domenica 15 giugno 2014

Giugno vermiglio


Les coquelicots di Monet
L'estate è alle porte. Giugno è il mese della luce e del solstizio che ne rappresenta il suo culmine prima di decrescere gradualmente; è il mese dei colori, dei primi caldi che ci sorprendono e ai quali non sappiamo ancora abituarci.  Dei blu cobalto dei  suoi cieli tersi dopo i temporali. Dell'erba che appena rasata diventa quasi paglia e dei papaveri che scoppiettano allegramente sui bordi delle strade sorprendendo lo studente svogliato nei suoi ultimi giorni di scuola che a lui  sembrano interminabili. A volte mi chiedo quale è il colore dell'estate e in particolare di giugno. Il vermiglio forse, ovvero quella gradazione di rosso che vira all'arancio che anticamente chiamavano cinabro. "I rosolacci dal cuor vermiglio sono le fiamme di tutti i sorrisi" scriveva Giovanni Papini, uno scrittore e poeta, sparito inspiegabilmente dal panorama letterario. Non si trova quasi nemmeno in Internet se non in un brano dedicato alla nipotina dal titolo "La mia Ilaria", l'attrice Ilaria Occhini, la quale dichiara che suo nonno pagò lo scotto dell'essere stato uno scrittore considerato organico al ventennio fascista.  Ma fu grazie a Papini, che imparai che i "papaveri" dei poeti sono i "rosolacci".
Flaming June di Leighton
Vermiglio come il verde melograno dai bei vermiglio fior/ che rima con "e giugno lo ristora di luce e di calor",  fiori che, per l'appunto,  sbocciano proprio a giugno.


Bruciante e vermiglio come  l'abito della donna dormiente nell'ottomana, nell'arcinoto dipinto preraffaellita di Lord Frederic Leighton dal titolo "Flaming June" , dove June sta per il mese, ma è anche un nome di donna.  Un'ardente e fiammeggiante giugno-June che riposa  morbidamente durante la calura in un esotico meriggio. Purtroppo di questo dipinto ne hanno fatto numerosi poster e riproduzioni.




 
Nei colori dell'estate metto  anche il giallo, l'ocra, l'arancione che sono le tinte calde della terra matura di messi. E a proposito di giallo e luce, è sempre di grande suggestione la poesia di Montale

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce
 
Eugenio Montale da Ossi di seppia

Per Ungaretti, invece, l'azzurro e il rosso, non sono in antitesi. Giovanni Fattori associa invece nel suo dipinto l'azzurro del mare, al giallo e al bianco dei buoi. Mentre Pascoli è sempre attento ai microcosmi come steli e insetti.

L'azzurro e il rosso  

Ho atteso che vi alzaste,
Colori dell'amore,
E ora svelate un'infanzia di cielo.

Porge la rosa più bella sognata.

       Giuseppe Ungaretti

Giovanni Fattori - Bovi Bianchi

D'Estate
Le cavallette sole
sorridono in mezzo alla gramigna gialla.
I moscerini danzano al sole
trema uno stelo sotto una farfalla

Giovanni Pascoli

domenica 8 giugno 2014

Jean-Pierre Melville, l'americano di Francia

Chi si occupa di cinema e in particolare di noir conosce questo regista francese, che i cineasti della Nouvelle Vague salutarono come loro maestro. Ma Jean-Pierre Melville (JPM - foto a sinistra) dal carattere introverso e scontroso, non volle mai veramente far parte di scuole né conventicole registiche e cinematografiche. Già il  suo nome richiama il grande romanziere americano Herman Melville (all'anagrafe è Jean-Pierre Grumbach). Durante la seconda guerra mondiale combatte nelle file della Resistenza francese  e  se lo attribuì quale nome di battaglia, proprio in omaggio all'autore di Moby Dick. In seguito a ciò, resta JPM per sempre,  e  collabora all’Operazione Dragoon, lo sbarco delle truppe alleate nel sud della Francia. Dalle sue esperienze di guerra, ricaverà  poi il film L'armata degli eroi (L'Armée des ombres) (1969), ispirato al romanzo del 1943 di Joseph Kessel, dirigendo sul grande schermo interpreti come Lino Ventura, Paul Meurisse, Jean-Pierre Cassel (padre dell'attore Vincent) e Simone Signoret
Lino Ventura attore italo-francese

Uomo introverso, dotato di personalità complessa e scontrosa, appassionato sin dall'infanzia di cinema, matura una profonda ammirazione per la cultura statunitense tanto da assimilarne gli atteggiamenti feticisti per il resto della vita.
 Con JPM nasce il polar, genere cinematografico e letterario, neologismo francese nato dalla fusione dei termini poliziesco (policier) e noir.
Il polar identifica un genere di romanzi e film dalle note cupe ed introspettive caratteristiche del noir, i cui protagonisti però sono tipicamente appartenenti alle forze dell'ordine, spesso coinvolti in un percorso catartico o di mutamento della propria esistenza.
Una volta congedatosi  dalle armi,  Melville cerca di ottenere dal Sindacato dei Tecnici una tessera di assistente-tirocinante per diventare regista, ma gli viene rifiutata e da quel momento decide di autofinanziare i propri film.



Dopo un primo cortometraggio in 16 mm, l’esordio cinematografico avviene nel 1947 con "Il silenzio del mare" (Le silence de la mer) dal testo omonimo di Vercors. La ristrettezza dei mezzi e le riprese rocambolesche non minano il notevole esito della pellicola che gli dà subito fama di intellettuale esperto, specialista in trasposizioni letterarie sullo schermo.

Jean Cocteau lo richiede espressamente per adattare sullo schermo il suo delizioso romanzo "Les enfants terribles" nel 1950 e sarà un vero e proprio piccolo gioiello della cinematografia, oggi praticamente introvabile. Film tenero e crudele, sospeso tra levità poetica e dramma sentimentale di due fratelli (Paul e Elisabeth) somigliantissimi, che vivono praticamente in simbiosi,  e della loro sarabanda di amici del liceo Condorcet. Un film sui generis, lontano dai generi cinematografici prediletti da JPM che sono il poliziesco, il noir, la gangster story.

Bob il giocatore (1955) è il suo primo film “noir”, influenzato fortemente da alcuni capisaldi americani e francesi, quali Giungla d'asfalto ((1950) di John Huston, La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder, Rififi (1954) di Jules Dassin e Grisbì (1954) di Jacques Becker.

Nel cuore di Parigi JPM dà avvio ad  un piccolo ed anomalo caso di indipendenza produttiva, audace per l’epoca ma ben organizzato, suscitando l’ostilità corporativa delle istituzioni cinematografiche francesi. Viene invece considerato un precursore dai giovani emergenti della Nouvelle Vague come Truffaut, Godard e Chabrol, che in lui apprezzano anche lo stile registico scabro e  aderente alla realtà (molte riprese in esterni, budget ridotti, utilizzo di attori semisconosciuti, rifiuto del maquillage). Pertanto viene simbolicamente arruolato da Jean-Luc Godard ad interpretare il ruolo dello scrittore Parvulesco in Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) -1959. Dopotutto JPM ha una fisionomia di caratterista dark.

La successiva vocazione di Melville verso un cinema di genere, al tempo stesso classico ed astratto, ma sempre destinato ad un vasto pubblico e non a ristrette élites, lo allontanerà gradualmente dal movimento dei cineasti emergenti, finché nel 1968 sentendosi concettualmente sempre più estraneo, interromperà polemicamente i rapporti attirandosi un prolungato ostracismo da parte dei Cahiers du cinéma e della critica ad essi collegata.

Ritorna con successo alle gangster story dirigendo Lo spione (Le doulos) e Lo sciacallo (L’aîné des Ferchaux) tratto dall'omonimo romanzo di Georges Simenon, sviluppando ulteriormente alcune peculiarità, quali l’atmosfera priva di speranza (derivata dall'hard boiled, la scuola dei duri americani), la geometria dell’intreccio, l’espressione idealizzata della centralità maschile con annessa una certa misoginia.
Lo sciacallo  (1963)  da Simenon con la simpatica canaglia JP Belmondo è un noir  on
the road interamente costruito in Francia con un'America sognata e ricostruita che  è per il regista una sorta di lost paradise, di terrra promessa. Costretto a rinunciare a una carriera di pugile, il  giovane Michel Maudet  (Belmondo) è stato assunto come segretario di un vecchio banchiere, Dieudonné Ferchaux che lascia la Francia per sfuggire alla giustizia per questioni fiscali. A New York  e poi a New Orleans , i due uomini imparano a conoscersi meglio durante il gioco sottilmente perverso  del gatto col topo. Forse un rapporto filiale dell'anziano banchiere col suo segretario, o  forse un'omosessualità latente, mai palesemente espressa . Sapiente uso del colore in chiave fortemente simbolica.

Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide, titolo distribuito in Italia  dal francese  Le dexième souffle. Tre uomini, un’evasione nella notte. Tra questi Gustave Minda, detto Gu, che si reca a Parigi per rivedere la sua donna Manouche.  La trova che  sta con Jacques il Notaio, ma l’uomo viene ammazzato nel proprio locale davanti ai suoi occhi. La mala di Marsiglia si scontra violentemente con quella di Parigi per il dominio del contrabbando di sigarette. Gu medita l’esilio in Italia, ma qualcuno gli propone di assaltare un blindato carico di platino. L’ispettore Blot, della Omicidi, è sulle sue tracce.
Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide

La recensione: Nel 1967 esce questo film: un rito di fondazione del polar, la scrittura delle sue coordinate e insieme un’interpretazione in apoteosi tra le massime del genere. Nella scena d’apertura, giustamente leggendaria, Melville distribuisce le carte: nel buio tagliato da squarci di luce, si sviluppa una triplice fuga che porta alla morte di uno degli evasi. E’ un movimento fluido e silenzioso, come la pace prima del boato, che nell’assenza significativa del segnale umano razionale (il verbo) afferma già la possente influenza della mano fatale, subito capace di segnare la curva tragica degli eventi. Siamo al presagio, alla previsione potenziale di un’opera che cammina a fiammate (silenzio – moto – sangue); Le deuxième souffle prende di partenza lo stilema americano e lo ravviva, come sempre nell’autore, estenuandolo da una parte e dall’altra prosciugandolo all’estremo. Nel porre come traccia il mito favolistico dell’Uomo alla ricerca della Donna (la prospettiva – solo apparentemente verosimile – della fuga d’amore), cede così la meccanica razionale dell’intreccio; questa è trafitta obliquamente da riflussi di romanticismo che, proprio perché gelidamente arginato, diventa parossistico (Manouche sa che Gustave morirà; ce lo dice il volto, la  postura, le frasi sospensive, la posa sublimata nel finale). Nelle scene puramente criminose, caratterizzate da una costitutiva stesura degli archetipi (il poliziotto, il fuorilegge, la banda, l’amante), i dialoghi escono di bocca come incisioni lapidee, alla stregua di sentenze che iscrivono ogni figura al proprio ruolo inesorabile. Tali premesse, in mano a Melville, si piegano alla dialettica costante tra due momenti, sospensione e esplosione, dove l’uno non è meno ricamato dell’altro (una scena classica di raccordo, Gustave in macchina, grazie al primo piano di Lino Ventura viene bagnata di significato); la lieve galleria di simboli procede al montare peculiare della tensione. Se il colpo al furgone dei lingotti è notevole per marchiare l’antenato del film (la sfida americana all’autorità, con western connessi), risulta angolare la mirabile ripresa dell’attesa: notare il bandito che posa gli occhi sul formicaio e, senza motivo, si sofferma sul brulicare scomposto che presume schiettamente il momento della strage. La stima del futuro vive nei simboli, dunque, tra tutti la danza delle pistole: queste prolungano i protagonisti, vanno di mano in mano, scompaiono e raddoppiano, simulano impugnature come ipotesi carsica sullo scorrere degli eventi. Ancora costante poetica, su piano sostanziale il cacciatore e la preda si scambiano sguardi di profondo rispetto, risultando nettamente speculari, e intavolano una lotta archetipica dal profumo mitologico; il paramento morale impone l’ onore delle armi, che il vincitore concederà naturalmente al vinto, come atto prestabilito già segnato nell’ordine delle cose. Questo insistere sul manto fatale, il riflettersi geometrico delle pedine, si piega nella cinepresa melvilliana a una magnificazione stilistica: lo specchio funge da metonimia centrale dell’intreccio, che ospita la carezza di Gustave all’amata, prima della strage, e la caduta di uno dei complici freddato da un proiettile.
A margine: il titolo italiano, Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide, suona talmente fuori luogo e fieramente retrò da seminare perfino un fascino sottile.
Alain Delon in "Frank Costello faccia d'angelo"

Importante, la collaborazione  di JPM con Alain Delon  nell'indimenticabile interpretazione di Frank Costello faccia d'angelo, film nel quale Delon è praticamente silente quanto spietato.  Il film segna l'inizio della loro collaborazione  che sarebbe continuata con I senza nome (1970) e Notte sulla città (1972), sino alla morte del regista.

È forse uno dei punti più elevati del polar . In effetti, sin dalla frase che appare all'inizio ("Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla") e che spiega il titolo originale (Le Samouraï), è evidente l'ispirazione di Melville, da sempre ambasciatore del cinema americano in Francia a quel modello di "killer esistenziale", già individuato nel prototipo nel Philip Raven, interpretato da Alan Ladd, in Il fuorilegge di Frank Tuttle, ispirato al romanzo "Una pistola in vendita" di Graham Greene. ("...non il gangster come esponente della malavita organizzata o comunque come criminale immerso in un preciso quadro sociale, ma assassino solitario che si distacca anche dagli abituali connotati etnici per risolvere il suo tragitto in un personale confronto con la morte").
La tessitura del film è arricchita da riferimenti alla cultura giapponese. Così la sobria e perfezionistica ritualità dei gesti che introducono all'uccisione del gestore del night - ma che rimanda anche al Robert Bresson di "Diario di un ladro"  o di "Un condannato a morte "è fuggito - o i guanti bianchi indossati da un ineffabile Alain Delon, prima di simulare, con un'arma scarica, l'esecuzione della pianista jazz Valérie e di essere crivellato dai colpi della polizia.

Artista solitario e controverso, maniacale controllore di tutte le fasi della lavorazione (curava operativamente persino il montaggio alla moviola), Melville è stato largamente incompreso dalla critica specializzata.
In seguito ad alcuni omaggi  e studi inediti  postumi, è stato ampiamente rivalutato fino alla consacrazione come uno dei più importanti innovatori della settima arte.
Un contributo fondamentale alla  sua riscoperta è stato fornito negli anni '90 da alcuni registi delle nuove generazioni cimentatisi nel “polar” (soprattutto americani ed asiatici), debitori dichiarati del suo cinema singolare. Basti ricordare:  Michael Mann (Heat - La sfida, 1995), Quentin Tarantino (Le iene, 1992), Takeshi Kitano (Sonatine, 1993), John Woo (The Killer, 1989 e Jim Jarmusch (Ghost Dog, 1999).


Michel Costantin
E tuttavia, ad onta della sua influenza "americana", l'astratto distacco, le atmosfere sospese e l'ironia sottile nei dialoghi fanno   di lui un cineasta europeo made in France con la capacità di aver creato formidabili maschere  di duri alla francese altrettanto famose e credibili delle maschere americane; con personaggi interpretati da Jean-Paul Belmondo, le voyou dalla simpatica smorfia, Lino Ventura, il fuorilegge dal cuore tenero, munito di un suo codice d'onore, Alain Delon, il  tenebroso bello e fatale, Michel Costantin, con quella faccia sfregiata da serial killer, coriaceo caratterista e comprimario sempre sospeso fra i ruoli di  spietato sicario ma  anche di poveraccio perseguitato dalla malasorte, Paul Meurisse e tanti altri splendidi attori, resi indimenticabili dai suoi film.
Poi vennero le "prime donne"  ovvero "les intellos" della regia e gli attori persero aura; ma Melville pur nella sua ardita sperimentalità, resta un classico della modernità, dove gli attori sanno essere ancora i veri  deus ex machina di storie da lui sapientemente dirette.