lunedì 31 maggio 2010

WILLIAM FAULKNER, CANTORE DELLE LACERAZIONI DEL CUORE

-->

La scrittura di William Faulkner colpisce e avvince per la sua originalità, per la sua prodigiosa ricchezza sintattica e strutturale, per la complessità e sinuosità dei suoi periodi, paragonabili spesso a torrenti in piena di cui talvolta si stenta a seguire il corso, infine per l’acutezza psicologica con cui riesce a restituire i personaggi – il tutto fuso in un pathos potente e pervasivo che si traduce nei momenti più elevati in poesia rapinosa. In questi momenti si viaggia dentro la scrittura di Faulkner come all’interno d’una grande sinfonia polifonica che riesce a fondere il linguaggio alto e raffinato della tradizione narrativa più nobile con le tecniche sperimentali del flusso di coscienza e del monologo interiore in una mirabile armonia, fitta di digressioni e contrappunti, che sfida qualunque paragone. Senza dubbio si tratta d’una prosa difficile, dove il lettore superficiale o disattento rischia facilmente di smarrirsi, ma stiamo parlando, com’è ovvio, di musica per orecchie allenate ad assaporare la consonanza più articolata degli accordi e la ricchezza più raffinata dei suoni; roba per palati fini, insomma; eppure, a ben guardare, meno di quanto possa sembrare. Si è spesso affermato che Faulkner discende dalla tradizione sperimentale di scrittori europei di tecnica sopraffina come James Joyce, Virginia Woolf e Marcel Proust; e si capisce perché, in quanto è evidente che questi scrittori il nostro autore li ha letti attentamente e ne ha assimilato fino in fondo le tecniche; ma, ciononostante, nella sua scrittura si sente una spontaneità infinitamente maggiore dei suoi modelli, una spontaneità per certi versi popolare e istintiva, quella d’un narratore di storie dotato naturalmente d’una capacità affabulatoria così straripante e incontenibile da costringerlo a inserire nel suo narrare tutte le divagazioni, le variazioni e le parentesi che la vena gli suggerisce. In questa tendenza, che è popolare e colta al tempo stesso, risiede per l’appunto l’originalità e la grandezza di Faulkner; addirittura, se vogliamo, il suo limite, giacché quel rischio di impantanarsi nella complessità del suo stile a volte lo corre lui stesso, quando l’ispirazione cede per un momento e il lettore avverte come un ansare del linguaggio, un capzioso girare attorno all’argomento come accade al raccontatore che si sia lasciato troppo trasportare dal suo estro e rischi di smarrire il filo principale del discorso. Ma sono solo attimi, brevi lacune di chi è costretto a padroneggiare una capacità oratoria fluviale e debordante e di cui comunque non perde mai il controllo; in certi casi, addirittura, riesce a trarsi fuor dalle secche con una trovata tecnicamente geniale, come quando, resosi conto d’essersi lasciato trasportare troppo avanti nella presentazione di un personaggio o di un fatto, smette la narrazione e, senza mettere il punto, va a capo e la riprende, omettendo la maiuscola, dal momento in cui l’ha cominciata (si veda, ad esempio, l’inizio del racconto Fu, incluso nel volume Scendi Mosé). Il che, sia detto per inciso, è il modo migliore di far uso dello sperimentalismo, quello efficace e funzionale alla comprensibilità del racconto, non come è stato spesso applicato in passato da tanti scrittori, in maniera gratuita e poco utile, quando non addirittura incomprensibile.
Ma lo stile di Faulkner è degno di nota soprattutto se lo si considera in rapporto alla letteratura americana. Personalmente non vado pazzo per la narrativa americana, contraddistinta per lo più da una cifra asciutta e minimalista (a parte quella di alcuni scrittori come Herman Melville, per l’afflato epico che la contraddistingue, e quella di Henry James per la sua eleganza e complessità, che però ha trovato il proprio terreno di sviluppo in una lunga permanenza in Europa), cifra poco congeniale alla mia inclinazione per la scrittura doviziosa, di gusto barocco (da intendersi, naturalmente, nel senso migliore del termine, non nell’accezione negativa che taluni erroneamente gli attribuiscono, perché il Barocco fu un periodo quanto mai fulgido e fecondo della cultura europea). Faulkner, in verità, è un caso più unico che raro nell’ambito della letteratura americana. Almeno per la scrittura, egli sembra appartenere più alla cultura europea che a quella americana. Forse perché nato nel Mississippi, in uno di quegli stati del sud che fu a lungo sotto il dominio della Francia prima che la sostituisse l’Inghilterra, sembra abbia assorbito in profondità la ricchezza e raffinatezza della cultura francese sette-ottocentesca, pur restando, nell’indole e nella mentalità, profondamente americano. Del resto conosceva così bene il francese che fu lui stesso a collaborare minuziosamente alla traduzione in quella lingua de L’Urlo e il Furore, uno dei suoi libri stilisticamente più complessi. E poi era cresciuto alternando alle letture d’autori di lingua inglese – Shakespeare, Conrad, Eliot, Keats e, appunto, Joyce e la Woolf – molte altre d’autori di lingua francese, come Balzac, Baudelaire e Proust. Conosceva, peraltro, anche i classici, Omero anzitutto, come si evince da un passo di quello stupendo racconto intitolato L’orso (incluso anch’esso in Scendi Mosé), che narra di una lunga caccia “nella terra in cui il vecchio orso si era guadagnato un nome (Old Ben) e attraverso la quale correva neppure come una bestia mortale ma come un anacronismo indomabile e invincibile sgorgato fuori da un tempo antico e sepolto, un fantasma, un’epitome e un’apoteosi della antica vita selvaggia su cui si avventavano per demolirla a piccoli colpi in una furia di avversione i piccoli e meschini esseri umani simili a pigmei intorno ai malleoli di un elefante assopito: il vecchio orso solitario, indomabile e solo, rimasto vedovo, senza figli e assolto dalla mortalità: vecchio Priamo orbato della vecchia moglie e sopravvissuto a tutti i suoi figli”.
Abbiamo letto un bell’esempio della prosa di Faulkner. Ho detto anche dell’acutezza psicologica con cui i personaggi si stagliano sulla sua pagina. Sentite come descrive un capo indiano che si presenta davanti al Presidente degli Stati Uniti in persona per ottenere il suo giudizio in un complicato affare d’omicidio, commesso non si sa quanto intenzionalmente dal nipote a danno di un uomo bianco durante una corsa a cavallo organizzata presso il guado di un fiume (il racconto, d’epoca e ambientazione che possiamo definire western, si intitola appunto Il Guado e figura nel volume I Negri e gli Indiani pubblicato anni fa da Mondadori) : “E ora il Presidente e il segretario sedevano dietro al tavolo sgombro e guardavano l’uomo che stava ritto e come incorniciato dalle porte aperte dalle quali era entrato, tenendo il nipote per mano come uno zio che per la prima volta conduca un giovane parente provinciale in un museo cittadino di figure di cera. Immobili, essi contemplavano il molle uomo panciuto che stava davanti a loro con la sua molle, gentile faccia ermetica… il lungo naso da monaco, le palpebre sonnolente, il doppio mento cascante, color caffellatte, emergente da uno spumeggiar di merletto sudicio di un’eleganza da cinquant’anni superata e svanita; la bocca era piena, piccola e molto rossa. Eppure dietro all’espressione del volto flaccido e greve di delusione, come dietro alla voce gentile e a quella leziosità quasi femminile, in qualche punto s’annidava qualcos’altro: qualcosa d’ostinato, d’astuto, imprevedibile e dispotico.”
Sono solo alcuni personaggi di quella vastissima e fascinosa commedia umana che si sviluppa nell’immaginaria contea di Yoknapatawpha del Mississippi, che significa grosso modo “Terra spaccata”, lo spazio mitico dominato dal conflitto tra le razze bianca nera e indiana, tra il passato e il presente e tra il bene e il male, illustrato da Faulkner attraverso le saghe familiari dei Sartoris, degli Snopes e dei Compson e che si traduce in numerosi volumi, tra cui Santuario, L’urlo e il Furore, Non si fruga nella polvere, Assalonne Assalonne!, Gli invitti, Luce d’agosto, Mentre morivo, Requiem per una monaca. Faulkner è uno degli scrittori più importanti del Novecento, della cui grandezza il mondo letterario, ancor oggi, non è forse del tutto consapevole e il cui valore, beninteso, non è solo di carattere estetico. La sua arte ha una valenza universale che investe i grandi temi dell’umanità, ma che l’attuale miopia del mondo letterario accademico tende a disconoscere e a minimizzare. Addirittura certa critica americana, quella più politically correct, cerca di ridurlo al ruolo edificante e consolatorio del difensore dei vinti della storia americana, il Sud piegato e asservito agli yankee del Nord a seguito della Guerra di Secessione, la nobiltà sudista decaduta e votata all’autodistruzione, i neri, gli indiani e i poveri bianchi condannarti all’emarginazione, alla frustrazione esistenziale, alla rivolta e alla violenza. Ma i temi che egli affronta e il suo modo di trattarli non si prestano a letture ideologicamente edificanti. Il suo atteggiamento è di umana compassione ma anche di lucidità priva di moralismi, talvolta non ignara d’una arguzia capace di stigmatizzare senza indulgenza le ipocrisie e le storture a cui gli esseri umani spesso si riducono. Da grande scrittore qual è, sa frugare nel cuore dell’uomo con sguardo limpido e asciutto, consapevole delle drammatiche lacerazioni prodotte da un retaggio di schiavismo e di violenza rimasto vivo nella memoria e nel sangue del popolo americano. Del resto fu lui stesso a dichiarare con chiarezza, nel discorso di accettazione del Premio Nobel che gli fu conferito nel 1950, di essere interessato ai “problemi del cuore umano in lotta con se stesso: questo soltanto può generare una scrittura efficace, poiché di questo soltanto val la pena di scrivere”.
DIONISIO

lunedì 24 maggio 2010

Il viaggio, il sogno, l'altrove e l'illusione odierna

Mon enfant, ma soeur,
Songe à la douceur
D'aller là-bas vivre ensemble !
Aimer à loisir,
Aimer et mourir
Au pays qui te ressemble !
Les soleils mouillés
De ces ciels brouillés
Pour mon esprit ont les charmes
Si mystérieux
De tes traîtres yeux,
Brillant à travers leurs larmes.



Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté

Des meubles luisants,
Polis par les ans,
Décoreraient notre chambre ;
Les plus rares fleurs
Mêlant leurs odeurs
Aux vagues senteurs de l'ambre,
Les riches plafonds,
Les miroirs profonds,
La splendeur orientale,

Tout y parlerait
À l'âme en secret
Sa douce langue natale.
Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Vois sur ces canaux
Dormir ces vaisseaux
Dont l'humeur est vagabonde ;
C'est pour assouvir
Ton moindre désir
Qu'ils viennent du bout du monde.

- Les soleils couchants
Revêtent les champs,
Les canaux, la ville entière,
D'hyacinthe et d'or ;
Le monde s'endort
Dans une chaude lumière.

Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Quando Charles Baudelaire scrisse questi versi di Invitation au Voyage (vedere la traduzione qui), non poteva certamente immaginare che il viaggio dove tutto era Ordine e Bellezza, Lusso, Calma e Voluttà, dove i vascelli dall'umore vagabondo dormono pigramente sui canali nella luce dorata di un tramonto, dovesse diventare il frenetico viaggio di un uomo d'affari che prende l'aereo con la sua valigetta 24 ore, o moltitudini di turisti "mordi e fuggi" che prendono d'assalto torpedoni, treni, traghetti, che lordano dove passano e che nell'arco di una giornata devono consumare il più grande numero possibile di visite "guidate" ai monumenti, a piazze, palazzi d'epoca, città e paesaggi. Il periodo romantico e tardoromantico (Mario Praz mette giustamente il decandentismo e il simbolimo nel tardo romanticismo) ha spesso celebrato il mito dell'altrove, come metodo di vita (Rimbaud: "la vita è altrove", Paul Gauguin e la sua fuga a Tahiti).

L'Odissea è il poema che più d'ogni altro ha cantato la fuga, l'evasione, l'esotismo, la trasgressione nell'eroe più antico e più moderno di tutti i tempi: Ulisse.

Viaggio attraverso l'Ade e i suoi defunti che egli interroga, così come viaggio alla scoperta di terra nuove e lontane, sfidando i perigli tra fortunali spaventosi e creature mostruose: sirene, ciclopi, Scilla e Cariddi.

Potremmo dire forse che tutta quanta la letteratura ha parlato in pari misura di viaggi orizzontali (cioè geografici) e verticali (cioè quelli della mente e dello spirito). Virgilio nell'Eneide, Dante e la sua retta via smarrita nella "selva oscura",  nelle sue tre Cantiche della Commedia, i poemi cavallereschi, la Ricerca del Santo Graal di Chrétien de Troyes , il romanzo picaresco del Don Chisciotte del Cervantes,  i viaggi di iniziazione e di formazione nel Bildungsroman: Goethe e il suo Wilhelm Meister, le peripezie di Candido e del suo maestro Pangloss di Voltaire, Thackerey e il suo ambizioso avventuriero Barry Lindon, Robinson Crusoe di Defoe, la sua Isola e il suo diario di viaggio, Verne nei suoi romanzi d'avventure come "Il giro del mondo in 80 giorni" o "Viaggio al centro della Terra"; Stendhal descrive con minuzia le sue "Passeggiate italiane" e volle morire "italiano" nella sua epigrafe di "Arrigo Beyle milanese: visse, scrisse, amò". Goethe fa dell'Italia la sua terra di elezione e di formazione in Italienische Reise (Viaggio in Italia), testo che si può pure leggere partendo dalla fine, a pezzi, a strappi, ricacciarlo in tasca e farlo di nuovo sortire una settimana appresso. Goethe era destinato ad una lunga e laboriosa vita, e a differenza dell’altro innamorato dell’Italia, ammiratore e ammirato, eterno adolescente ribelle George Gordon Lord Byron, il suolo latino è per il tedesco non la tappa di un eterno e dannato vagare, ma il luogo della rigenerazione. Goethe stesso identifica la sua vita con un prima e un dopo l’Italia. E questo è tanto più indicativo se si pensa che, benché ne avesse le possibilità, non fu mai attratto dalle grandi capitali europee. Non mise mai piede a Londra o Parigi, anche quando la sua fama era universale e gli ammiratori ormai non si contavano. In Italia ebbe modo di cristallizzare la propria immaginazione e di mettere alla prova la propria capacità intellettuale uscendo dai ristretti circoli della corte di Weimar.
Conrad è un altro noto scrittore-viaggiatore che nato polacco, scrive in Inglese e mantiene la sua alterità attraverso il personaggio di  Charles Marlow, una sorta di  suo doppio. Sa ricreare in maniera magistrale atmosfere esotiche, ma anche riflettere i dubbi dell'animo umano nel confronto antropologico con terre e popoli selvaggi.



L'elenco sarebbe davvero troppo lungo, poiché la letteratura stessa, in fondo è tutta un grande viaggio d'esplorazione dell'umanità. Perché fin dai tempi memorabili, l'uomo ha voluto varcare confini e terre lontane, incuriosito da altre civiltà, tradizioni, usi, costumi, tramandandoci poi le sue scoperte. Si pensi solo a Marco Polo e a Il Milione, fino ad arrivare a scrittori contemporanei che crearono dei veri e propri luoghi di elezione:  Gide e l'Africa, Hemingway e la Spagna, Fitzgerald e la Costa Azzurra con le sue corse in lussuose auto dei suoi rampolli della gioventù dorata ("i belli e dannati"), Karen Blixen e la sua tenuta nella verde Africa, Camus e l'Algeria, Herman Hesse e i suoi pellegrinaggi in Oriente, Thomas Mann e il lento inesorabile viaggio dentro la Venezia lagunare del colera e dentro la sua stessa morte, mentre contempla estasiato un angelo che, alzando il braccio verso l'alto, gli indica un universo di eterna Bellezza tra mare e cielo: il giovane Tadzio. Il viaggio iniziatico è inoltre una componente importante delle fiabe di magia nella tradizione popolare orale: l'Eroe si allontana da casa, corre dei rischi, affronta dei pericoli, ma poi acquista una nuova consapevolezza e la sua impresa e avventura umana va in porto, mentre il lieto fine è assicurato.

Con l'esplosione della globalizzazione, però questa importante componente dell'umanità si è interrrotta: ora sono i popoli lontani che vengono da noi, e, come è comprensibile, non siamo più così intrigati nel volerne conoscere le usanze. Ora è più facile prendere un volo low cost che procurarsi da mangiare. Con un volo da 100 euro andata e ritorno sei a Londra o a Parigi, ma con la stessa cifra a casa propria, si mangia solo per due settimane e non per tutto il mese. I viaggi e soggiorni tutto compreso come pacchetti d'agenzia sono diventati una merce di consumo, ragion per cui questa importante componente dell'umanità effettuata a  scopo di vera conoscenza, si è interrrotta o modificata in senso peggiorativo. Ai giovani sposi si regala un viaggio, prima ancora che un elettrodomenstico necessario. Ovunque si vada  per il mondo, si sente la stessa musica, si vedono le stesse catene di fast food, gli stessi negozi, le stesse merci, la stessa umanità multietnica mescolata insieme coattivamente. Come ho già  avuto modo di parlare in questo post. Le capitali d'Europa rassomigliano tutte in un'omologazione voluta e auspicata come "il migliore dei mondi possibili", proprio perché ritenuta "egualitaria". Insomma, si viaggia di più, ma si scopre di meno.
La verità è che un tempo il viaggio aveva a che fare col desiderio, col sogno a lungo vagheggiato. Adesso viaggiare e spostarsi è diventato un obbligo, un imperativo. E l'unico modo per trasgredirlo è fermarsi, riflettere, ripensare alla nostra prossima futura vita di esseri stanziali. In altre parole, rifondare la civiltà su altre basi.


Hesperia

lunedì 17 maggio 2010

Breve tra teatro e cinema

In queste pagine si è già fatta notare la derivazione letteraria del cinema (come ne esiste una pittorica-iconica, da un punto di vista visivo) quanto l'idea autoriale della Regia.
In alcuni casi ed epoche invece si assiste ad una parentela più stretta anche del cinema con il teatro: la si nota dall'organizzazione degli spazi visivi nei film, o per la partitura classica del montaggio delle scene, o per un'interpretazione forte e caratterizzata degli attori che supera la pellicola stessa, o per scene insistite in interni o piuttosto statiche, o per il primato della parola e del gesto.

Ci sono svariati testi su questo argomento e lunghi studi specifici per epoca e genere, ma più che un'importante disquisizione teorica, il post stavolta ha solo l'intenzione di ricordare con affetto alcuni grandi attori italiani che hanno lavorato con personalità sia a teatro sia al cinema segnando un'epoca e un gusto.



Carmelo Bene attore, scrittore, drammaturgo e regista di genio quindi Autore a tutto campo di cui segnalo oltre alla rivoluzionaria attività teatrale i film, anche sperimentali e visionari:
"Nostra Signora dei Turchi" (1968) , "Capricci" (1969), "Don Giovanni" (1971), "Salomè" (1972), "Un Amleto di meno" (1972) quest'ultimo tratto da Jules Laforgue, “Hamlet, ou les suites de le pitié filiale” (1877). Densi di riferimenti letterari, teatrali, musicali, pittorici, un unicum anche nella storia del cinema.

E alcune Signore del Teatro italiano che hanno appassionato anche al cinema.




Rossella Falk (qui un bel collage di fotogrammi) una delle migliori attrici di teatro italiane (e non solo) magnetica anche al cinema: presente in 8 e 1/2 di Fellini, ma anche in "Quando muore una stella" di Robert Aldrich, e in film considerati minori dei nostri anni '70,
come "Alba pagana" di Ugo Liberatore, "La tarantola dal ventre nero" di Paolo Cavara, "Sette orchidee macchiate di rosso" di Umberto Lenzi.
In realtà le grandi signore del nostro teatro in quegli anni hanno prestato il volto e la loro recitazione enigmatica al nascente noir italiano dei '70, nobilitandolo e rendendolo un genere studiato parecchio anche all'estero, specie in USA nei decenni successivi (per le soluzioni visive, la scelta degli attori, l'intreccio: chiedere a Tarantino).
Per le interpretazioni teatrali complete non-riassumibili rimando al link, ma vanno citate almeno "Un tram chiamato desiderio" e "La dolce ala della giovinezza" da Tennessee Williams, le "3 sorelle" di Cechov, "Maria Stuarda" di Von Schiller, "L'Aquila a 2 teste" e i "Parenti terribili" da Jean Cocteau, e il recente bellissimo "Sinfonia d'autunno". Forse tra i testi teatrali che preferisco in assoluto.





Valentina Cortese ha avuto una densissima attività cinematografica e teatrale che è impossibile riassumere in 1 sol post, ed è in pratica un'icona del mestiere d'attrice in Italia e nel mondo.
Per il cinema la possiamo vedere in "Primo Amore" di Gallone, come nella "Cena delle beffe" di Blasetti negli anni 40, nei "Miserabili" di Riccardo Freda, nei "I corsari della strada" di Jules Dassin, nella "Contessa scalza" di Joseph Leo Mankiewicz, ne"Le Amiche" di M. Antonioni, ne "La ragazza che sapeva troppo" di Mario Bava, anche la Cortese era in "Quando muore una stella" di Aldrich, in "Effetto Notte" di Truffaut, in "Un'orchidea rosso sangue" di Pierre Chereau, "Jane Eyre" e "Un tè con Mussolini" di Franco Zeffirelli.




Marina Malfatti famosa anche in Tv grazie allo sceneggiato tv "Malombra" tratto da Fogazzaro, diretto da Diego Fabbri (in onda nel 74, seguono numerose altre serie televisive di qualità), dagli anni 80 in poi è stata molto presente a teatro con lavori di grande qualità che spaziano dal teatro classico a testi moderni.
Al cinema fu a sua volta protagonista di horror italiani anni '70, aggiungendo eleganza e mistero grazie al fascino personale:
"Sette orchidee macchiate di rosso" di Umberto Lenzi, "La Dama rossa uccide 7 volte" di Emilio P. Miraglia, "Un fiocco nero per Deborah" di Marcello Andrei.... Per la filmografia completa si rimanda al link.

nota d'attualità: date le polemiche fisse ormai a ogni festival di teatro o cinema che sia, mi auguro ancora (e lo auguro al nostro paese) un teatro che ti tiene legato alla sedia e che sappia toccare le corde dell'animo come quello sopra citato, e anche un cinema che abbia di nuovo qualcosa da dire, dai contenuti, alla forma, all'eleganza, allo stile, personalità di attori/attrici comprese. Anche se superare o eguagliare i citati sarà impossibile.

domenica 9 maggio 2010

Dresda e Lodi, città del fato



Il 10 maggio 1796 una colonna dell'armata francese, comandata da un giovane generale dal nome tipicamente italiano, Napoleone Bonaparte, sferrò l'attacco decisivo contro l'esercito austriaco arroccato a Lodi per respingere il contingente francese che il giorno prima aveva attraversato il Po a Piacenza, invadendo la Lombardia al di qua dell'Adda, allora sotto la dominazione austriaca. Era partito da Parigi sessanta giorni prima, l'11 marzo, appena due giorni dopo il matrimonio con Giuseppina Tascher, vedova Beauharnais, con un contingente di 38.000 uomini mal equipaggiati. La battaglia è storicamente nota come "battaglia al Ponte di Lodi". Nell'azione fulminea di quel giorno Napoleone rivelò in pieno le sue doti di grande stratega tattico. Mandando i suoi all'arrembaggio, i primi dei quali lanciati incontro a morte certa, non lasciò a Beaulieu il benchè minimo tempo per attendere i rinforzi sperati. Nonostante i 12 cannoni austriaci piazzati in difesa sul ponte, i francesi alla fine ebbero la meglio; grazie a coraggio, gagliardia e abnegazione, continuamente richiamati da Napoleone. Lasciarono però sul campo 350 morti. Gli austriaci, invece, dichiararono 153 morti e 1700 prigionieri in mano dei francesi. L'indomani l'Austria abbandonerà Milano. Quella sera del 10 maggio 1796 nasceva il mito di Napoleone, l'imperatore più potente d'Europa.
Come scrisse egli stesso anni dopo "Fu solo alla sera di Lodi, che cominciai a ritenermi un uomo superiore e che nutrii l'ambizione di attuare grandi cose che fino a quel momento avevano trovato posto nella mia mente solo come un sogno fantastico".


Ancor oggi i francesi attribuiscono grande importanza alla Battaglia del Ponte di Lodi , tanto che in numerosi loro comuni vi sono vie o piazze ad essa dedicate; è il caso della "rue du Pont de Lodi nel VI arrondissement di Parigi "; è anche forse il toponimo più diffuso in Francia.


La meta era Milano, da dove, subito dopo la battaglia, era partita una delegazione per andare incontro al generale Bonaparte. Era capeggiata da Francesco Melzi d'Eril, cognato di Pietro Verri; ma è facile supporre che a capo di quella delegazione avrebbe voluto esserci lui, Pietro Verri, che però all'epoca era già un attempato sessantottenne, padre di sette figlie e marito di Vincenza, sorella del capo delegazione.

Pietro Verri aveva combattuto a Dresda, per breve tempo, nel corso della Guerra dei sette anni. Si era arruolato volontario per sfuggire al destino che suo padre, il giureconsulto Gabriele Verri, aveva già deciso per lui; secondo i costumi del tempo, lo voleva magistrato come lui, e sposato con chi aveva scelto lui. Tornato a Milano, dopo la successiva parentesi viennese, i fratelli Pietro e Alessandro Verri avevano fondato l'Accademia dei Pugni per dibattere e approfondire di filosofia, economia e politica.

Erano passati 30 anni, da quel maggio 1766, quando i sette della Società dei Pugni avevano deciso di por fine alla loro esaltante esperienza, e di cessare le pubblicazioni della loro rivista filosofico letteraria, Il Caffè. La pubblicazione era rimasta in vita solamente poco più di due anni: la gente non era allora ancora pronta per recepire le idee "rivoluzionarie" di "quei sette che ragionavano di filosofia, menandosi di pugni alla fine di quasi ogni riunione".

Ma dopo trent'anni, qualcosa di quei concetti era stato assimilato dalla gente; la marcia trionfale di Napoleone verso Milano non sarebbe stata tale senza la scossa che quelle idee avevano comunque prodotto.

Anche se la vera svolta che tutti si aspettavano da Napoleone non fu poi quella attesa (ordini religiosi soppressi, chiese spogliate, opere d'arte mandate in Francia e, in parte, ancor oggi non ancora restituite (*)...), Milano iniziò, nel bene e nel male, una rivoluzione urbanistica, tuttora in corso, che l'ha portata ad essere una delle metropoli più attraenti del mondo. Giova anche ricordare che Milano, sotto Napoleone, era tornata ad essere, dopo 14 secoli (vedere: Milano in età Romana) , la capitale di un forte regno unitario, il Regno d'Italia (1805-1814) che comprendeva regioni e province del nord est e del centro nord.

Altra città fatale per Napoleone, e in tal caso quindi doppiamente fatale, è stata Dresda.

In positivo:

perchè Pietro Verri il suo "spianatore verso Milano", nel 1759, nel corso della Guerra dei Sette Anni, durante la quale, arruolatosi volontario col ruolo di ufficiale nello stato maggiore del generale Daun, aveva conosciuto il britannico Henry Lloyd, un avventuriero che comunque gli aveva instillato i germi per la passione agli studi economici, che poi Verri estese a quelli politici, durante il suo successivo breve soggiorno a Vienna;


in negativo:
per la battaglia che aveva segnato il destino finale di Napoleone.

Nel post Vedute sono menzionate le quattro distruzioni subite da Dresda, città martire.

Tra la guerra dei Sette Anni e la seconda guerra mondiale, che avevano entrambe raso al suolo la città, è da annoverare anche una vittoria di Pirro di Napoleone, conseguita nei dintorni della città. Nel 1813 un suo avanposto, al comando del generale Vandamme sconfisse la coalizione austro-russo-prussiana, ma la sua fu una vittoria effimera. La troppa fretta di avanzare, all'inseguimento dei nemici, gli fece commettere errori di valutazione nella consistenza della loro vera forza. Dopo tre giorni d'inseguimento questi ebbero la meglio nella Battaglia di Kulm. Un mese e mezzo più tardi, Napoleone fu sconfitto a Lipsia. Era il 19 ottobre 1813, iniziava il tramonto del mito napoleonico.

Parafrasando il Poeta "fu vera gloria?..." anche in considerazione del fatto che se Lodi, che gli aveva subito tributato un monumento (anche se da Napoleone stesso fatto erigere), lo distrusse nel 1814? Dal sito ufficiale Città di Lodi, si legge infatti: "...In fondo al corridoio, cortiletto con lapidi, sculture, iscrizioni funerarie dell'antico cimitero ebraico, frammenti del monumento a Napoleone, già in piazza Maggiore (**), abbattuto nel 1814,
probabilmente dopo appresa la notizia dell'esilio di Napoleone all'Elba (ndr).
(**) ora Piazza della Vittoria, dal 1924.
E' lecito supporre che il nuovo nome le sia stato attribuito per la vittoria dell'Italia nella prima guerra mondiale. ma sarebbe altrettanto motivo d'orgoglio, e non di nascondimento per i lodigiani, sapere e ricordare che il mito napoleonico, nel bene e nel male, è nato nella loro città. Io stesso sono stato frequentatore innamorato della loro città, e mi sarebbe bello sapere che Lodi ridedichi un monumento degno di tale nome a una tale grande personalità che, nel bene e nel male, ha tracciato pagine eterne di storia.
----
Questo l'itinerario suggerito dal sito Città di Lodi, per raggiungere il Ponte: "Si prende via Indipendenza a sinistra e si giunge a piazza Barzaghi nei pressi dell'attuale ponte sull'Adda (1864). Di fronte alla chiesa di S. Rocco, c'è la lapide commemorativa della battaglia qui combattuta e vinta da Napoleone contro gli austriaci (10 maggio 1796). Il ponte antico in legno fu distrutto nel 1859.
(dal Sito ufficiale Città di Lodi: Itinerario turistico della città )
----
(*) Nota: Sulle opere d'arte trafugate dai francesi di Napoleone, trasportate in Francia, e non ancora restituite ai legittimi proprietari, dopo 200 anni, invito gli esperti d'arte di questo blog a scriverne un post dedicato.
---
Sopra, dall'alto in basso:
- Il Ponte sull'Adda a Lodi, da Wikipedia.org
- targa commemorativa "10 maggio 1796": foto dell'autore
- Pietro Verri a Brera, foto di Innocenzo Fraccaroli
- Napoleone Bonaparte attraversa le Alpi, dipinto di Jaques-Louis David, da Wikipedia:
- Battaglia del Ponte di Lodi - dipinto di Giuseppe Pietro Bagetti (da Wikipedia)