domenica 28 dicembre 2008

Poesie di un Giardino d'Inverno: Aleksandr Blok

Il Giardino delle Esperidi sonnecchia nel bel mezzo di un gelido inverno che si preannuncia duro e lungo. Eppure anche l'inverno ha una sua limpida magia e ha avuto i suoi sublimi cantori visionari. Grandissimi e ineguagliati fra tutti, i poeti russi, come Aleksandr Blok e Boris Pasternak. Non potendoli ospitare tutti e due per motivi di spazio, scelgo una trilogia invernale del primo. Blok è il poeta simbolista delle lunghe distese invernali, della Bellissima Dama Bianca, regina incontrastata delle nevi nella Steppa - un miraggio, una sorta di Fata Morgana dei lunghi e solitari inverni russi. Questi poeti amavano recitare i loro versi al riparo delle calde bettole e taverne, e la loro poesia, nelle gelide ore invernali, veniva ascoltata direttamente dagli umili, dalla gente del popolo, chiamata a parteciparvi. Per questo ne "Il Dottor Zivago" c'è un passo in cui il poeta-romanziere Pasternak fa dire a un suo personaggio che nessuno ama tanto la poesia quanto il popolo russo.
L'occasione mi è gradita per propiziare a tutti i visitatori, i miei auguri per un Felice Anno Nuovo! (Hesperia)




Se ammirerò di notte la tormenta




Se ammirerò di notte la tormenta,

m'infiammerò senza potermi spegnere.

A me l'azzurra notte ha bisbigliato,

ciò che è negli occhi tuoi, ragazza bella.




Una fiaba vellosa ha bisbigliato
ed un prato incantanto mi ha predetto
sul tuo conto parecchi sogni alati
sul tuo conto, mia amica misteriosa.




M' intreccerò come una ragnatela
di neve, i baci sono lunghi sogni
Sento il tuo cuore di cigno,
discerno l'ardente cuore della primavera.






L'Orsa Maggiore mi ha profetizzato,
e anche una strega, creatura del gelo,
che dentro agli occhi tuoi, ragazza bella,
sulla tua fronte c'è l'azzurra notte.













La mia luna è in un maestoso zènit



La mia luna è in un maestoso zènit.
Mi inebrierò di libertà notturna
e là mi avvolgerò in argentei fili,
in un eccesso di felicità.




Movendo incontro a un'ardente abulia
e a nient'altro che all'Alba futura,
annuisco all'azzurra largura
e mi tuffo nello scuro argento!...





Sulle piazze dell'afosa capitale
uomini ciechi cingottano:
- Che c'è sopra la terra? Un pallone.
Che c'è sotto la luna? un aerostato.






Ed io per il deserto inargentato
corro bruciando dal delirio,
e nelle pieghe d'una pianeta azzurro cupo
ho nascosto la mia Diletta Stella.














Tu mi vestirai d'argento






Tu mi vestirai d'argento,
e alla mia morte la luna spunterà - Pierrot celeste,
sorgerà il rosso pagliaccio ai quattro venti.



La morta luna è senza scampo muta,
non ha svelato nulla a nessuno.
Chiederà soltanto alla mia amica
a che scopo un tempo io l'abbia amata.



In questo sogno furioso a occhi aperti
mi capovolgerò col viso morto.
E il pagliaccio spaventerà la civetta,
tinnendo di sonagli sotto il monte...



Lo so: vecchio è il suo aspetto grinzoso
e impudico nella nudezza terrena.
Ma si leva l'ebrietà funesta
verso i cieli, l'altura, la purezza. - Aleksandr Blok - traduzione di Angelo Maria Ripellino -




I primi due dipinti in alto sono di Giovanni Segantini. Il primo titola "Ritorno dal bosco" e il secondo, "Le cattive madri".

Il terzo dipinto in basso d' ispirazione simbolista è di Domingo Motta "Il ritorno del Pierrot".

Hesperia

giovedì 18 dicembre 2008

Il presepe della nostra infanzia

Quando la famiglia era ancora il nucleo caldo e avvolgente che ogni bambino sogna, il “nido” protettivo dove crescere al riparo delle brutture del mondo, il Natale era il momento in cui ci si radunava intorno ai simboli cristiani di questa mistica ricorrenza: la nascita di Gesù Cristo.
L’albero era decorato con poche palline di vetro fragili come ali di farfalla, monete e babbi natali di cioccolata e tanti nastri argentati, niente luci “Made in China” vendute a due lire o palline di plastica, che rappresentano l’esatto contrario del significato del Natale: festa d’amore, bontà e letizia per gli uomini di buona volontà. Mentre quelle luci sono simbolo di schiavitù, dolore ed egoismo, della superficialità di questa società, che “brilla” ma per farlo calpesta tutti i valori umani. Una società di “consumatori” e non più di uomini, donne e bambini. Consumare è il nuovo credo, e il Natale ormai non è più la celebrazione della nascita di nostro Signore, ma quella delle nostre più deplorevoli abitudini. Il regalino che rappresentava un pensiero amorevole per i propri congiunti è diventata una corsa sfrenata all’acquisto, le vacanze che servivano a radunare parenti e amici per giorni e giorni, fra tombole e panettone, chiacchiere e il ragù della “nonna”, sono diventate l’occasione per andarsene in giro per il mondo, e così via. Il Natale della nostra infanzia non esiste più da tanti anni, ne è rimasta la parvenza, ma ha perso il suo significato più vero e profondo.
Di quei Natali, uno dei momenti più belli per me, era tirare fuori una scatola rettangolare, di quelle rigide (che contenevano le bottiglie),dove mia madre teneva imballate le statuine del presepe. E, quei pomeriggi trascorsi a creare montagne di carta pesta, laghetti con gli specchi, neve con la farina, sono i più bei ricordi della mia infanzia. Quel piccolo Gesù adagiato nella mangiatoia, rappresentava per me l’essenza stessa del cristianesimo, perché mi avevano insegnato che da uomo avrebbe sacrificato la sua vita per il bene dell’umanità. Lo ricordo con i suoi riccioli d’oro e le braccine aperte ad abbracciare il mondo, come 33 anni dopo sulla croce, sarebbe morto “abbracciando” i suoi carnefici e perdonandoli.
Il perdono e l’amore per il prossimo sono i principi fondanti del cristianesimo, la nostra religione, che dovremmo difendere dagli attacchi mortali del laicismo e dal “regime” multiculturalista, che per non offendere i credenti di altri paesi, ha tolto i Presepi dalle scuole, ha sostituito i solenni canti di Natale con “We are the world” e vuole togliere persino la croce dai luoghi pubblici. Infischiandosene di offendere e ferire i sentimenti di milioni di cattolici.
Dopo questo lungo preambolo aggiungo la storia del Presepe, dalle origini ai tempi nostri. Leggerla ma soprattutto ricordare il valore del Presepe è un modo per mantenere vive e vitali le nostre radici di cristiani.


Sono gli evangelisti Luca e Matteo i primi a descrivere la Natività. Nei loro brani c'è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di praesepium ovvero recinto chiuso, mangiatoia. Si narra infatti dell’umile nascita di Gesù come riporta Luca "in una mangiatoia”, dell'annunzio dato ai pastori, dei magi venuti da oriente seguendo la stella per adorare il Bambino che i prodigi del cielo annunciano già re. Questo avvenimento così famigliare e umano se da un lato colpisce la fantasia dei paleocristiani rendendo loro meno oscuro il mistero di un Dio che si fa uomo, dall'altro li sollecita a rimarcare gli aspetti trascendenti quali la divinità dell'infante e la verginità di Maria. Così si spiegano le effigi parietali del III secolo nel cimitero di S. Agnese e nelle catacombe di Pietro e Marcellino e di Domitilla in Roma che ci mostrano una Natività e l'adorazione dei Magi, ai quali il vangelo apocrifo armeno assegna i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ma soprattutto si caricano di significati allegorici i personaggi dei quali si va arricchendo l'originale iconografia: il bue e l'asino, aggiunti da Origene, interprete delle profezie di Abacuc e Isaia, divengono simboli del popolo ebreo e dei pagani; i Magi il cui numero di tre, fissato da S. Leone Magno, ne permette una duplice interpretazione, quali rappresentanti delle tre età dell'uomo: gioventù, maturità e vecchiaia e delle tre razze in cui si divide l'umanità, la semita, la giapetica e la camita secondo il racconto biblico; gli angeli, esempi di creature superiori; i pastori come l'umanità da redimere e infine Maria e Giuseppe rappresentati a partire dal XIII secolo, in atteggiamento di adorazione proprio per sottolineare la regalità del nascituro. Anche i doni dei Magi sono interpretati con riferimento alla duplice natura di Gesù e alla sua regalità: l'incenso, per la sua Divinità, la mirra, per il suo essere uomo, l'oro perché dono riservato ai re. A partire dal IV secolo la Natività diviene uno dei temi dominanti dell'arte religiosa e in questa produzione spiccano per valore artistico: la natività e l'adorazione dei magi del dittico a cinque parti in avorio e pietre preziose del V secolo che si ammira nel Duomo di Milano e i mosaici della Cappella Palatina a Palermo, del Battistero di S. Maria a Venezia e delle Basiliche di S. Maria Maggiore e S. Maria in Trastevere a Roma. In queste opere dove si fa evidente l'influsso orientale, l'ambiente descritto è la grotta, che in quei tempi si utilizzava per il ricovero degli animali, con gli angeli annuncianti mentre Maria e Giuseppe sono raffigurati in atteggiamento ieratico simili a divinità o, in antitesi, come soggetti secondari quasi estranei all'evento rappresentato. Dal secolo XIV la Natività è affidata all'estro figurativo degli artisti più famosi che si cimentano in affreschi, pitture, sculture, ceramiche, argenti, avori e vetrate che impreziosiscono le chiese e le dimore della nobiltà o di facoltosi committenti dell'intera Europa, valgano per tutti i nomi di Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca, il Perugino, Dürer, Rembrandt, Poussin, Zurbaran, Murillo, Correggio, Rubens e tanti altri.
Il presepio come lo vediamo rappresentare ancor oggi nasce secondo la tradizione dal desiderio di San Francesco di far rivivere in uno scenario naturale la nascita di Betlemme coinvolgendo il popolo nella rievocazione che ebbe luogo a Greccio la notte di Natale del 1223, episodio rappresentato poi magistralmente da Giotto nell'affresco della Basilica Superiore di Assisi.


Primo esempio di presepe inanimato è invece quello che Arnolfo di Cambio scolpirà nel legno nel 1280 e del quale oggi si conservano le statue residue nella cripta della Cappella Sistina di S. Maria Maggiore in Roma. Da allora e fino alla metà del 1400 gli artisti producono statue di legno o terracotta che sistemano davanti a una pittura riproducente un paesaggio come sfondo alla scena della Natività, il tutto collocato all'interno delle chiese. Culla di tale attività artistica fu la Toscana ma ben presto il presepe si diffuse nel regno di Napoli ad opera di Carlo III di Borbone e nel resto degli Stati italiani.


Nel '600 e '700 gli artisti napoletani danno alla sacra rappresentazione un'impronta naturalistica inserendo la Natività nel paesaggio campano ricostruito in scorci di vita che vedono personaggi della nobillà, della borghesia e del popolo colti nelle loro occupazioni giornaliere o nei momenti di svago, nelle taverne a banchettare o impegnati in balli e serenate. Ulteriore novità è la trasformazione delle statue in manichini di legno con arti in fil di ferro, per dare movimento, abbigliati con vesti di stoffe più o meno ricche, adornati con monili e muniti degli strumenti di lavoro tipici dei mestieri dell'epoca e tutti riprodotti con esattezza anche nei minimi particolari. A tali fastose composizioni davano il loro contributo artigiani vari e lavoranti delle stesse corti regie o la nobiltà, come attestano gli splendidi abiti ricamati che indossano i Re Magi o altri personaggi di spicco, spesso tessuti negli opifici reali di S. Lencio. In questo periodo si distinguono anche gli artisti di Genova e quelli siciliani che, fatta eccezione per i siracusani che usano la cera, si ispirano sia per i materiali che per il realismo scenico, alla tradizione napoletana. Sempre nel '700 si diffonde il presepio meccanico o di movimento che ha un illustre predecessore in quello costruito da Hans Schlottheim nel 1588 per Cristiano I di Sassonia.
La diffusione a livello popolare si realizza pienamente nel secolo scorso quando ogni famiglia in occasione del Natale costruisce un presepe riproducendo la Natività secondo i canoni tradizionali con materiali - statuine in gesso o terracotta, carta pesta e altro - forniti da un fiorente artigianato. A Roma le famiglie importanti per censo e ricchezza gareggiavano tra loro nel costruire i presepi più imponenti, ambientati nella stessa città o nella campagna romana, che permettevano di visitare ai concittadini e ai turisti. Famosi quello della famiglia Forti posti sulla sommità della Torre degli Anguillara, o della famiglia Buttarelli in via De' Genovesi riproducente Greccio e la caverna usata da S. Francesco o quello di Padre Bonelli nel Portico della Chiesa dei Santi XII Apostoli, parzialmente meccanico con la ricostruzione del lago di Tiberiade solcato dalle barche e delle città di Gerusalemme e Betlemme.
Oggi dopo l'affievolirsi della tradizione causata anche dall'introduzione dell'albero di Natale, il presepe è tornato a fiorire grazie all'impegno di religiosi e privati che con associazioni come quella degli amici del presepe, Musei tipo il Brembo di Dalmine vicino Bergamo, Mostre, tipica quella dei 100 Presepi nelle Sale del Bramante di Roma, una tra le prime in Italia, rappresentazioni dal vivo come quelle di Rivisondoli in Abruzzo o Revine nel Veneto e soprattutto gli artigiani napoletani e siciliani in special modo, eredi delle scuole presepiali del passato, hanno ricondotto nelle case e nelle piazze d'Italia la Natività e tutti i personaggi della simbologia cristiana.
Chiudo augurando a tutti un Felice Natale e un fantastico Anno Nuovo.
Aretusa


sabato 13 dicembre 2008

Il mio incontro con Guareschi



Avvertenza: Trattasi di un racconto, e l'incontro tra me e lo scrittore è puramente immaginario. Qui è tutto immaginario tranne il fatto che questo scritto è stato liberamente tratto da un racconto di Giovannino Guareschi (foto piccola in basso a sinistra). Tra l'altro, esso avviene in un luogo che, al tempo di cui si narra il fatto, non era ancora stato reso di pubblica fruizione (infatti Villa Ghirlanda è diventata proprietà comunale dopo il 1970, e, a quell'epoca, Guareschi era già scomparso).Questo racconto mi sarebbe servito, com'è vero che mi servirà, da introduzione per un post di attualità politica che ho già in mente, e che rimando per non ingolfare me stesso e il lettore.

Era una mattina limpida, piena di sole, e lo scrittore-giornalista, arrivato all'incrocio Casignolo-De Vizzi, anziché proseguire per Milano, decise improvvisamente di svoltare a destra, per quella strada che conosceva molto bene. Tutte le volte che si recava a Monza per servizio, faceva immancabilmente tappa a quel ristorante rinomato di inizio via. Era una strada, questa, che nel corso degli anni è diventata molto trafficata ed ora è un bel viale alberato, ornato di giganteschi platani, che purtroppo, si sono molto diradati in quantità, per dare accesso alle strade e ai passaggi laterali che,nel frattempo, sono stati edificati. Quel Ristorante esiste tuttora e, al tempo del racconto, era stato inaugurato da pochi anni.




C'era ancora tempo per l'ora di pranzo, e quindi, anzichè fermarsi, pensò bene di proseguire dritto in direzione del Parco Cipelletti di Villa Ghirlanda. Ne volle approfittare per andarsi a documentare su quel parco, in vista degli articoli che avrebbe dovuto scrivere sui grandi parchi privati lombardi, che stavano per essere lentamente acquisiti dai comuni, onde metterli a disposizione della popolazione.



Non fu semplice, per lui, distrarsi in quel modo. Anche se andava là per documentarsi, la considerava comunque una divagazione ed un venir meno ai propri doveri professionali. Essendogli avanzato parecchio tempo, dopo quel servizio a Monza, avrebbe dovuto proseguire dritto per Milano, alla sua redazione, dove lo attendeva una mole di lavoro arretrato. Ma il sole chiaro di quella mattina, che aveva illuminato angolini nascosti del suo animo e del suo passato, gli fecero sentire l'acuta nostalgia del fogone (dalle parti di Parma, è il marinare la scuola).


Risentiva improvvisamente il gusto per i piaceri semplici, sani e onesti della sua prima giovinezza. La primavera aveva riscaldato le sue vecchie ossa ed era una primavera di tanti anni fa. Decise allora di considerare quella scappatella come un fogone, una bigiatura di scuola come quelle che faceva tanti anni prima.



Fermò l'auto al parcheggio, e, fatti pochi passi, si trovò di fronte a una enorme e antica cancellata in ferro battuto. Oltrepassò la piccola radura circolare di alberi pregiati, dietro la quale faceva bella mostra un'ampia scalinata di sapore antico e il grandioso portico d'ingresso alla villa, e, svoltato a sinistra, si inoltrò per andare verso l'accesso al parco.



Incamminatosi per quel vialetto, giunse alle spalle della villa, di bellezza superiore alla facciata, dove, un grande tappeto erboso, disseminato di piccole siepi cespugliose, ben disposte e ben curate, gli si parava di fronte. Era un giorno lavorativo di maggio inoltrato, un giorno di scuola, e non si vedeva quasi anima viva. Girò per quasi tutto il parco, senza aver visto un solo ragazzo. Ai suoi tempi, quando andava al liceo, in una giornata simile avrebbe incontrato parecchi ragazzi bigioni, nel parco ducale della sua Parma. Con un sole come quello, trovò quindi strano che nessuno bigiasse la scuola. A meno che, gli venne un sospetto, costoro non avessero cambiato abitudine e, anzichè imboscarsi nel parco, andavano a rifugiarsi da altre parti. Girovagò per un po', fino a quando, in fondo al tappeto erboso, nei pressi del bosco, sotto un magnifico tiglio ombroso e profumato, vide un ragazzo seduto e con la schiena appoggiata all'albero. Se ne stava come in meditazione, inclinato di lato e con il gomito destro appoggiato sopra un pacco di libri legati con una cinghia. Si fermò a guardarlo ed egli levò gli occhi sospettosi.



- Hai bigiato eh? - gli disse- Il ragazzo sorrise. Aveva una faccia simpatica e due occhi intelligenti.



- Perchè hai bigiato?


- Sono in pausa di studio: mi piace pensare delle cose. E poi, comunque, non ho bigiato, sono in aspettativa di lavoro. Sono uno studente lavoratore. Di giorno lavoro e la sera vado a scuola. Ho chiesto l'aspettativa dal lavoro, e oggi sono qui, approfittando di questa bella giornata di sole, per prepararmi agli esami di fine anno.



- Non le puoi pensare questa sera a scuola, quelle cose?



- No, le cose che dico io non si possono pensare a scuola.



Lo guardò commosso: - Bravo - gli disse - Ricordati che le uniche cose che ti aiuteranno veramente nella vita saranno quelle che avrai pensato qui, sotto questo cielo favoloso. Perchè se sai osservare, qui tu puoi capire le cose essenziali della vita. Questo sole, fra anni ed anni, ti riscalderà e ti illuminerà nelle ore più buie.



























Autore: Marshall

martedì 9 dicembre 2008

La leggenda del Vischio natalizio

LA TRADIZIONE sulla pianta del vischio

Nell'antichità i druidi usavano il vischio per ottenere infusi e pozioni medicamentose. Nella mitologia norvegese il dio Balder, fu ucciso perché colpito da un ramo di vischio, tutte le altre piante avevano giurato di non recare alcun male al giovane e bellissimo dio, tutte tranne l'umile e innocua piantina del vischio. Il perfido rivale del dio, fece in modo che un vecchio cieco, per gioco colpisse Balder con un rametto di vischio uccidendolo all'istante. In memoria del dio, i norvegesi sono soliti bruciare rami di vischio in prossimità del solstizio d'inverno, con lo scopo di allontanare la sventura e invocare la prosperità ed il benessere.
Probabilmente anche il significato oggi attribuito alla pianta deriva da queste antichissime credenze popolari; siamo soliti, infatti, donare o tenere in casa rami di vischio tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo anno nella speranza di proteggere in tal modo noi stessi, le persone a noi care e la nostra casa dai guai e dalle disgrazie.

LA LEGGENDA CELTICA : La Morte di Balder
Balder, dio della luce, era tormentato dagli incubi. Pur sapendo di essere amato da tutti per la sua bontà e la sua bellezza, ogni notte sognava che qualcuno stesse per ucciderlo. Il padre Odino, dio della guerra, era preoccupato. Così, in groppa al suo cavallo dalle otto zampe, si reco' a Niflheim, la terra dei morti, dove c'era la tomba di Volva, la veggente che conosceva i segreti del futuro. Odino, con le sue arti magiche, la costrinse a uscire dalla tomba e la interrogò. «Presto per Balder si mescerà birra e idromele» rispose Volva, volendo significare che il dio sarebbe morto. Odino domandò come sarebbe avvenuto e Volva disse: «Sarà Hoder, il dio cieco, a ucciderlo». Ritornato tra gli dei, Odino informò la moglie Frigg, madre di Balder, del destino che attendeva il figlio. Frigg partì subito per un lungo viaggio, attraversando tutti i paesi del mondo. A ogni cosa che incontrava faceva giurare di non fare mai del male a Balder Giurarono tutti: l'aria e l'acqua, la terra e il fuoco, le piante, gli animali e le pietre. Solo la pianticella del vischio non giurò. Frigg, infatti, l'aveva ritenuta troppo debole e innocua per costituire un pericolo. In questo modo Balder divenne invulnerabile e ciò fu per gli déi un'occasione di divertimento. Gli tiravano sassi e frecce, lo trafiggevano con le lance, lo colpivano con le spade... Ma nulla poteva ferire il giovane Balder. Solo Loki, dio della distruzione, non partecipava. Egli amava gli scherzi crudeli e quel gioco innocuo non lo divertiva affatto. Così, mutate le sue sembianze in quelle di una vecchia, si recò da Frigg e con l'inganno venne a sapere dalla dea che il vischio non aveva giurato. Allora andò nel bosco e ne prese un ramo che cresceva sul fusto di un melo. Con esso costruì un bastoncino dalla punta affilata, quindi si recò all'assemblea degli dei. Come al solito gli dei erano impegnati nel gioco di colpire Balder. Loki si avvicinò al cieco Hoder e gli porse il bastoncino di vischio. «Prova a colpire Balder con questo» gli disse. Hoder replicò: «Come posso colpirlo se neppure lo vedo?» Ma Loki lo rassicurò: «Non temere, guiderò io la tua mano». Hoder lanciò il bastoncino e colpi Balder. Il vischio penetrò nelle sue carni e lo uccise.
Tratto da "Miti e leggende di tutti i tempi" - editore HAPPY BOOKS

Note: Frija, Freya, chiamata anche Frigg nella mitologia scandinava.
È la moglie di Wotan. Protettrice dell'amore, dell'unione sessuale e della fertilità.
Il suo nome sopravvive in inglese nel termine Friday (Frigg's-day).
Narra la leggenda che Balder, morendo, cadde su un cespuglio di agrifoglio, spruzzandolo di sangue, mentre le lacrime di Frigg si trasformarono in perle che rimasero per sempre ad ornare la pianta del vischio. (da Terre Celtiche)


LA LEGGENDA CRISTIANA
La leggenda del vischio, viene più ingentilita ed emendata nella tradizione cristiana sotto forma di "favola di morale". Così la narrano, ad esempio, nel Trentino-Alto Adige.

"Una volta, in un paese tra i monti, un vecchio mercante. L'uomo viveva solo, non si era mai sposato e non aveva piu' nessun amico. Per tutta la vita era stato avido e avaro, aveva sempre anteposto il guadagno all'amicizia e ai rapporti umani. L'andamento dei suoi affari era l'unica cosa che gli importava. Di notte dormiva pochissimo, spesso si alzava e andava a contare il denaro che teneva in casa, nascosto in una cassapanca. Per avere sempre piu' soldi, a volte si comportava in modo disonesto e approfittava della ingenuita' di alcune persone. Ma tanto a lui non importava, perche' non andava mai oltre le apparenze.Non voleva conoscere quelli con i quali faceva affari. Non gli interessavano le loro storie e i loro problemi. E per questo motivo nessuno gli voleva bene.Una notte di dicembre, ormai vicino a Natale, il vecchio mercante non riusciva a dormire e dopo aver fatto i conti dei guadagni, decise di uscire a fare una passeggiata.Comincio' a sentire delle voci e delle risate, urla gioiose di bambini e canti.Penso' che di notte era strano sentire tanto chiasso in paese. Si incuriosi' perche' non aveva ancora incontrato nessuno, nonostante voci e rumori sembrassero molto vicini. A un certo punto comincio' a sentire qualcuno che pronunciava il suo nome, chiedeva aiuto e lo chiamava fratello. L'uomo non aveva fratelli o sorelle e si stupi'. Per tutta la notte, ascolto' le voci che raccontavano storie tristi e allegre, vicende familiari e d'amore. Venne a sapere che alcuni vicini erano molto poveri e che sfamavano a fatica i figli; che altre persone soffrivano la solitudine oppure che non avevano mai dimenticato un amore di gioventu'.Pentito per non aver mai capito che cosa si nascondeva dietro alle persone che vedeva tutti i giorni, l'uomo comincio' a piangere. Pianse cosi' tanto che le sue lacrime si sparsero sul cespuglio al quale si era appoggiato.E le lacrime non sparirono al mattino, ma continuarono a splendere come perle. Così era nato il vischio".




Verde naturale coi suoi frutticini bianchi e ...vischiosi che gli uccelli adorano e che concorrono a inseminare da un tronco d'albero all'altro, oppure dipinto in oro e ornato di nastri, il vischio è, con l'agrifoglio e il pungitopo (foto piccola a sinistra), la pianta tradizionale dei nostri Natali e Capodanni, per ornare porte e portali, centri-tavola e per tante altre decorazioni creative. Non ultimo, anche per propiziare giorni sereni e fortunati dell'anno entrante.
Hesperia