Adesso che il Novecento è alle nostre spalle già da qualche anno e cominciamo a guardare ad esso con distacco, possiamo individuare con una certa sicurezza i grandi maestri che questo secolo travagliato ci ha lasciato, pur foriero com’è stato di ideologie criminali e di germi di follia autodistruttiva delle cui scorie non riusciamo ancora a liberarci; perché, indubbiamente, anche in questo secolo feroce sono comparse le grandi personalità capaci di assumere il ruolo di figure guida, creando opere durature nelle varie discipline in cui si esercita il genio dell’uomo, dalla filosofia al diritto, dalla politica all’arte. Per questo li chiamiamo maestri (anzi, buoni maestri per distinguerli dai cattivi maestri, dei quali il secolo scorso ha sfornato una quantità ingente), perché la loro opera costituisce un sicuro riferimento di ricerca del vero, del giusto e del bello per chi viene dopo di essi. Nel dominio delle arti, in questo caso del cinema, un posto di rilievo spetta senza dubbio ad Akira Kurosava, un giapponese, certo, un uomo apparentemente molto lontano dalla nostra mentalità e dalla nostra cultura, ma un cineasta che, oltre a produrre una serie di capolavori cinematografici, è stato anche capace di compiere, nella sua opera, il miracolo di fondere temi e linguaggi occidentali con quelli orientali, configurandosi quindi come uno straordinario artista universale. Il linguaggio cinematografico nasce dalla sintesi o dalla fusione delle altre arti, in particolare della letteratura e della pittura. Kurosawa trova la propria ispirazione da fonti letterarie che vanno dal teatro No ai grandi testi dell’antica letteratura giapponese, ma anche da autori come Shakespeare, Tolstoj, Dostoevskij e Pirandello. Nelle arti figurative è influenzato certamente da pittori giapponesi come Hiroshige, ma anche da artisti come Van Gogh per la drammatica carica visionaria dei quadri del pittore olandese ch’egli sa trasferire in tante sue sequenze, e soprattutto dal nostro Paolo Uccello, a cui non smette di guardare per comporre le sue straordinarie scene di guerra, dove riesce a far muovere grandi masse di comparse secondo disegni precisi che mirano, pur nella concitazione degli eventi, a raggiungere un effetto d’armonia che richiama immediatamente l’equilibrio compositivo del grande pittore italiano. Poi vi sono gli influssi più diretti ricevuti da altri autori cinematografici: dal giapponese Satsuo Yamamoto, suo mentore e maestro nel muovere i primi passi come cineasta, ma anche dall’americano John Ford, il primo in Occidente a capire la genialità del giovane regista giapponese e a trasmettergli il gusto di passare, nelle scene di battaglia, dall’affresco corale al dettaglio di taluni duellanti, un accorgimento che nasce con l’epica di Omero e che si trasfonde in Tolstoj, non a caso un autore, quest’ultimo, a cui guardarono con molta attenzione i registi che si cimentarono nelle grandi scene di battaglia, il capostipite dei quali si può individuare senz’altro in Sergej Ejzenstejn (basti pensare a film come Alexander Nevskij e Ivan il Terribile).
Come tutti i grandi artisti, Kurosawa è un testimone puntuale dei drammi e della violenza che ha caratterizzato il secolo in cui è vissuto. Il suo cinema descrive la fine di un’epoca e dei suoi valori comunitari e del vuoto esistenziale che si accompagna all’avvento di un mondo nuovo, più cosmopolita e assai più spietato. Non a caso tra le sue fonti citiamo Pirandello, l’autore di Uno nessuno e centomila e cantore della relatività e dell’indeterminatezza dell’esistenza nel secolo che è dietro le nostre spalle. Rashomon, storia d’una donna strappata da un bandito al legittimo consorte, rappresenta il dramma del relativismo che sfocia nella negazione nichilistica del valore della verità, dove i vari testimoni che raccontano ciascuno a suo modo la vicenda non fanno altro che deformare i fatti per proprio tornaconto, svelando così un egoismo esasperato che preferisce la menzogna all’affermazione della giustizia. Così in Kagemusha, la controfigura che viene sostituita dai dignitari all’imperatore defunto per evitare lacerazioni e conflitti al clan della dinastia regnante, rigidamente legata al senso dell’onore e al rispetto delle tradizioni, finisce per identificarsi nell’uomo di cui ha assunto la parte e di scegliere di morire come sarebbe morto l’imperatore allorché, scoperta da tutti la sua finzione e cacciato in malo modo dai dignitari che l’avevano scelto, il clan di cui ormai ritiene di far parte viene assalito e distrutto da un clan rivale che ha già scelto la modernità e che muove in battaglia dotandosi di armi da fuoco, mentre il clan tradizionalista si affida ancora all’arma bianca. Memorabile, in questo film, la carica suicida dell’esercito armato di sole lance e spade e il carnaio di uomini e cavalli giacente al suolo sul quale corre il Kagemusha per essere immolato a sua volta dalla fucileria che ha falciato il suo esercito. Da tutti i film di Kurosawa si ricava una lezione amara e crudele: che il mondo è sordido e dominato dal male e che, come dice un personaggio di Ran, uno dei suoi film più importanti: “Gli uomini sono pazzi, preferiscono la sofferenza alla gioia”. La filmografia del regista giapponese è molto ricca. Mi limito a citare solo i titoli più noti: L’angelo ubriaco, I sette samurai, Trono di sangue, I bassifondi, Dersu Uzala, Rapsodia d’agosto e, soprattutto, il già citato Ran, un film meraviglioso, questo, uno di quei capolavori assoluti che ti fanno capire come il cinema possa essere un veicolo straordinario di grandi emozioni, angoscia, orrore, pietà, di quel pathos potente e coinvolgente, insomma, che ti inchioda davanti allo schermo e ti lascia una profonda impressione che non dimenticherai più.
Ran in giapponese richiama i termini occidentali di “caos”, “disordine”, "sconvolgimento” e si riferisce ad un mondo senza più leggi né pietà: quello delle guerre feudali giapponesi del XVI secolo in cui si svolge la vicenda del film, ma soprattutto è un’immagine cupa e terribile del mondo contemporaneo. La vicenda è modellata sul Re Lear di Shakespeare ed è la storia di un signore della guerra che ha trascorso la vita a sottomettere i clan rivali e che, all’età di settant’anni, decide di abbandonare il potere e di dividere terre e castelli tra i tre figli. E’ la tragedia testamentaria della decadenza fisica, del distacco dal potere e dalle cose del mondo, ma anche il terribile bilancio esistenziale di un uomo e di un genitore che ha dedicato la vita alla violenza e al sopruso offrendo ai figli quell’unico modello di ferocia che essi si affretteranno a ripercorrere scagliandosi l’uno contro l’altro e contro lo stesso genitore non appena vengono affrancati dalla sua tutela. C’è un unico figlio, il più giovane, capace ancora di nutrire un certo affetto per il padre, ma lo nasconde sotto un’ironia mordace contro la decisione paterna quando gli manifesta la sua contrarietà alla divisione del regno con l’esempio delle tre frecce disunite che si possono spezzare con facilità. Ma il vecchio scambia la sua franchezza per avversione contro di lui e lo bandisce dal regno. Solo quando i due fratelli si sono divorati tra loro e hanno costretto il padre a vagare ramingo e ormai privo di ragione con la sola compagnia del suo buffone, il giovane, alleatosi con un altro signore di cui ha sposato la figlia, torna per rimettere ordine nel caos provocato dai fratelli, ma nel corso della battaglia finale, mentre ritrova e riabbraccia il vecchio genitore (ormai consapevole che solo questo figlio lo ha amato), muore colpito da un proiettile vagante, e il dolore del padre è così violento da averne il cuore stroncato. Il messaggio di questo film così cupo è però molto chiaro: la guerra in cui alla fine tutti muoiono e tutto si distrugge è solo frutto della sete smodata di potere che sconfina nell’insensatezza.