venerdì 26 febbraio 2010

Girgenti amore mio

Dopo aver letto questo post - che riporta un articolo dove è citata, con tutti gli strambalati particolari del caso, la balzana petizione scritta da luminari alla ministra Gelmini, affinchè abolisca lo studio di Dante nelle scuole - la tentazione di parlare della Divina Commedia è stata forte. Ma ho promesso di accennare a Girgenti amore mio, e quindi Dante lo rimando a dopo l'8 aprile, quando, quella sera di 710 anni fa, il Sommo aveva iniziato il viaggio fantastico attraverso il "suo" Inferno immaginario, scrivendo così:
Lo giorno se n'andava e l'aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m'apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate, / che ritrarrà la mente che non erra.
I lettori assidui di questi blog sapranno della mia passione per la Divina Commedia, ma, come detto, rimando ad altra data il riparlarne.
Per riprendermi dal malumore suscitatomi per quella stravagante idea, non c'è di meglio che parlare di Gianfranco Jannuzzo e del suo esilarante spettacolo, Girgenti amore mio, messo in scena nei teatri. Potrà sembrare un argomento e una questione sciocca, ma, chiarito che per me è stato un evento, si capirà appunto che non lo è. Devo pertanto precisare, che, da almeno dieci anni, anche per causa di un impedimento fisico, non ho più varcato la soglia di un vero teatro, mentre da giovane facevo addirittura parte di un gruppo di applauditori che giravano per i teatri milanesi. C'è voluta la verve trascinante di Gianfranco Jannuzzo, per farmi vincere la pigrizia e l'apatia per i teatri. La sera del 17 ottobre 2008, facendo zapping col telecomando, vidi casualmente su Rai 2 il suddetto mentre stava declamando il monologo Nord e Sud , registrato al Teatro Manzoni di Milano. Pensavo fosse uno dei soliti attori umoristi che mi ero ormai stancato di vedere in quei programmi di pseudo approfondimento che abbondano sui canali Rai. Anche per via dell'ora tarda di messa in onda (erano passate le 23), avrei spento il televisore. Ma, con vivo interesse, m'avvidi che non era come uno dei soliti umoristi bazzicanti in quelle reti. E, d'altronde, di Gianfranco Jannuzzo sapevo ben poco, e quindi, il semplice fatto che a recitare fosse lui, non era ancora per me garanzia di qualità. Avevo ancora solo una vaga conoscenza, soprattutto legata al fatto che era stato sposato con Gabriella Carlucci, la conduttrice di uno dei miei programmi preferiti, Mela Verde, un programma qualitativamente valido. Alla Carlucci, e al suo programma, avevo perfino dedicato il post d'inaugurazione del mio blog. Quella sera, con quelle scenette che sembravano squisite improvvisazioni sulle evidenti contrapposizioni tra Nord e Sud, Sud e Nord, Gianfranco Jannuzzo conquistò sul campo la mia simpatia, considerandolo da quel momento uno dei migliori attori viventi italiani. Saputo della sua venuta a Monza, nei giorni dal 18 al 21 febbraio scorso, mi sono premurato subito per andare a vederlo recitare dal vivo. E ne sono rimasto affascinato. Lo dicevano anche i vicini di post0: gli spettacoli di Jannuzzo hanno la particolarità che non si sente mai una volgarità, una parolaccia: sa anche far ridere senza mai usare tali riprovevoli mezzi. Oltre a non sparlare mai di politica, o di politici, di qualunque colore essi siano, nè di religione o di religiosi, non ne fa mai il benchè minimo accenno, neanche la più lieve scalfitura. Mentre tutti sappiamo che oggi, soprattutto in questo periodo, ci sarebbero argomenti a iosa per impostare un qualunque spettacolo umoristico satirico, soprattutto se si va a pescare nel torbido di tali argomenti. Ma chi va a teatro credo cerchi argomenti inediti o cose diverse da quanto viene propinato giornalmente dai programmi Tv; per i quali si è anche obbligati a pagare un canone. Gianfranco Jannuzzo l'ha capito meglio di altri, che la gente è stufa di tale andamento, e che è stanca di vedersi propinare in Tv comici/umoristi/satiri che si atteggiano a grandi moralisti, o che predicano le buone regole del vivere in comune. Scherza anche lui su questioni di mala creanza, sulla carenza d'acqua nella sua Agrigento, con la gente costretta far la coda per un bidoncino d'acqua e pagarla; sul pizzo, sulle opere publiche che servirebbero, o su quelle mai terminate, ecc., ma lo fa con grazia e senza mai offendere o tirare in ballo nessuno. Soprattutto, mai con i modi di fare del moralizzatore. Ci scherza sopra e basta; facendo ridere di vero gusto la gente; e non a comando, come invece avviene in certi programmi Tv.
Due ore e mezza ininterrotte di monologo - se non per un breve intervallo - e alla fine il pubblico non era stanco di sentirlo e sembrava non se ne volesse andare, tanto che ha dovuto riprendere scenette dal suo vecchio repertorio, per accontentarlo.
Lo spettacolo in questione è andato in scena al Teatro Manzoni di Monza .
Scritto con con Angelo Callipo, Girgenti amore mio "è il tentativo sincero e appassionato di dialogare con le proprie radici". E' la rappresentazione teatrale de "la più grande di tutte le esperienze, quella dell'amore per la propria terra", dove Girgenti, antico nome di Agrigento, ciascuno può sostituirlo col nome della propria città del cuore, quella dove affondano le proprie radici, e dialogare con essa.
Declama la sua Agrigento, come culla della civiltà preromana in terra di Sicilia, della quale rimane la viva testimonianza nella Valle dei Templi; declama la sua spiaggia, terra di sbarco di Greci, Romani, Arabi, Normanni, ed ora di extracomunitari in quel di Lampedusa. Declama Girgenti, città natale di Pirandello, e Girgenti, sua città natale quando già si chiamava Agrigento, e la stessa, città natale dei suoi genitori quando ancora si chiamava Girgenti; il tutto con un recitativo da attore stagionato, come per i grandi monologhi alla Giorgio Albertazzi o Vittorio Gassman.
Nello spettacolo Jannuzzo rappresenta la propria terra in tutte le sue possibili sfaccettature. Ciascuno può fare lo stesso con la propria città, come in un gioco, sostituendo a Girgenti il nome della città delle proprie radici. Si otterrebbe così, ad esempio, "Milano amore mio", "Varese amore mio", "Livorno amore mio", ecc.
Per ognuno, il luogo è quello che solitamente coincide con quello di nascita, bello o brutto che sia. E anche se poi si è stati sbalzati via, come è capitato a me; o come è capitato all'attore che da ragazzo si è dovuto trasferire a Roma, con la propria famiglia d'origine. Ma ad Agrigento, Girgenti, ha mantenuto il cuore. E' là dove, se vuole, può ancora assaporare l'essenza vera della vita.

Io, ad esempio, che sono nato in un paesino della Pianura Lombarda, a mò del gioco suggerito da Jannuzzo, potrei mettere il suo nome al posto di Girgenti e così scavare tra i ricordi delle mie origini, delle mie radici. Provo così ad immaginare quel luogo, la sua gente, le sue caratteristiche peculiari. Ci sono molto affezionato, anche se non vi trovo nulla di esteticamente bello. M'accorgo però che non lo vedo più da tanti anni, e quindi sarà molto cambiato; non conoscerò più nessuno. Ma se ci dovessi tornare, sono certo che riassaporerei, almeno per un giorno, l'essenza vera della vita. In effetti, a pensarci, tutto il mio vissuto è legato a nomi di ben altre località, ma in quel borgo dalle vecchie case e asserragliate in cascine, come quella in cui sono nato, è là che ho respirato il primo alito di vita; è là dove, come accecato da un vivido bagliore che ancora ricordo d'aver visto, da quel momento, da quel giorno è iniziata la vera esistenza, fatta di quei tenui ricordi infantili.

Nel monologo, Gianfranco Jannuzzo inscena i suoi ricordi di giovinezza, e rappresenta anche quella sorta di conflitto interiore che, come lui, ha vissuto e vive chi viene sbalzato in una nuova città, dove non ci è nato. Vive da molti anni a Roma, una città che gli ha dato molto, ma è Girgenti che ama. Ha imparato ad amarla anche grazie all'amore che ne hanno i suoi genitori. E così, recitando, racconta che vi si reca di tanto in tanto, cercando negli sguardi della gente, nelle loro movenze, nei loro tic ed abitudini, l'essenza vera della città.
Dopo due ore e mezzo ininterrotte di monologo spettacolare, la gente non se ne voleva ancora andare. Jannuzzo era però atteso per il nuovo spettacolo delle 21, e così noi delle ore 16 abbiamo dovuto giocoforza prendere la strada dell'uscita.
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Le foto dello spettacolo sono tratte dal sito del Teatro Manzoni di Monza , cui viene chiesta l'autorizzazione a pubblicarle.
Fuori tema, allego il link della bislacca petizione alla ministra Maria Stella Gelmini
Aggiornamento susseguente al commento di Sympatros (leggere spiegazione nel commento)

mercoledì 17 febbraio 2010

Il Gatto nella vita e nell'arte, dire di metterlo nel piatto è da idioti



Un cane é prosa, una gatta é poesia


Prendo spunto dalla pessima sortita televisiva di Beppe Bigazzi, per tessere un’ode ai gatti, amici discreti e intelligenti, eleganti e rilassanti, coccolati senza riserve o odiati con crudeltà.
Il gatto (meglio se femmina) é l’animale con il quale mi identifico se dovessi scegliere un alter ego nel mondo animale, come ho già detto è intelligente, sceglie il suo “padrone” ma non ne diventa succube, c’è sempre un rapporto paritario fra il gatto e il suo compagno umano. E’ fiero, sinuoso e di una bellezza armoniosa, ha bisogno dei suoi spazi, e mai si capisce cosa nasconda dietro il suo sguardo impassibile. E’ un animale misterioso e indipendente per questo ha subito vere e proprie persecuzioni e non è in genere molto amato. Ma il rapporto che riesce a creare con il suo amico umano, è unico, profondo, esclusivo e per tutta la vita, fino all’ultimo istante. Quando si avvicina il momento del distacco , non è vero che va a nascondersi, con le sue ultime forze, cerca disperatamente chi ama e lo ha amato, per dirgli addio, per “addormentarsi” un’ultima volta al calore della sua mano. E’ un momento molto doloroso, che io ho vissuto e che mi ha fatto comprendere quanto sciocche siano le leggende che circolano sul gatto, e quanto al contrario, la sua fedeltà ad un unico “padrone” sia profonda e tenace. Esclusiva.
Il gatto nell’arte
Fin dai tempi remoti il gatto ha affiancato l’uomo diventando una figura simbolica molto potente, nel bene o nel male, rappresentata in ogni epoca e in tutte le varie arti.
Furono gli Egizi che iniziarono ad addomesticarlo intorno al 4000 a.C. per la sua abilità nel cacciare i topi. I gatti, e in particolare le gatte, dal Medio Regno vennero considerati animali sacri alla dea Bastet, una divinità figlia di Ra, che regnava sull’amore, sulla fertilità e sui giorni di festa.


Bastet veniva raffigurata come un gatto o con la testa di gatto e il corpo di donna. Gatti sacri vivevano nel tempio di Bastet e quando morivano venivano mummificati e rivestiti di bende di lino. Il loro capo veniva ricoperto da una maschera in bronzo con la loro effige e la sepoltura consisteva in un sarcofago a forma di gatto seduto, collocato poi nel cimitero del tempio.
Sicuramente l’epoca egizia fu la più favorevole ai piccoli felini. Anche i romani, ammiravano le qualità del gatto e quindi si trovano sue raffigurazioni su scudi e stendardi.
Ma con l’avvento del cristianesimo iniziarono le dolenti note, fu molto rappresentato ma in senso negativo, il gatto era visto come un essere diabolico, malvagio e simbolo del peccato.
“Streghe” e gatti neri se la passarono molto male.
La prima vera rivalutazione fu ad opera del geniale Leonardo Da Vinci, che arrivò a definire "un capolavoro" il gatto. A lui dedicò studi in cui lo raffigura nei suoi atteggiamenti abituali: di lotta, di gioco, di caccia, di pulizia personale.
Alla fine del 1500 il gatto fu totalmente riabilitato, e gli si spalancarono a pieno titolo le porte dell'arte moderna: Manet, Matisse, Renoir, Gauguin, dedicarono al gatto spazio sulle loro tele. E in epoche più recenti Balthus, Picasso, Andy Warhol, Fontana e persino Duchamp.

Anche sul versante letteratura il gatto compare spesso nelle favole ma anche negli scritti di Esopo, Fedro, Cicerone, Plinio il Vecchio, Erodoto, solo per citarne alcuni.
Ma i veri amanti del gatto furono i poeti: Baudelaire, Elliot, Neruda, Rostand, Rilke Verlaine, Yaets, Apolinnaire, Pessoa, Prèvert, Saba, Borges, Swinburne, Rodari.
C’è un legame molto uno stretto tra la poesia e i piccoli felini: incantati dai loro pregi, i grandi poeti di tutti i tempi hanno dedicato versi immortali al loro animale. C'é anche un'antica credenza che vuole un manoscritto morso da un gatto destinato al successo. Il poeta Aldous Huxley disse ai suoi allievi che gli avevano chiesto il segreto per avere successo in letteratura: "Se volete scrivere, tenete con voi dei gatti". Petrarca pretese che alla sua morte il suo gatto fosse imbalsamato e tumulato in una preziosa nicchia sulla quale si può leggere:"secondo solo a Laura". Torquato Tasso scrisse un Sonetto in cui chiedeva alla sua micia di illuminare il foglio con i suo occhi splendenti, per poter scrivere anche di notte. Charles Baudelaire, il sulfureo poeta francese
era un grande amante dei gatti e a questi animali misteriosi e affascinanti ha dedicato molti versi, tutti contenuti nella raccolta Spleen e Ideale. Victor Hugo era talmente grato al suo gatto che arrivò a costruire, per lui, un comodo trono. Ed i pronipoti dei gatti di Hemingway vivono ancora nella casa dello scrittore.
In conclusione non c’è animale che susciti passioni più forti del gatto, e proporlo come una “pietanza” non è indice solo di mancanza di sensibilità animalista, ma anche di cultura.
E adesso una carrellata di amanti dei gatti:
primo fra tutti LEONARDO da VINCI che lo definì "Capolavoro della Natura" e volle dipingere " questa meraviglia del Creato in braccio al Creatore". E coraggiosamente, perché in quei tempi il gatto era ritenuto una presenza diabolica.

Sono quasi quattromila gli Accademici del Tempo Passato che sono stati numi tutelari dei gatti, tra i quali:
Dante Alighieri, Cleveland Amory, Guillaume Apollinaire, Honoré de Balzac, Jacopo Bassano, Charles Baudelaire, Johachim du Bellay, Pierre Bonnard, Jorge Luis Borges, George Brassens, Fra Raffaele da Brescia, Jan Breughel le Vieux, François Boucher, Giordano Bruno, Lewis Carrol, Louis Ferdinand Céline, Marc Chagal, Jules Husson detto "Champfleury", Charles Chaplin, François René de Chateaubriand, Winston Churchill, Jean Cocteau, Colette, Carlo Collodi, Confucio, Gabriele D'Annunzio, Eduardo de Filippo, Eugène Delacroix, Charles Dickens, Gustave Doré, Alexandre Dumas, T.S. Eliot, Léonard Tsuguharu Foujita, Jean Honoré Fragonard, Anne Frank, Paul Gallico, Théophile Gautier, Franco Gentilini, Domenico Ghirlandaio, Alberto e Diego Giacometti, Nikolaj Vasulevic Gogol, Johann Wolfang Goethe, Francisco Goya, J.J. Grandville, Papa Gregorio Magno, Papa Gregorio II e III, Ernest Hemingway, E. T. Hoffmann, William Hogart, Victor Hugo, Aldous Huxley, John Keats, Rudyard Kipling, Ernest Ludwig Kirchner, Paul Klee, Gustave Klimt, Lenin, Edwar Lear, Paul Léautaud, Papa Leone XIII, Abramo Lincoln, Pierre Loti, H.P. Lovecraft, Louis XIV, Louis XV, Edward Verral Lucas, Compton Mackenzie, Stephane Mallarmé, Edouard Manet, Giorgio Manganelli, Maometto, James Mason, Jules Massenet, Henri Matisse, Antonello da Messina, Joan Mirò, Marino Moretti, Pablo Neruda, Ippolito Nievo, Charles Perrault, Francesco Petrarca, Pablo Picasso, Edgar Allan Poe, Madame de Pompadour, Augustin Paradis de Moncrif, Pontormo, Jacques Prévert, Maurice Ravel, Pierre August Renoir, Cardinal de Richelieu, Riainer Maria Rilke, Gianni Rodari giornalista, poeta, scrittore, Theodore Roosvelt, Jean Jacques Rousseau, Doganiere Rousseau, Umberto Saba, Luigi Santucci, Erik Satie, Domenico Scarlatti, Albert Schweitzer, William Shakespeare, George Simenon, Théophile Alexandre Steinlen, Frank Svinnerton, Hippolyte Taine, Torquato Tasso, Tintoretto, Mark Twain, Giuseppe Ungaretti, Susanne Valadon, Paul Valéry, Luchino Visconti, regina Vittoria, William Butler Yeats, Emile Zola.

Come si può constatare le menti eccelse amano i gatti, e io sono in buona compagnia...


Renoir




Balthus


Picasso




Aretusa

mercoledì 10 febbraio 2010

Le pantomime fatate di Slava Polunin


Oggi le cose più popolari sono crudeli, perché si è alla ricerca di emozioni forti. Non c' è spazio per la dolcezza e la clownerie è, in primo luogo, tenerezza. Io sono stato più testardo di altri, perché credo fermamente che la tenerezza sia necessaria". Così parla l'artista russo Slava Polunin, un mimo capace di creare atmosfere e suggestioni fiabesche. Ma quando e dove è iniziata la carriera teatrale di questo artista-clown?


Io lo sono diventato negli anni Sessanta, quando, a dodici anni, guardavo i film di Chaplin. Facevo spettacoli per parenti e amici. Ma mia madre non voleva, così mi sono iscritto a ingegneria e per cinque anni ho continuato a farli di nascosto, fino a quando mia madre, vedendomi tra luci e belle donne, ha pensato che fare il clown non era poi così male».
E il suo personaggio Asisyai come è nato? «Studiando. Passavo le mie giornate leggendo tutto quello che mi aiutasse a capire il segreto di eroi popolari come Don Chisciotte o il Piccolo Principe. Come un immenso puzzle, ho messo insieme i tratti del carattere di quei personaggi combinandoli ai miei con la pantomima, creando un clown sincero e testardo".

Chi non avesse ancora visto i suoi spettacoli, si informi del suo passaggio e segua il calendario teatrale della propria città. Ma non se lo perda. Si ritorna bambini con lo stupore indescrivibile di chi non sperava più  di venir catapultato in un mondo fatto di  poesia che questo artista sa spargere a piene mani, insieme  alle sue bolle di sapone iridescenti o ai suoi cristalli di neve, in una scenografia  fatata. 

Slava Polunin, considerato "il miglior clown del mondo", Il Times l'ha definito "un classico del teatro del XX secolo".



E i riconoscimenti internazionali sono sempre stati su questo livello, fino al Time Out Award. Trionfì ovunque, adorazione in salita perenne. Forse Slava Polunin non pensava di raggiungere tali vette, con la sua umiltà, il suo candore e la sua ingenuità. Non ha mai fatto le cose "così, tanto per fare". Non si è mai adagiato, niente allori su cui riposarsi. Tutto nella sua vita è ponderato e accuratamente soppesato, persino le imprese più pazze, più incredibili, più avventurose. E nel raggiungere i suoi scopi è concreto, tranquillo e imperturbabile.



Evidentemente è sempre stato così; da quando ha lasciato la sua nativa Novosil (una piccola città nella provincia di Orlovsk dove Slava imparò perfino a vivere nelle capanne sugli alberi, ad ascoltare il canto degli uccelli nella foresta russa, il gorgoglio dei ruscelli, o i suoi passi che scricchiolavano sulla neve) per vedere la  città più magica del mondo: San Pietroburgo, fin ad allora immaginata e sognata attraverso le lezioni di geografia della sua insegnante. Oppure quando ha lasciato l'Istituto di Ingegneria ed Economia di San Pietroburgo  (che allora si chiamava ancora Leningrado) noncurante dell'aspettativa di sua madre di avere un figlio ingegnere; o ancora quando, in maniera autonoma, ha iniziato a lavorare nella pantomima, quest' arte poetica e intrigante così ricca di  fascino e di segreti. "Slava's snowshow" è lo spettacolo della neve in  un perenne turbinio, in una continua evoluzione di idee, di innovazioni ed invenzioni, sulla base del celebre "expressive idiotism" (idiozia espressiva), la sua eccentrica pantomima ispirata a Marcel Marceau, a Grock e allo stesso Charlot -  pantomima che l'ha reso unico nel suo genere e popolare in tutto il mondo. La creazione di Asisyai, il suo personaggio clownesco più famoso, è  una figura commovente e ironica, vestito di una tuta gialla da lavoro, con un paio di pantofole rosse soffici, che ci riporta a semplici antiche maschere, ormai parte dell'immaginario popolare:  l'Arlecchino e Colombina, il lunare Pierrot o  il tragicomico Pulcinella.
Il teatro finalmente resuscita con artisti di questo calibro e lo spettatore è coinvolto in una vivida fantasmagoria di colori con un uso sapiente delle musiche, a cui prende direttamente parte in un giuoco rutilante. Prendetevene un assaggio su questo trailer. Ma non accontentatevi solo della mia descrizione: Slava Polunin e la sua Compagnia sono davvero imperdibili.

Hesperia

mercoledì 3 febbraio 2010

Mario Guido Dal Monte

Nasce a Imola nel 1906. Le particolarità di questo pittore sono numerose, il sottotitolo stesso della mostra a lui dedicata ne riassume alcune: dal Futurismo all'Informale, al Neoconcreto attraverso le avanguardie del Novecento.

(il motociclista)

Autodidatta, dalla vita artistica ricca e variegata, inizia la produzione nel 1926 dopo la visita alla XV Biennale di Venezia, in cui si accosta al Futurismo e inizia rapporti con Filippo Tommaso Marinetti e Giacomo Balla. In breve nasce a Imola il Gruppo Futurista Boccioni, Dal Monte espone alle mostre futuriste, e nel 1928 partecipa per la 1° volta alla Biennale di Venezia, presentando 2 opere oggi disperse: 'Veglionissimo' e 'Nevicata'. Fonda a Imola una Casa d'Arte Futurista, si dedica alla ceramica d'arte per la bottega Gatti di Faenza.
Le mostre tra il 1929 e il 1930 segnano già il suo passaggio dal Futurismo verso un lirismo magico stile Novecento, declinato in maniera personale. Nel 1931 espone nella Galleria Der Sturm a Berlino, entra in contatto con le avanguardie europee: Marc Chagall, Vasilij Kandinskij...
Per la V Triennale di Milano nel 1933 sono le pitture murali per la Casa Appenninica progettata in stile razionalista. La Casa d'Arte Futurista nel frattempo si trasforma in "Studio Magudarte" (esempio di casa d'arte a Imola, pensata come 'opera d'arte totale' il cui progetto doveva spaziare dall'oggettistica alla moda, alla pubblicità, dalla pittura murale all'arredo e all'architettura). Nel 1934, nel 1936 è di nuovo alla Biennale di Venezia.



(Vele Romagnole)

A metà anni degli anni 30 la sua ricerca si sposta verso astrattismo e scelte non-figurative vicino alla Galleria del Milione (MI), per la Cassa di Risparmio di Imola esegue 5 pannelli celebrativi dei valori del lavoro e del risparmio.
Dalla 2°metà degli anni 40 si avvicina al Surrealismo astratto. Dopo il 1945 futuristi ed ex-futuristi non hanno vita facile soprattutto in Emilia-Romagna, e la riscoperta del loro fitto lavoro pare una novità di questi nostri ultimi tempi, dopo un lunghissimo immotivato ostracismo.
Espone comunque ancora nel 1948 alla XXIV Biennale di Venezia, e a Roma. Nel 1949 la mostra alla galleria milanese A. Salto, sede delle attività del Movimento Arte Concreta, simboleggia l'adesione dell'artista alla poetica del gruppo.



(gasometro)

Nel 1950 è alla Biennale di Venezia, nel 1951 alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, e a Parigi. In questi anni realizza una tempera murale per la sua casa in stile razionalista, da lui progettata insieme agli arredi. Nel 1953 è a Roma e a Milano, in contatto anche con Giò Ponti.

A metà degli anni 50 Dal Monte si avvicina alla ricerca "informale", espone a Parigi nel 1957, a Firenze, Torino, Roma nel 1958, e nel 1959 allestisce una personale a Milano e a Roma. All'inizio del 1961 è ancora a Londra e a Venezia. Negli anni 60 si allontana dal linguaggio informale per ritornare alla ricerca, questa volta in stile "optical", proposto al III Premio Sassari nel 1972.



(ritratto futurista)

La sua attività ridiventa intensa negli anni 80: i dipinti di questa fase presentano un dinamismo "neofuturista" e sono esposti nell'antologica a Rimini (1986). Alla fine degli anni 80 la sua ricerca compie ancora un passo in avanti con opere "neoconcrete" di forte matericità.
Muore a Imola il 2 gennaio 1990. Una vita dedicata alla pittura lunga e fruttuosa, nel segno dell'arte e della modernità: del moderno ha molto, compreso spirito di ricerca continua e incessante sperimentazione di pressochè tutti gli stili e le avanguardie, insieme alla concezione dell'opera d'arte totale intesa come comprensiva di pittura, scultura, oggettistica, arredi, architettura. In questo senso Dal Monte, interpretando in maniera personale così numerosi stili e tendenze del suo e nostro tempo, assurge ad emblema della nostra epoca, caratterizzata da velocità, dal bisogno di rinnovarsi, da evoluzione continua, dall'impossibilità di fermarsi, forse uno dei vantaggi (ma anche delle maledizioni) dell'essere moderni: indipendenza e individualismo rispetto al mondo circostante, ma anche obbligo continuo di ridefinirsi in un contesto che cambia vorticosamente connotati e significati, e sfugge via.



(treno notte)

La mostra dedicata all'artista si tiene a Imola, Museo di San Domenico, dal 19 dicembre al 5 aprile 2010 (180 opere tra dipinti, sculture, ceramiche, bozzetti e ampia documentazione). In uscita anche un volume edito da Silvana Editoriale che sarà presentato da Enrico Crispolti il 27 febbraio 2010 alle 17.30 nell’auditorium di San Domenico.

per ulteriori info sulla mostra: qui

una riflessione d'interesse germogliata dinanzi a un suo quadro, alla scheda dell'Istituto per i beni artistici, culturali, naturali, cfr. sezione "notizie storico-critiche": qui

Josh