lunedì 25 ottobre 2010

Lo specchio oscuro


Che cos'è lo "Specchio oscuro"? E' l'immagine della nostra cattiva coscienza? della coscienza resa infelice? delle pulsioni umane inconfessabili? Capita che tra gli Esperidi ci siano anche dei narratori. E allora, perchè non parlarne?

Dionisio Di Francescantonio è firma che molti lettori hanno già incontrato su Il Culturista, giornale on line. Ma non solo: è autore di volumi fotografici e di due romanzi come "L'identità del fuoriuscito" e "Eldorado". Nato a S.Vito Chietino in provincia di Chieti, è genovese di adozione. Sospeso tra pittura e scrittura, arti che esercita in parallelo, si ripresenta con una raccolta di racconti il cui fil rouge che li annoda è il controverso tema dell'identità. Il titolo del volume "Specchio oscuro" è preso dalla prima epistola di S. Paolo ai Corinzi, XII - 2, pubblicato per le edizioni "Libri del peralto"- Genova 2010.

Un Ulisse dolente, disincantato, già antieroe rispetto a quello omerico, ma anche rispetto a quello joyciano in fondo assai più picaresco,  è quello che emerge dal primo racconto "Per maligne inestricabili trame" (titolo tratto da un verso dell'Odissea). La sua, in chiave moderna, è la condizione dell'uomo itinerante costretto a peregrinare non già per scoprire con orgoglio avventure ed esperienze inconsuete legate a nuove frontiere, ma per "seguire un'occulta linea fatale, un percorso che potevo solo subire", come egli stesso confesserà alla fanciulla Nausicaa che lo ritrova.


E' ancora la voce delle radici, degli istinti più profondamente ancestrali che arma la mano di Austina, "La Rapita", quando dopo il sequestro di un malvivente che la sottrae al suo focolare domestico e dopo il ritrovamento da parte del suo consorte nella caverna dove è stata nascosta, spara. Ma non già al suo rapitore come sarebbe ovvio, bensì al marito che vuole trarla in salvo. Perché? Forse perché troppo grande sarebbe stata per lei l'onta di tornare a casa da "svergognata"? In questo caso, l'identità è la voce oscura degli antenati e di tradizioni ataviche, cui la donna resta intimamente soggiogata.

"La travestita",  è, al contrario della precedente, una donna cosiddetta emancipata dei primi del Novecento dall'identità labile  che copia l'ambiente in cui si muove, attraversa deserti che sono dei labirinti senza fine,  si veste da uomo, fuma, beve, pratica la promiscuità sessuale fino all'autodistruzione.

Narrato in prima persona, tenero e commovente è "Il brutto anatroccolo" dove l'autore compie un'operazione narrativa inversa (ma anche analoga) a quella della Morante nell'"Isola di Arturo": identificarsi nell'adolescente Viviana, così come la Morante si incorporò nel ragazzo Arturo. Solo penetrando con grande sensibilità nella mente e nel corpo di questa ragazza anoressica che si nega allo specchio per non vedersi "brutta", è possibile descriverne le paure, le angosce, le insicurezze dei riti di passaggio, lasciandosi per sempre alle spalle l'infanzia, in una metamorfosi che non può essere indolore. Il brutto anatroccolo alla fine, diventa, sì, un bel cigno, ma il finale non sarà così fiabescamente consolatorio, poiché altre dure battaglie attendono l'adolescente che si trasforma in donna. Dopotutto, la vita è eterna iniziazione: è un po' questa la morale del racconto.

Da ultimo, "Specchio oscuro", il racconto che dà il titolo all'intera raccolta. Storia di due "inseparabili" gemelli violinisti, i quali perseguono il mito della loro forza e invincibilità, scambiandosi i ruoli nello studio, nel lavoro, nelle donne che condividono. Qui il tema ottocentesco e perturbante del "doppio" (doppelgaenger) è ribaltato in chiave moderna non già solo nel dualismo es/ego, io e altro, ma come identità parziali e dimezzate riunite in una meccanica simbiosi, attraverso la quale cercano una revanche sociale, psicologica e sentimentale. L'epilogo sarà tragico e devastante per entrambi, poiché, autori di un efferato delitto, sono costretti a sottostare a questo sodalizio simbiotico sempre più simile a una camicia di forza. Non a caso il termine "individuo" (dal latino "individuum", cioè indivisibile, unico, non replicabile) ci indica che nemmeno due gocce d'acqua alla fine, risultano identiche tra loro. La nostra vita è personale, unica e preziosa e a nessuno è dato di riviverla "per procura". Nemmeno a due gemelli monozigoti.
(sopra: la locandina del film di David Cronenberg "Inseparabili" che affronta il tema del gemellaggio).

Hesperia

lunedì 18 ottobre 2010

Forte Fuentes

(foto: ingresso principale)

(foto: ingresso principale)

(foto: retro del palazzo del governatore)


(foto: locali presso l'ingresso)

(foto: palazzo del Governatore)

(foto: interno chiesa di Santa Barbara)

(foto: chiesa di Santa Barbara)

(foto: alloggiamento dei soldati)
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Partito in segretezza da Milano sul finire del mese di ottobre 1604, fece tappa a Como per ispezionare le truppe ivi stanziate, il 3 novembre era a Gravedona, da dove, in barca e con sole tre persone al seguito, pervenne al Forte la sera: Forte Fuentes.

Non dev'essere stato facile per un settantacinquenne affrontare quello che per quei tempi sarebbe stato un lungo e faticoso viaggio, fatto a dorso di cavallo d'ordinanza e barca. Ma non era andato a Colico per godersi uno fra i tanti più bei panorami del mondo - quello che si gode dal suo lungolago - bensì per controllare coi propri occhi il risultato della sua cocciutaggine. Cozzando contro il volere dei confinanti Grigioni Svizzeri, che non vedevano di buon occhio la creazione di una fortezza al confine col loro stato, aveva voluto tenacemente la creazione di quel gioiello dell'architettura militare.
Fin dai primi tempi della dominazione spagnola Milano era stata messa in sicurezza, chiudendola entro possenti mura, che sono tuttora motivo d'orgoglio per milanesi e spagnoli nostalgici. A tal proposito sarà bene ricordare che le Mura Spagnole di Milano (delle quali però non è rimasto praticamente più nulla) sono state la più grande opera civile realizzata in Europa nel XVI secolo. Resa inespugnabile la città, bisognava ora coprirle le spalle da eventuali invasioni massicce e su larga scala. Il punto cruciale, il più facile dal quale sarebbero potute agevolmente passare orde invadenti, sarebbe stata la punta all'estremo nord del lago di Como, là dove convergono tre valli distinte, dai cui passi alpini potevano infiltrarsi gli eserciti o le bande provenienti dal centro-nord Europa. Il punto più debole dell'anello era appunto Colico, o meglio quel tratto di terra che in ricordo degli spagnoli del Fuentes ha preso il nome di Pian di Spagna. Zona strategica, e nello stesso tempo malarica a quei tempi. Un agguerrito avamposto militare dislocato in tale zona avrebbe potuto controllare e sbarrare il passo a forze nemiche provenienti da nord attraverso i tre più facili punti d'accesso della Val Chiavenna, Valtellina e Passo San Jorio.

Il Conte Fuentes, divenuto governatore di Milano in tarda età, al termine di una gloriosa carriera militare, avendo intuito delle macchinazioni in corso tra francesi e grigioni per annettersi, riprendersi o conquistare le tre valli suddette, con conseguente perdita anche di tutto l'Alto Lario, ruppe perentoriamente gli indugi e decise su due piedi per la costruzione di una grande fortezza a Colico; mandò subito esperti militari a sondare luogo e posizione e ad appena sette giorni dalla decisione fu data piena attuazione al progetto, informandone il Re di Spagna a cose compiute. La prima pietra veniva posta il 28 ottobre 1603 alla presenza del Governatore di Como in rappresentanza del Fuentes. Dopo neanche un mese di lavori, il 24 novembre, volendo vi si sarebbe già potuta installare stabilmente una guarnigione di soldati.

Agli appassionati di storia lombarda consiglio la lettura del seguente post, Il Conte di Fuentes,
dove ho trascritto pagine da un libro raro e introvabile (ne esiste una sola copia in una biblioteca del lecchese, tra l'altro consultabile solo in loco). Vi ho copiato la storia del Conte di Fuentes e quella della costruzione della fortezza, delle quali questo post è un breve saggio, tralasciando però di ricopiare testo e tabelle dei corposi 11 allegati dell'intero capitolo.

Tralascio i racconti della breve vita del forte e vado al suo epilogo. Con l'arrivo degli austriaci, il Forte fu dichiarato inutile dal punto di vista militare (un pò come la Linea Maginot dei tempi più recenti) e se ne stabilì l'abbattimento o la vendita. Si optò per la vendita che pare si sia aggiudicato l'ultimo Governatore della fortezza stessa, il colonnello Schroder, che aveva agito per il tramite della prestanome Anna Casanova vedova Campioni. Con l'arrivo di Napoleone sulla scena europea, questi, per assecondare un desiderio dei vicini Grigioni, in cambio della loro neutralità ne ordinò la distruzione. Distruzione che avvenne per il tramite di agguerrite squadre di devastatori Grigioni (ben lieti di assolvere al compito da tempo agognato). Alle spese per la distruzione fu obbligato lo stesso popolo comense che aveva a suo tempo pagato per la sua costruzione.
Nel post Dresda e Lodi, città del fato scrissi che, secondo una mia tesi, nel bene e nel male il mito napoleonico era nato a Lodi. Tra le sue pagine nere vi è senzaltro da ascrivere l'abbattimento di Forte Fuentes, il quale, se invece fosse ancora in piedi, sarebbe già da tempo iscritto nel novero del Patrimonio Mondiale dell'Umanità dell'Unesco, anzichè essere ridotto a ruderi come da foto. Ruderi sempe più difficili e costosi da conservare, e dove la vegetazione sta lentamente prendendo il sopravvento su tutto.
Le foto sono state offerte da Angela Acerboni che ne rivendica il Copyright

lunedì 11 ottobre 2010

PAOLO UCCELLO, LA FUNZIONE MAGICA DELLA PROSPETTIVA E DELLA MATEMATICA

Paolo Uccello, in un’epoca di grandi pittori come quella in cui egli visse ed operò, il primo Quattrocento italiano contraddistinto dal raggiungimento d’una tecnica pittorica già sopraffina ma che conserva ancora l'ingenuità della visione, lo stupore di fronte alle cose del mondo, la fantasia che trasforma tutto in un bel sogno, spicca per la sua capacità di creare atmosfere incantate e rarefatte, oggi diremmo surreali, composizioni cristallizzate nella magia d’una luce mitica, incantata, che nelle scene per così dire d’azione, quelle più importanti della sua produzione, le tre grandi tavole della Battaglia di San Romano (tra le poche, però, superstiti, perché molto è andato perduto di questo pittore), appaiono illuminate da una luce come di tempesta in procinto di scoppiare che sembra fermare i personaggi nel gesto in cui il bagliore corrusco della luce li blocca al modo di un’istantanea fotografica (viene in mente la teoria di Cartier-Bresson: fermare l’attimo pregnante), conferendogli quell’aria di solennità ed eternità e, per l’appunto, mitica, come ho detto poc’anzi. Pittore per nulla realistico, quindi, ma surrealista per eccellenza proprio per quella sua capacità di creare nelle proprie opere quell’alone mitico e magico che va al di là della realtà e la trasfigura nel sogno. E se è vero, come racconta il Vasari, che trascorresse molta parte del suo tempo nello studio della prospettiva, lo fece solo per negare, o meglio distorcere, restituire in modo innaturale proprio quella prospettiva in cui non solo lui si arrovellava al suo tempo, ma molti altri artefici impegnati nell’arte pittorica. Sulla questione dell’uso della prospettiva in funzione magica e surreale è stato De Chirico, tra i pittori contemporanei, ad avvalersene, a farsene, in un certo modo, il campione. Se, come dice Borges in uno dei suoi paradossi più intriganti, ogni artefice crea i propri precursori, non c’è dubbio che De Chirico abbia creato (diciamo meglio, più realisticamente, eletto) a proprio precursore proprio Paolo Uccello. A prima vista è difficile rendersene conto, perché gli esiti pittorici dell’uno sono molto diversi da quelli dell’altro. Ma possiamo scommetterci che De Chirico abbia studiato a lungo il grande Paolo sul tema della resa prospettica; e che, studiandolo, abbia capito che, per creare quell’atmosfera surreale, bloccata nel tempo e decisamente onirica che ha immesso nei suoi quadri migliori, quella che lui ha voluto definire “metafisica”, il segreto stava nel distorcere la prospettiva, nell’usarla come elemento di straniamento dalla realtà. Gli esiti pittorici sono molto diversi, come ho detto, perché De Chirico usava l’ironia in quanto la contemporaneità non consente di abbandonarsi all’incanto della favola e il suo atteggiamento è quello di chi, di fronte alle brutture della modernità, può solo difendersi irridendo il gusto di coloro che, mentre non esitano ad accostare una fabbrica industriale ad un castello rinascimentale, mettono alla ribalta, come se fossero statue classiche, dei manichini di sartoria (parlo, lo si è capito, de “Le muse inquietanti”). E non credo sia un caso che, a proposito dei personaggi di Paolo Uccello, si parli di “manichini” (per restare nel discorso di chi è il “precursore” di chi), perché la loro compostezza e algidità, pur impegnati come sono in una battaglia densa di trombe e di vessilli, irta di lance e di balestre, li estraneizza, per così dire, dal contesto in cui si trovano.

Ma il mondo di Paolo Uccello è quello della favola, un mondo che attinge copiosamente all’armonia, per restituire la quale egli non esita a ricorrere alla matematica e alla geometria, perché alla matematica e alla geometria si è affidata l’opera stessa della creazione. Guardiamo la disposizione dell’armata dipinta nelle tre sequenze della Battaglia di San Romano: è tutta costruita su regole matematiche. Le armi vanno a gruppi accostati per numero: per esempio, se tre balestre e tre lance sono gialle, si contrappongono a tre lance rosse; oppure se le selle sono cinque, cinque sono i baltei; così i pennacchi e gli elmi, e i volti scoperti e i cavalli, sempre a gruppi opposti e corrispondenti di due e di tre, di tre e di cinque. La scena, nei tre diversi momenti in cui si snoda la battaglia, è sempre disposta in un incastro di figure geometriche inserite in un reticolo definito ancora geometricamente, come la selva di lance levate in alto che disegnano un angolo retto corrispondente a quello, disposto all’interno d’un quadrato ideale, delle lance spezzate sul terreno. I colori poi, stesi in modo piatto, assolutamente non reali, come i cavalli gialli e rossi e bianchi e neri galoppanti o rampanti nell’impegno della pugna ma sempre in atteggiamento aggraziato ed elegante, e verde-azzurri quelli caduti a terra sotto l’impeto dello scontro tra le due fazioni, concorrono in modo determinante, insieme alla mancanza di sangue e di morte cruenta che porta con sé la guerra (c’è un solo morto, ma così schiacciato a terra da sembrare più un’armatura abbandonata nella polvere che un uomo reale), a creare l’atmosfera da fiaba, sovra reale e mitica della scena raffigurata dall’artista. Una pittura di pura bellezza, insomma, che si traduce in altissima poesia e che solo un pittore come il mite Paolo Doni detto Uccello (perché amava dipingere gli animali ma soprattutto gli uccelli), artista “coi piedi poggiati saldamente sulle nuvole” (la definizione, felicissima, è di Ennio Flaiano) poteva realizzare.
Mi accorgo d’aver parlato solo della Battaglia di San Romano. Le altre cose di Paolo, quelle almeno giunte fino a noi, vanno annoverate tra le opere minori, anche se per niente irrilevanti, come il ritratto femminile conservato al Garden Museum di Boston o La caccia nella foresta dell’Ashmolean Museum di Oxford, e soprattutto il San Giorgio e il drago della National Gallery di Londra, altra opera favolosa per l’impianto, per l’atmosfera e, ancora una volta, per il sovra realismo della scena. Addirittura l’opera di salvazione della principessa prigioniera del drago da parte del San Giorgo vi appare superflua (concorrendo quindi all’effetto di straniamento o di stupore) perché la principessa tiene al guinzaglio il drago e quindi appare evidente che è lei a tenerlo sottomesso. Ma forse qui è da vedersi un significato simbolico ed edificante: la figura del drago rappresenta il male, e l’immagine della donna che l’ha ridotto al suo controllo (colei che, almeno al tempo di Paolo Uccello, rappresentava idealmente la continenza, la mansuetudine), vuole ricordarci che il male è nella natura stessa dell’uomo e non si può debellare per sempre, ma che dobbiamo imparare a tenerlo a freno, a metterlo al guinzaglio, a vincerlo. E San Giorgio che pretende tuttavia di ucciderlo ci fa la figura del velleitario e dell’ostinato. Con gli occhi di oggi, e mettendola in burla, diremmo del maschilista, perché non si accorge che già ci ha pensato la donna a mettere al guinzaglio la natura animale e maligna dell’uomo.
Dionisio

martedì 5 ottobre 2010

Il Trauma nell'Arte e Charles Sims



Nella Storia dell'Arte (di tutte le Arti, ma ci avvicineremo rapidamente solo a qualche punto della pittura), alcuni tra i pittori più noti o originali sono stati caratterizzati da un disturbo o da una sofferenza psichica profonda. Chi ha vissuto questa condizione si è spesso trovato a filtrare la realtà attraverso visioni ancora più personali, o a rivelare una realtà completamente 'altra' attraverso le sue opere.
Se, già in generale, la funzione dell'artista è anche quella di filtrare la realtà attraverso la sua interpretazione, e restituirla in arte in una maniera nuova,
in questi altri casi anche il mondo della sofferenza psichica viene trasfigurato nelle opere stesse, e produce a sua volta forme e significati. Di più, un aspetto ancora più intimo entra in gioco nelle opere di questi artisti dall'esistenza tormentata.
I casi sono moltissimi: F. Goya, R. Dadd, J. Ensor, E. Munch, V. Van Gogh, L. Wain, F. Bacon, o come nella nostra puntata Charles Sims, per citarne solo alcuni.
Il trauma nell'Arte quindi, come la ferita che si può riversare nell'opera d'arte e diventarne parte integrante, arte anche come genesi della ferita. Ma anche Arte del trauma, segno-stigma, sfogo o riparazione impossibile, transfert o immersione totale in una condizione peculiare.





Charles Sims è stato un pittore inglese (1873-1928): la sua produzione tipica nella prima parte dell'attività spaziava da ritratti, paesaggi, ai temi della pittura decorativa in genere, anche se rivisitati in maniera molto personale, attraverso l'uso di olio, tempera, acquerello. D'altra parte è stato anche uno degli artisti che controcorrente a lungo ha continuato a trattare temi simbolici e romantici fino a dopo la I Guerra Mondiale.






Figlio di un produttore di tessuti e costumi, iniziò a sua volta a lavorare nell'ambito dei tendaggi, ma presto si iscrisse al South Kensington College of Art, poi fu a Parigi presso gli ateliers Julian e Baschet per approfondire gli studi di pittura e decorazione. Si trasferisce nuovamente a Londra per iscriversi alla Royal Academy School nel 1893, ma ne viene espulso nel 1895.
Nel 1897 si sposò con Agnese, figlia del pittore John MacWhirter.
Dal 1896, la sua carriera ottenne approvazioni crescenti; espone con successo "The Vine" alla Royal Academy nel 1896, e "Infanzia" al Musée du Luxembourg.






La peculiarità della sua pittura di questi anni è data dall'adozione di una sorta di realismo magico, connotato da una intensa forza rappresentativa e plastica:
un'idea sognante-edenica della realtà è il sottofondo delle sue visioni,
rivela una capacità particolare nel mostrare i giochi chiaroscurali alla luce diretta del sole in ritratti all'aperto, ridando vita a temi classici e neoclassici inglesi con la trasfigurazione ora onirica ora esuberante-vitalistica di alcuni soggetti con la rappresentazione dell'infanzia, le fate, la scelta di sfondi luminosissimi e irreali nei suoi personali plein air, l'intrusione del fiabesco e dell'elemento mitico nella vita quotidiana. E' stato considerato per queste scelte stilistiche-tematiche uno degli ultimi Romantici.



Nel 1906 nuovamente un buon successo di critica e finanziario seguono la sua personale alla Leicester Gallery. Nel 1910 fu eletto Fellow della Royal Watercolour Society, e nel 1915 alla Royal Academy, ormai la sua pittura è affermata e riceve patenti ufficiali.




La I Guerra Mondiale sarà invece un'esperienza traumatica per Sims e tutta la sua famiglia: nel 1914, un figlio ne rimane ucciso; Sims nel frattempo ha lavorato per un certo tempo come artista di guerra dal fronte fino al 1918.
Terminata la guerra con i suoi eventi funesti, intorno agli anni 20 lo stile della sua pittura cambiò completamente, e anche il carattere del pittore sviluppò tratti misticheggianti così come manifestò la progressiva tendenza a condurre una vita sempre più isolata e solitaria. La sua pittura divenne meno schematica, più libera, violenta, tipica dell'improvvisazione, più emozionale; le figure mostrano adesso un'aura, o sembrano immerse in una luce spettrale.




In questa fase rimase letteralmente sconvolto dalle critiche ricevute per il suo ritratto di George V. Nonostante ricevette nuove cariche di rango alla Royal Academy nel 1920, si dimise e preferì recarsi negli Stati Uniti a dipingere, ma ben presto avvertì incompatibilità anche con quel mondo.

In uno dei ultimi dipinti, denominato "I am the Abyss and I am the Light" presentava figure nude contro fondali astratti particolarmente drammatici. Gli ultimi lavori non sono stati accolti dall'approvazione del mondo dell'arte, per il loro contenuto sconcertante e per lo stile considerato troppo moderno e apocalittico.



Nel 1928, l'artista tormentato da allucinazioni, paranoia e insonnia, causate principalmente dalle scene orribili cui aveva dovuto assistere come artista di guerra ufficiale, e dal dolore per la morte del figlio, si tolse la vita nei pressi della sua casa a St. Boswells, in Scozia.



Poco dopo la sua morte, la Royal Academy espose alcune delle sue opere finali. Il Presidente Sir Frank Dicksee ha descritto le ultime opere di Sims come "in netto contrasto con tutto il suo lavoro precedente, con un violento cambiamento di mentalità". Una recensione del Times, per altri quadri dell'ultimo periodo di Sims, lo paragona a opere di El Greco parlando di 'uso di forme lacerate a fini emozionali',
ma l'impressione più persistente dinanzi alle sue ultime opere, unite alle sopracitate, è che Sims, in seguito alle tragiche vicende del suo privato, avesse voluto significare che la realtà era invece dominata da una sorta di sinistro ordine che aveva svelato come dissonante e minaccioso, unitamente ai segni indelebili dell'esperienza della guerra.

(la parte cronologica e biografica su Sims segue la scheda sul Pittore tratta da Wikipedia UK, data la scarsità di notizie a Suo riguardo è stata fondamentale)

Ai link: i lavori di Sims conservati alla Tate Gallery

e un'altra raccolta .
Notevole ancora l'apparato iconografico qui.


Josh