lunedì 17 novembre 2014

Pronto, chi legge? ovvero, la lettura dimenticata

Leggiamo ancora? E quanto leggiamo? Se si tratta della lettura dei giornali, posso anche capire che vi si rinunci: dicono il falso, omettono l'interessante, filtrano e fanno "velina" secondo occulti giochi di potere verso chi li finanzia. Poi oggi con l'informazione fai-da-te che proviene dal web, è più che  normale  che si preferisca ragionare con propria testa, andando a reperire personalmente le fonti. Ultimamente però i grandi abbandonati sono proprio i libri.  Si cerca, pertanto,  di correre ai ripari con iniziative per incentivare la lettura come ad esempio, l'omaggio di opuscoli che contengono classici, la nascita di associazioni culturali con relativo prestito di libri.  Ci sono perfino tratti ferroviari regionali come Trenord che danno in opzione un libro al viaggiatore affinché inganni il tempo con la lettura, da restituire quando il  viaggiatore-pendolare torna alla base. Tuttavia non si legge più, o si legge sempre meno:  inutile negarlo.  Qualcuno sostiene che la lettura si sia spostata sui tablet, su lavagnette luminose, su smartphone e sui display dei cellulari. In realtà potremmo dire che è esattamente il contrario: è a causa della rivoluzione high-tech che il mondo di Gutenberg è stato messo in dura precarietà.  Basta dare un'occhiata alla crisi attraversata dall'Editoria, alla chiusura di importanti librerie del centro delle città d'Italia. La visualizzazione luminosa del testo scritto con icone, immaginette, colori ecc. rende più invitante il leggere, che aprire un polveroso libro tutto fatto di caratteri uniformi. Non c'è nulla di più astratto e simbolico dei caratteri di stampa. Ma visualizzare non significa necessariamente leggere.  

Un tempo la scrittura-lettura aveva caratteri divini (la Bibbia - Il Libro), di rivelazione.
Gli scribi, nell'antico Egitto, appartenevano a una casta molto potente, ammirata e ben retribuita che si occupava dell'amministrazione del paese. Nel Regno Antico essi venivano scelti tra le famiglie nobili.

Il tempo per formare uno scriba era molto lungo: solo gli alunni più dotati, coloro che imparavano l'arte complicata del geroglifico monumentale, riuscivano ad arrivare a corte. Lo scriba, mantenendo il segreto della sua professione, tramandava le sue conoscenze di generazione in generazione. Agli scribi era assegnato come protettore Thot, il dio della scrittura e della saggezza, nonché mago e messaggero degli dei.

Gli scribi assunsero un ruolo di grande importanza, formando una classe intellettuale di alto calibro nella società egizia. Per una ragionata storia della scrittura (attività mai disgiunta dalla lettura) leggere qui:

http://www.funsci.com/fun3_it/scrittura/scrittura.htm

Per motivi di spazio, sono costretta a saltare la pratica della scrittura-lettura presso Greci e Latini, ma il mio pdf del Carboni, ovvia perfettamente alla bisogna.  Tra i metodi di conservazione dei testi, grande, paziente, minuziosa e laboriosa fu l'opera dei Monaci Amanuensi nelle certose e abbazie durante e dopo le invasioni barbariche. In primis S. Benedetto da Norcia, la sua Regola  e i suoi benedettini.
 

Johannes Gutenberg
Poi arrivò Gutenberg e con esso la rivoluzione della stampa a caratteri mobili. La stampa a caratteri Donatus pro puerolis (cioè una grammatica latina per i bambini, ora disperso), il De Oratore di Cicerone, il De Civitate Dei di Sant'Agostino  tutti con una tiratura di 275 copie. Una pressa come quella di Gutenberg venne costruita a Venezia nel 1469; nel 1500 la Serenissima contava ben 417 editori. Dopo l'invenzione della stampa a caratteri mobili, Venezia divenne la città più importante per il settore dell'editoria. Ciò fu possibile grazie ad alcuni fattori come la grande libertà di stampa che vigeva nel territorio della Serenissima, l'estesissima rete commerciale della repubblica, l'impiego della carta prodotta dalle cartiere di Piave Brenta e lago di Garda, l'alto tasso di alfabetizzazione della popolazione maschile veneziana e la grande disponibilità di capitali messi a disposizione da parte dei nobili veneziani. Da allora, ne cambiarono cose, nell'ambito della cultura, della scienza, della letteratura, della poesia, della musica, nella distribuzione dei volumi stampati. 


Ora però sembra di vivere nuovamente un'era barbarica: c'è più bulimia da informazione, ma meno cultura; c'è più abilità, ma meno formazione e costruzione dell'Individuo. Soprattutto si è costituito un esercito di "scriventi", ma pochi o nessun vero scrittore. Mentre scarseggia o o addirittura manca l'attento lettore.
E' del mio parere anche lo scrittore statunitense Nicholas Carr, autore del saggio "Google ci sta rendendo  stupidi?" in questa intervista concessa al Corriere  nel quale parla della pervasività della rete, dei suoi vantaggi, ma anche delle sue controindicazioni...


Basta prendere Internet e le tecnologie digitali a scatola chiusa. Offrono opportunità straordinarie di accesso a nuove informazioni, ma hanno un costo sociale e culturale troppo alto: insieme alla lettura, trasformano il nostro modo di analizzare le cose, i meccanismi dell’apprendimento. Passando dalla pagina di carta allo schermo perdiamo la capacità di concentrazione, sviluppiamo un modo di ragionare più superficiale, diventiamo dei pancake people, come dice il commediografo Richard Foreman: larghi e sottili come una frittella perché, saltando continuamente da un pezzo d’informazione all’altra grazie ai link, arriviamo ovunque vogliamo, ma al tempo stesso perdiamo spessore perché non abbiamo più tempo per riflettere, contemplare. Soffermarsi a sviluppare un’analisi profonda sta diventando una cosa innaturale».



Nicholas Carr è la bestia nera dei fan della Rete «senza se e senza ma» e dell’industria delle tecnologie digitali. Due anni fa un suo saggio, pubblicato dalla rivista «The Atlantic» col provocatorio titolo «Google ci sta rendendo stupidi?», fu il primo sasso gettato nello stagno della Internet culture. Carr, uno studioso che ha lavorato nella consulenza aziendale e ha diretto a lungo la «Harvard Business Review», fu bollato dal popolo del web come un nemico della tecnologia. 

In realtà — racconta oggi dalla sua casa in Colorado dove si è ritirato a scrivere libri—fin dagli anni Ottanta sono sempre stato un consumatore febbrile delle tecnologie digitali a cominciare dal Mac Plus, il mio primo personal computer. Sono sempre stato un tecnofilo, non un tecnofobo. Ma il mio entusiasmo si è man mano attenuato con la scoperta che, oltre ai vantaggi che sono sotto gli occhi di tutti, la Rete ci porta anche svantaggi assai meno evidenti e proprio per questo più pericolosi. Anche perché gli effetti saranno profondi e permanenti ».


Jaron Lanier, il genio dell’intelligenza artificiale che in un recente libro- manifesto ha messo in guardia dal «collettivismo» di Internet che uccide la creatività individuale, in Rete è stato bollato come un traditore. Sarà più difficile trattare nello stesso modo The Shallows («Superficialità: Quello che internet sta facendo alla nostra mente») il suo nuovo libro che già fa discutere quando mancano ancora più di due mesi alla pubblicazione negli Usa. Il perché lo spiega lo stesso Carr: «Quello sull’"Atlantic" era un saggio scritto sulla base della mia esperienza personale, una riflessione su come la cultura digitale ha cambiato il mio comportamento. Negli ultimi due anni mi sono sforzato di andare oltre il personale, esaminando le evidenze scientifiche e sociali di come Internet—e anche rivoluzioni precedenti come quella dell’alfabeto — hanno cambiato la storia intellettuale dell’umanità. E di come le nuove tecnologie influenzano la struttura del nostro cervello perfino a livello cellulare.


La scuola dovrebbe insegnare a usare con saggezza le nuove tecnologie. In realtà, però, gli educatori e perfino i bibliotecari si stanno abituando all’idea che tutta l’informazione e il materiale di studio possano essere distribuiti agli studenti in forma digitale. Dal punto di vista economico ha certamente senso: costa meno. Ma limitarsi a riempire le stanze di sistemi elettronici è miope. Come ci insegna McLuhan, il mezzo conta, e parecchio. Senza libri non solo è più difficile concentrarsi, ma si è spinti a cercare di volta in volta su Internet le nozioni fin qui apprese e archiviate nella nostra memoria profonda. La perdita della memoria di lungo periodo è il rischio più grosso: è un argomento al quale ho dedicato un intero capitolo». (...)




Oggi, poi, non c’è solo l’uomo più o meno capace di plasmare il suo futuro: pesano anche gli interessi delle grandi corporation delle tecnologie digitali. Riecco Google...

«A far fare soldi alle società della Rete è il nostro moto perpetuo da un sito all’altro, da una pagina web all’altra.  Sono i nostri clic compulsivi a far crescere gli incassi pubblicitari. L’ultima cosa che può desiderare una società come Google è che diventiamo più riflessivi, che ci soffermiamo di più su una singola fonte d’informazione ».

Curioso. A sostenere la tesi della libertà assoluta della Rete, senza regole né percorsi educativi, sono soprattutto i progressisti. Con argomenti che, almeno negli Stati Uniti, a volte ricordano quelli usati dai libertari conservatori sulle armi, contro i vincoli in campo ambientale o le regole di educazione alimentare che avrebbero potuto evitare le epidemie di obesità e diabete. Nemmeno Google suscita, per ora, grandi diffidenze. Perché?


«Perché la controcultura della sinistra Usa, contrarissima ai grandi calcolatori Ibm fino ai roghi di schede perforate degli anni ’60, ha poi scoperto nel personal computer — uno strumento individuale sottratto al controllo delle corporation e dei governi— uno strumento di libertà. Ed effettivamente era così, è stato così a lungo. Ma negli ultimi anni molto è cambiato: dal crowdsourcing che significa lavoro e idee gratuite per molte società che operano in Rete, alle reti sociali come Facebook che si comportano come latifondisti dell’Ottocento: affittano gratuitamente pezzetti di terra per poi guadagnare sulla sua coltivazione. È ora di cominciare a riflettere».


Qui l'intera intervista: http://www.corriere.it/cultura/10_marzo_27/gaggi_rete_e417c1d0-397a-11df-862c-00144f02aabe.shtml




Per finire, non sappiamo questo nuovo mondo virtuale, così collettivistico e fatto di "condivisioni" (termine abominevole) , ma anche di solitudini e di lunghi silenzi, dove ci porterà. Né sappiamo se il testo stampato continuerà ancora a lungo o sarà relegato a musei, biblioteche e operazioni nostalgia. Voglio mettere in guardia gli "ultramoderni" dalla facile obiezione secondo la quale si possono scaricare anche i "classici" da Internet. Vero, ma si possono anche manomettere, tagliare e perfino modificare parti ritenute poco adatte al pubblico, o addirittura politicamente scorrette e poco convenienti.

Nel frattempo, consiglio di non farvi prendere dalla furia iconoclasta o biblioclasta, di sbarazzarvi dei vostri libri per far largo a dischetti, chiavette, Cd e altre diavolerie, con la scusa che occupano spazio e che la casa è piccola. E' certo che li rimpiangerete.