario Soldati, sicché la sorpresa di conoscerlo è piuttosto quella di riconoscerlo.

  • Tra i ricordi di un vecchio scrittore regista
Da una stanza all'altra, da uno scaffale all'altro, si aveva la sensazione di attraversare il tempo da fermi. L'occhio mi cade sui volumi di Sainte-Beuve, scrittore di culto di Soldati. Poi Diderot, Voltaire, Balzac, Hugo, Flaubert. Alla letteratura francese, egli deve molto di quel suo stile così limpido e cristallino. Tra i suoi prediletti in lingua inglese, spiccano i romanzi Henry James, di  Conrad, i racconti di Stevenson tanto confacenti al suo spirito avventuroso.
Si passò in rassegna ricordi, testimonianze, lettere di vecchi amici (molti dei quali scomparsi in età prematura): quelle di Truffaut pubblicate nel volume "Autoritratto", i viaggi, i soggiorni negli States, le sue "lezioni americane" alla Columbia University; i suoi film, tra i quali il poco conosciuto "La mano dello straniero" da un soggetto di Graham Greene con Trevor Howard e Alida Valli dall'algida bellezza, un film che inspiegabilmente non ottenne successo; poi "Le miserie di Monsù Travet" da Bersezio, con Carlo Campanini nel ruolo dell'umile impiegato "mezze maniche" dalla tragica nobiltà gogoliana.
- Il nome di Soldati resta indissolubilmente legato a quello di Fogazzaro - gli dissi. Lei ha trasferito sullo schermo anche Malombra con Isa Miranda e Piccolo mondo antico con Alida Valli, attrice scoperta e lanciata proprio da lei, e anche il Daniele Cortis.

- Sì, Fogazzaro piaceva molto a mia madre, molto religiosa, e Fogazzaro, con quella sua religiosità un po' morbosa, le era congeniale. Per farle un dispetto io invece lo ignoravo finché venne il giorno che mi commissionarono il film tratto da Piccolo mondo antico. Così fui costretto a leggerlo in una notte.

Da ultimo mi mostrò una testimonianza scritta da Moravia apparsa nella rivista "La fiera letteraria" nella quale racconta di conoscere Mario Soldati da più tempo di qualunque altro amico-collega e di averne sempre apprezzato la schietta vitalità e il coraggio. Da bambini si recavano in villeggiatura a Viareggio con le loro famiglie ed erano vicini di ombrellone. "Questo bambino", scrive Moravia "mi era additato come modello: egli aveva salvato un altro bambino che stava affogando nelle acque del Po, a Torino". Cercavo di immaginare i due ragazzini, intenti a giocare nell'arenile della Versilia: l'uno schivo e riservato quanto l'altro era invece scapestrato ed esuberante.
  • Sul finir della visita
Prima che quella visita dell'ormai lontano 6 luglio 1993, volgesse al termine mi regalò due volumi rilegati in rosso e borchiati delle sue opere pubblicate per Rizzoli con la prefazione di Cesare Garboli, da lui autografatemi che custodisco ancora gelosamente. Brontolò un poco dolendosi che Mondadori non gli avesse ancora dedicato il fatidico cofanetto, mentre fu proprio in quell'anno che Adelphi ripubblicò "Salmace", il suo racconto giovanile. Dalla terrazza si scorgeva un mare increspato, dai colori metallici a causa di una calda giornata di scirocco. In lontananza tra la foschia, le sagome delle tre isole Palmaria, Tino e Tinetto. Benché piemontese di tempra terragna, Mario Soldati, da perfetto cittadino del mondo qual era, scelse di vivere (e di morire) al mare, in quella ch'egli stesso definì la "Regione Regina". Il mare, spazio infinito ideale per sentirsi ad un tempo fuori dal mondo e per l'intero cosmo.

Hesperia


martedì 22 marzo 2011

Sofonisba Anguissola e il suo tempo

Anton Van Dyck, giovane ma emergente talento della pittura fiamminga, arrivato a Palermo su invito del vicerè, chiede udienza a una pittrice ultranovantenne dalla fama leggendaria, Sofonisba Anguissola.

E' l'introduzione del libro di Daniela Pizzagalli: La signora della pittura.

Ai tempi di Sofonisba (1532 - 1625) spostarsi era disagevole, oltre che molto pericoloso: il mar Tirreno, che lei ebbe a solcare più volte per recarsi in Spagna, per poi trasferirsi a Palermo, quindi a Pisa e a Genova, era infestato da pirati e saraceni. Ma di lei, pittrice ritrattista tra le più acclamate del tempo, che ha lasciato tracce di vita in quelle località, oggi se n'è quasi persa la memoria. Come si vedrà, era in grado di rivaleggiare alla pari con i più celebrati ritrattisti delle corti reali.
Era nata a Cremona, seconda città del Ducato di Milano per ricchezza e popolazione, e anche lì, come nel resto della Penisola, era in pieno fervore lo spirito rinnovatore del Rinascimento. Suo padre, il nobile decaduto Amilcare Anguissola, faceva parte della corporazione dei fabbricieri del Duomo e del complesso abbaziale della Chiesa di San Sigismondo, la quale aveva preso il posto della preesistente Cappella nella quale furono celebrate le nozze tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza nel 1441 (vedi post Bianca Maria Visconti). All'epoca della prima adolescenza di Sofonisba, nel 1545, oltre 60 pittori erano costantemente all'opera per affrescare gli interni della Chiesa, e suo padre la portava quasi sempre con se nei suoi giri d'ispezionamento dei lavori. E fu così che, intrattenendosi a parlare di arte con loro, Sofonisba acquisì la passione per la pittura, apprendendone i primi rudimenti. Manifestata la sua passione, il padre la mandò così a scuola di pittura presso l'abitazione laboratorio di Bernardino Campi (nella foto qui a lato, assieme alla giovane Sofonisba, ritratti dalla stessa, quindi autoritratto nel ritratto). La sua consacrazione a celebrità avvenne in seguito ad una visita di Giorgio Vasari a casa Anguissola, che rimase stupefatto dalla perfezione di un quadro della ragazza: un affettuoso ritratto di famiglia (foto sotto), con al centro il padre e di lato Minerva, una delle sue cinque sorelle, e il fratello Asdrubale, il più piccolo dei sette. Alla sua consacrazione di eccellente ritrattista ha contribuito anche l'inventiva promozionale del padre. Per tale scopo mandò anche a Michelangelo un plico di disegni fatti dalla figlia, affinchè li esaminasse e desse una sua autorevole opinione: ne fu ben impressionato al punto che uno di quei disegni finì anni dopo nelle mani di uno dei soggetti di quei disegni: Cosimo I de' Medici.
Diventata celebre, Amilcare Anguissola allargò gli orizzonti della sua "iniziativa" promozionale, finchè vennero a conoscenza di sua figlia alla Corte Spagnola, e la richiesero per insegnare pittura alla giovane moglie di Filippo II, che aveva espresso il desiderio d'imparare a disegnare e dipingere. Filippo II, prossimo alle terze nozze, era subentrato al padre Carlo V, che aveva abdicato per passare il resto dei suoi giorni chiuso in un monastero. Dalla prima moglie, Maria di Portogallo, aveva avuto un figlio, Carlo, candidato per essere il futuro re di Spagna, ciò che invece non si realizzò.

Sofonisba partì da Cremona forse alla fine dell'inverno del 1558-59, quando a Milano si stava festeggiando un grandioso carnevale, ampiamente acclamato dalle cronache del tempo, voluto dal nuovo governatore spagnolo per celebrare la sua fresca nomina. L'Anguissola forse non immaginava che nella sua città natia non vi avrebbe più fatto ritorno. Fece così tappa nella città dei Navigli, ospite del governatore duca di Sessa. Il Palazzo ducale sorgeva a fianco del Duomo, nel cuore pulsante della città. Entrando nella quale, sicuramente da Porta Romana, si sarà stupita alla vista della maestose Mura Spagnole, la più grande opera civile realizzata in Europa nel XVI secolo, alla quale stavano dando i ritocchi finali. Nella capitale del Ducato si fermò poco, forse per qualche mese, e nel periodo più esaltante della fase conclusiva del Rinascimento milanese.

L'aspetto complessivo di Milano si era consolidato nelle sue connotazioni attuali fin da quando, nel 1546, fu nominato governatore Ferrante Gonzaga, figlio di Isabella d'Este, la gentildonna più celebre del Rinascimento.
Nei 18 anni della sua permanenza a Milano, 1482-1500, Leonardo da Vinci aveva lasciato impronte idelebili del suo passaggio in capolavori artistici e in somme opere di ingegneria civile e militare. Abbozzi, disegni, progetti di esse si trovano nelle TAVOLE DI LEONARDO DA VINCI che Francesco Melzi aveva ereditato in Francia da Leonardo, e riportate in Italia, a Milano. A quelle tavole fu molto interessata anche Sofonisba "che proprio dai disegni leonardeschi teorizzò quel naturalismo, quella registrazione degli aspetti più quotidiani della realtà, così vicini all'estetica dell'Anguissola" che si riscontrano nelle sue opere. Una conferma della sua capacità di riprodurre nei quadri l'introspezione psicologica cui sottoponeva i personaggi dei suoi ritratti, la vedremo due anni dopo, quando, nel 1561, Sofonisba farà dono a Papa Pio IV di un suo quadro, ricevendone entusiastici complimenti. Il papa milanese, fratello di Gian Giacomo De Medici, detto Il Medeghino e zio di San Carlo Borromeo, era salito al soglio pontificio nel 1559, anno della sua permanenza nella capitale del Ducato, e , sempre in quell'anno, Carlo Borromeo era diventato arcivescovo di Milano. Quando ciò avveniva, Sofonisba era già in Spagna: era il dicembre del 1559. Imbarcatasi a Genova, o forse a Savona, dopo 8 giorni di navigazione Sofonisba e il suo seguito giunsero nel porto di Barcellona; da lì presero la strada alla volta dell'interno della Spagna. Madrid, scelta in quegli anni a capitale del regno da Filippo II, in alternativa alla più blasonata Toledo, non era ancora pronta per accogliere la nuova Regina che sarebbe arrivata da lì a poco da Parigi, col suo numeroso seguito. Sarebbe stata nel frattempo accolta a Guadalajara, dove si diresse anche il gruppetto di Sofonisba.
La nuova regina, Isabella (foto), o Elisabetta di Valois, figlia di Enrico II di Francia, e Caterina de Medici, in un primo tempo era stata designata quale moglie per Carlo, suo coetaneo e figlio di Filippo II, avuto dalla prima moglie, Maria di Portogallo. Secondo quel progetto iniziale Filippo II avrebbe quindi dovuto diventare suocero e non marito di Isabella, ma quel piano era totalmente svanito quando Carlo aveva dato chiari segni di squilibrio. E quando re Filippo rimase vedovo per la seconda volta, decise di sposare lui la giovane Isabella (che alla partenza da Parigi aveva solo 13 anni), per questioni politiche e per assicurarsi una prole più sana. Carlo per non diventare di pericolo a qualcuno, fu poi rinchiuso in una prigione da suo padre, nella quale il giovane si lasciò morire d'inedia.

(segue)
Il dramma di Carlo, Isabella e Filippo è ben descritto nell'opera di Verdi, Don Carlo.
Qui la prima parte dell'opera, col tenore Salvatore Licitra nella parte di Carlo, nella rappresentazione del 25 ottobre 2010 presso la Los Angeles Opera. Ma l'aria più bella, secondo i miei gusti, è "Ella giammai m'amò", nella quale re Filippo II confesserà di non essere mai stato amato da Isabella. L'aria qui riproposta è interpretata dal basso Ferruccio Furlanetto, lo stesso che ha cantato a Los Angeles in coppia con Licitra, ma nella versione scaligera del 7 dicembre 2008.

Post correlati
L'Italia da salvare e da preservare (top post)
Navigli amore mio
La memoria storica dei Navigli a Milano e dintorni
Milano in gondola
Naviglio, cuore di Milano (nella foto n.14 si può vedere com'era il ponte di Porta Romana)
Bibliografia: La Signora della Pittura, di Daniela Pizzagalli -Rizzoli

martedì 15 marzo 2011

Cultura, Umanità, Web e 84 Charing Cross Road


Da quando, ormai da qualche anno, si è diffuso l'uso di internet,
molte sono state le interpretazioni del fenomeno, in ambito mediatico, pubblicitario, estetico e filosofico, con conseguenti a volte troppo facili esaltazioni a tutti i costi, così come esagerate demonizzazioni.
Solo ultima di questi giorni è l'esagerazione che dipenderebbero da internet o da Facebook di Mark Zuckerberg (il sito faccialibro in cui mettere in vista solo le porcellane buone, inventarsi un'immagine pubblica di sè, in cui è scomparsa la privacy, e poter confrontare le belle figliuole a livello mondiale) le "rivoluzioni" in zona Maghreb e non dagli USA che le hanno attentamente preparate e sobillate, come invece è chiaro ai più attenti,
o la sciocchezza che l'arrivo di internet o Facebook costituirebbe per un popolo... la "democrazia".
Non avendo tempo da perdere con la vulgata (per essere educati), ci fermiamo a un livello differente, stavolta.
Il primo aspetto da puntualizzare sarà invece di una semplicità estrema:
come medium (inteso, singolare di media, che è latino e non inglese, come da pronuncia televisiva sbagliata che si sente in giro) il web è un mezzo, appunto, in sè vuoto, o quasi, non fosse per qualche pubblicità di troppo e imposizione guidata di modelli tendenti all'unico-spersonalizzante; poi, dipende chi ci s'incontra, gli scopi della comunicazione, e in soldoni, cosa ci mettiamo dentro anche noi utenti finali e che rapporti intratteniamo.


In questa ottica, internet può essere anche cultura, o meglio spolverata di cultura, perchè la cultura si fa altrove, sui libri, centinaia, migliaia, in più lingue, antiche e moderne, acquisendo abilità, chini per anni e anni in biblioteca, o svolgendo professioni in cui si produce cultura per gli altri, ma un riflesso di quell'impegno a quel punto si può trasferire anche sul web.
Conta ancora il lato umano, quindi la parte di anima che distilliamo in ciò che scriviamo o creiamo, anche sul web. Ecco allora che a quel punto anche il web inizia a rappresentare un mezzo attraverso cui può passare un valore, ma solo a queste condizioni, almeno a mio personale avviso.
Per non essere troppo vaghi, porterò un esempio, ovviamente nato al di fuori di internet, ma che condivide una riflessione sul potere della scrittura a distanza e del confronto tra spiriti, a volte, in parte affini.


"84 Charing Cross Road" è un film del 1987, diretto da David Hugh Jones, impreziosito dalla presenza di alcuni attori di spessore: Anne Bancroft, Anthony Hopkins, Judy Dench e molti altri. Un film anticinematografico in un certo senso, perchè si sviluppa a partire da lettere private, in base a scrittura e riflessioni, intorno ad un rapporto epistolare e non ruota intorno a grandi azioni o fatti rutilanti da mostrare.

(la locandina)

Un film sulla scrittura a distanza, sui libri anche, da cui alcune intuizioni sono applicabili anche al rapporto tra utenti in Internet oggi, qualche decennio dopo.
La trama è tratta dalla raccolta epistolare di Helen Hanff (il suo libro è del 1970):
una scrittrice americana, la stessa Helen Hanff interpretata dalla Bancroft nel film, vive a New York, e alla ricerca di alcuni libri di pregio, si rivolge ad una libreria specializzata a Londra (ubicata all'84 di Charing Cross Road, appunto). Per Helen, partendo dall'ordine di libri oltreoceanico, incomincia così un rapporto umano-epistolare con il direttore della libreria, Frank Doel (interpretato da Antony Hopkins), in cui ci si scrive spaziando a svariati campi dell'umanità, a parte gli ordini strettamente librarii.


La libreria è realmente esistita a quell'indirizzo, si chiamava Marks & Co.
Oggi c'è anche una targa commemorativa.

(la targa)

Helen e Frank non si incontrano mai, ma diventano amici scoprendo affinità e il piacere dello scambio, tramite una corrispondenza ventennale, nella condivisione di interessi ed emozioni comuni (la letteratura, i libri, vari sprazzi dalle proprie vite).
Nelle lettere dibattono tra l'altro sui Sermoni di John Donne, ricette di budino, l'Incoronazione di Elisabetta II, e i temi del tempo della loro corrispondenza tra 1948 e 1968.
Tra i libri fuori stampa ordinati da Helen figurano edizioni particolari di "Orgoglio e Pregiudizio" di Jane Austen, Catullo, Orazio, Platone, la Vulgata, il Nuovo Testamento in greco, "I racconti di Canterbury" di Chaucer, Tocqueville e Virginia Woolf...
Per vari impegni, Helen rimanda la visita in Inghilterra fin quando sarà troppo tardi: Frank muore di peritonite nel Dicembre 1968.
Alla fine Helen visiterà Charing Cross Road di cui conosceva i dettagli, i racconti quotidiani, e vedrà la libreria vuota nell'estate del 1971, un viaggio che descriverà nel libro successivo del 1973 "La duchessa di Bloomsbury Street".

(Marks & Co, la libreria)

Un libro e un film intenso questo 84 Charing Cross Road,
particolare e introspettivo anche nella versione cinematografica, che può insegnare molto su come rendere istruttivi e profondi i rapporti anche nell'era della scrittura internettiana;
una meditazione sulla scrittura a distanza, sottile, che può accomunare le persone in quanto si sono scelte per le loro interiorità specchiate nel rispettivo scrivere, nella gratuità, e non per altri motivi.
A volte le vicende narrate, come qui tra noi, non sono fantasia, ma accadono ancora.

Josh

lunedì 7 marzo 2011

La liuteria, antica arte italiana della lentezza



Il liutaio è uno di quegli antichi mestieri di nicchia che si tramanda di padre in figlio. Grandi furono le antiche famiglie di liutai. Forse non è del tutto in via d'estinzione in quanto Cremona ha ancora prestigiose scuole di Liuteria, frequentate da allievi provenienti da ogni parte del mondo. Ma certamente non è un'arte alla portata di chiunque. La sottoscritta ha visitato un paio di antiche botteghe artigiane di liutai di provincia, immerse in atmosfere fuori dal tempo, atmosfere  ben descritte dal regista Claude Sautet nel film "Un cuore in inverno". La personalità del liutaio è quella di un individuo riservato, ad un tempo umile e nobile; la sua ingegnosità mai tronfia né altezzosa. Parla poco e fa molto.


Strumenti di estrema sensibilità, il violino, la viola, il violoncello sono i componenti più importanti della grande famiglia degli archi, grazie ai quali si possono ottenere delicate sfumature di fraseggio e di intensità musicale. Suono limpido e freddo il primo, suono più caldo il secondo, suono grave e profondo il terzo. Il liutaio trascorre gran parte delle sue giornate circondato da lime,sgorbie, scalpelli, dime, assi, listarelle, ciocchi di abete rossi del Trentino e di aceri. Ma anche di vernici, resine vegetali, minerali, olii essenziali che sa amalgamare in modo personale fino a trovare giuste formule ed efficaci preparati con la meticolosità di un antico speziale. Dato che "una buona vernice, oltre ad abbellire lo strumento, deve lasciare vibrare il suono, in un certo senso accompagnarlo", come ebbe a spiegarmi un antico liutaio di Induno Olona in provincia di Varese. "Una cattiva vernice invece lo opprime".



Componente principale delle vernici per strumenti ad arco è la radice di robbia, rizoma pigmentifero di una pianta africana già conosciuta ed impiegata dal leggendario Antonio Stradivari. L'alchimia delle vernici e la sua preparazione è uno dei grandi segreti artigianali dei liutai italiani.

I violini raggiunsero la loro forma definitiva e insuperata nelle mani delle famiglie Amati, Stradivari , Guarneri, Bergonzi durante il XVII e XVIII secolo.

 L'ALI di Cremona è  l'Associazione Liutaria Italiani, con scopi esclusivamente di assistenza culturale e tecnica dei propri iscritti.

Vedere gli strumenti ancora fiammanti e lustri di vernice fresca, esposti ad asciugare, è comprendere che basta la loro presenza per arredare stanze di botteghe artigiane sempre calde, accoglienti che profumano di antico, per le quali siamo stati (e ancora siamo) famosi nel mondo.
Certamente le scuole di liuteria sono utili in quanto accorciano il percorso della ricerca individuale, ma se l'allievo è davvero bravo sa che pur seguendo i dettami della scuola,  deve poi distaccarsene ed esplorare da solo, altrimenti il suo prodotto diventerà uguale a quello di molti altri. "Occorre sperimentare, patirci sopra..." mi disse l'antico liutaio.

Già, patirci sopra, passione: termini che fanno pensare ad una dedizione totale ed esclusiva non esente da qualche sofferenza e travaglio. Ma gli inevitabili ostacoli e sofferenze vengono largamente ricompensati dalla nascita di autentici gioielli. L'antico liutaio non ama concedere interviste e pur avendo clienti prestigiosi italiani e stranieri tra i più virtuosi musicisti del violino, è capace di dire con modestia "ma di questo importante Maestro per favore non ne scriva; tengo molto alla sua amicizia e alla sua stima e non voglio nascondermi dietro al suo nome per farmi bello o magari per farmi pubblicità".

Di grazia, in questi tempi di volgare bovarismo chi è capace di essere tanto discreto, modesto e riservato?

Per fare un buon violino occorrono come minimo due mesi lavorando alacremente dalle 10 alle 12 ore al giorno. Per una viola anche di più. Per un violoncello occorrono oltre tre mesi. Possiamo dunque dire che il liutaio è il mestiere (o arte) della lentezza creativa, in contrasto con la rapidità e chiassosità dei tempi attuali. Ed è a tutt'oggi erede di un periodo in cui arte e mestiere erano intimamente e indissolubilmente legati. 

Non tutti i maestri liutai devono necessariamente essere esecutori di strumenti ad archi. Tuttavia chi sa suonare acquisisce una sensibilità in più che può mettere a frutto nel suo lavoro.

E' stato il caso del liutaio da me incontrato che nelle ore libere dal lavoro si dilettava a suonare uno dei suoi violini. Averlo ascoltato mentre eseguiva il famoso Trillo del Diavolo di Tartini è stata un'esperienza che suscita fremiti arcani, forse perché il suono del violino è così somigliante alla voce umana. O forse perché il Diavolo, le streghe e il violino sono miti romantici che hanno a lungo colpito l'immaginazione popolare. E del resto sia Tartini che Paganini sono stati posseduti dal daimon (demone) del loro virtuosimo. E che dire dei tzigani e del violino, connubio perfetto in odore di zolfo?

Fatto si è che muoiono i grandi violinisti ma restano le loro leggende imprigionate tra il piano armonico, le corde e gli archetti.

Ai giovani talenti musicali il compito di rinnovarle e resuscitarle. Ai bravi liutai, il compito di preservarle. I liutai, catturati nella loro gestualità in preda al sacro fuoco della loro arte, hanno ispirato anche molti celebri dipinti ed incisioni (in alto a calori un dipinto di Stradivari mentre crea).

Più poeticamente melanconici  invece i due ritratti di  Giacomo e Leandrino Bisiach,  celebre famiglia di liutai milanesi (il cui capostipite fu Leandro senior) nelle incisioni in bianco e nero di Benvenuto Disertori.


Hesperia