lunedì 27 dicembre 2010

Il panettone e la montagna disincantata



E' tempo di festività e di tradizioni. L'inverno ci porta a stare di più al calduccio delle nostre confortevoli case e a consumare i riti delle feste natalizie con gastronomie e leccornie d'ogni tipo insieme agli amici e ai nostri cari. Di leccornie e di speciali gastronomie ha parlato già Marshall nel posting precedente su Cremona correlata alla storia di  Bianca Maria Visconti.
 I cibi sono l'espressione della tradizione dei popoli e perfino dei riti religiosi. Nel caso della pasticceria, è il caso di dire che a volte imita la natura, molto più di quanto la natura non imiti la pasticceria. Come il tradizionale panettone, che, nato a Milano, si è poi diffuso in tutta Italia e nel mondo intero. A che cosa ci fa pensare innanzitutto il panettone? A una montagna, o a un altopiano. O forse anche allo stesso Duomo, in forma più ruspante e stilizzata. E dato che le cattedrali gotiche imitavano il verticalismo delle montagne coi loro picchi e le loro guglie, ecco allora che per la proprietà transitiva, se la cattedrale imita la montagna e il panettone imita la cattedrale, allora  il panettone è diretto figlio della montagna. Ne parlò il simpatico affabulatore Philippe Daverio in una trasmissione in onda su Rai 3 delle serie "Notturno con panettone" che fece per l'appunto un viaggio nei dipinti del paesaggio montano, abbinato al più famoso dolce natalizio, in un divertissement intitolato "Il panettone e la montagna disincantata".


Ricordo pure la sua variante veneta del pandoro con l'immancabile dolce spolverata di zucchero a velo, simile al coccuzzolo innevato di un monte. Panettone o Pandoro? Questo è il problema. Personalmente opto per il primo, perché più ricco a vedersi, con canditi e uvetta.

Più basso e non lievitato il pandolce genovese con aggiunta di pinoli oltre ai canditi, ma francamente pur essendo la sottoscritta, nata ligure, non sono mai riuscita ad apprezzarlo per la durezza dell'impasto. Non se ne abbiano a male i genovesi, ma lo trovo un po' gnucco. Poi ci sono pani coi canditi come il panforte senese, ma qui ci allontaniamo dalla leggenda montana per scendere nelle regioni costiere.



Sulle origini  del panettone si raccontano numerose leggende. Pare che nasca da un errore di levitazione.
La leggenda del panettone da me scelta, ci porta alla corte di Ludovico il Moro, Signore di Milano.
È un giorno di festa, stanno per giungere numerosi invitati e tutto e pronto per ricevere gli ospiti.
Nelle cucine c'è un grande andirivieni di cuochi, sguatteri, valletti...
Il pranzo. ha inizio.
Sulle tavole sontuosamente imbandite vengono servite le prime portate: carni arrostite, cacciagione, pollame, pasticci carichi di spezie... il tutto tra canti, risa, musiche, esibizioni di giocolieri.
Nelle cucine, intanto, il capocuoco sta vivendo un piccolo dramma: il dolce, preparato con infinita cura, e riuscito male e se ne sta afflosciato su un grosso vassoio d argento.
Nessuno sa come rimediare al «misfatto»! Solo uno sguattero, di nome Toni, non si perde d'animo: rimbocca le maniche e impasta in fretta e furia in un grosso recipiente un pane a base di farina, lievito, uova, burro, zucchero, frutta candita e spezie.
Quando già sta per infornare il pane, scopre un barattolo pieno di uvetta e aggiunge anche quella all'impasto.
Mentre nelle sale vengono serviti gli ultimi piatti, il pane nel forno lievita lievita, prende un bel colore dorato e diffonde intorno un delizioso profumo.
Viene l'ora di servire il dolce.
Lo sguattero, nascosto dietro un tendaggio, spia con ansia commensali.
Dietro di lui, ancora più preoccupato, sta il capocuoco: se il dolce non avrà successo le conseguenze saranno disastrose! Ma il successo è unanime: i commensali chiedono a gran voce al padrone di casa di conoscere l'autore di quello straordinario grosso pane che mai nessuno prima ha gustato.
Lo sguattero, intimidito e confuso, viene sospinto nella sala e accolto con battimani.
Qual è il tuo nome? - gli chiede Ludovico il Moro.
Mi chiamo Toni - risponde il garzone arrossendo.


Nella confusione generale si sente distintamente una voce:
Chiameremo questo dolce il «pan del Toni»!

E da qui, il Panettone, l'illustre dolce meneghino.
Questo è il link da cui ho tratto la leggenda: http://www.poesie.reportonline.it/racconti-di-natale/la-leggenda-del-panettone.html


  Mentre la storia e leggenda del Pandoro è intimamente legata alla storia di Verona, ai suoi nobili e alla  sua signoria scaligera; ma anche alla tradizione austro-ungarica. Già noto nel periodo degli Asburgo,  gli amanti e nostalgici del Regno Austroungarico di Franz Josef sostengono che l’origine del Pandoro non sia altro che la rivisitazione del Pane di Vienna”. Forse, fra le varie versioni della nascita del biondo Pandoro, la più attendibile è  proprio quella austroungarica. Infatti, nel 1800 i pasticceri più rinomati, soprattutto nel Regno Lombardo-Veneto, erano quelli austriaci.


Ma torniamo al Pan del Toni. Pazienza se una fetta di panettone contiene 360 calorie. Dopo le feste, ci metteremo tutti a dieta. Ma soprattutto, è inevitabile gustarlo accompagnato a  dell'ottimo moscato, o a dello spumante pregiato (dolce o secco) o champagne  di ottima annata, per un brindisi. A tutti gli amici, i visitatori e gli Esperidi che già sono in vacanza, auguro dunque un Felice Anno Nuovo!

Hesperia

lunedì 20 dicembre 2010

Bianca Maria Visconti

La mattina del 25 ottobre 1441, lungo la strada che conduce alla Chiesa di San Sigismondo, nella periferia di Cremona, l'intera popolazione si era accalcata lungo le strade per festeggiare il passaggio del corteo nuziale. Per questioni di sicurezza lo sposo, Francesco Sforza, aveva scelto quella chiesa di periferia, anziché il più prestigioso Duomo di Cremona. Doveva inanellare Bianca Maria Visconti, sua promessa sposa da ormai 12 anni.

Il divario d'età fra gli sposi, 40 anni lui, 17 lei, aveva messo in serio dubbio, tra i malevoli e gl'invidiosi, la tenuta di quell'unione. Invece, a loro dispetto, fu un'unione duratura e felice, confortata dalla presenza di otto figli.

Bianca Maria era l'unica figlia legittima di Filippo Maria Visconti, la sola, quindi, che avrebbe avuto il diritto di succedere al trono. Senonché, per via d'un testamento lasciato dal bisnonno, ma non più ritrovato, il regno sarebbe dovuto passare di padre in figlio, ma solo per via maschile. Francesco era figlio naturale di Jacopo degli Attendoli, uno dei più celebri capitani di ventura italiani, che si era meritato il soprannome di Sforza dal suo maestro d'armi, per la tenace resistenza. Il Visconti, non riuscendo ad avere figli maschi legittimi, e poiché il trono si sarebbe potuto tramandare solo per linea maschile, aveva pensato bene di adottare Francesco, facendogli poi sposare sua figlia. Gliela promise così in sposa quando lei aveva ancora solo cinque anni, mentre lui era già uomo maturo di ventotto anni. In attesa che la figlia crescendo fosse stata pronta per il matrimonio, pensò bene di relegare lei e la madre, sua moglie, nel castello di Abbiate (la futura Abbiategrasso); questo era considerato più sicuro, rispetto la rocca milanese, e pressoché inespugnabile dai soventi attacchi del popolo, provocati da una sua politica spesso vessatoria. Il Castello di Milano, conosciuto all'epoca come Rocca di Porta Giovia, era stato costruito dal nonno di Filippo Maria, Galeazzo II Visconti, negli anni 1358 - 1368; La ricostruzione operata da Francesco Sforza dopo il 1450, in seguito alla devastazione operata dal popolo nel 1447, subito dopo la morte di Filippo Maria Visconti, lo ha portata ad essere quello che è universalmente conosciuto col roboante nome di CASTELLO SFORZESCO. Per inciso, Galeazzo II è anche colui a cui si devono la costruzione di due opere simbolo di Pavia: il Castello Visconteo e l' Università degli Studi.

Ma poiché il Duca considerava il Castello di Abbiate non molto sicuro, e poco confortevole, decise di farlo rinforzare, facendo anche allestire delle stanze che fossero state degne di accogliere la sua figlioletta, in compagnia della sua consorte. Quando il tutto fu pronto, avvenne il fidanzamento per procura tra Bianca di sette anni e Francesco di trenta, e le due donne partirono per il castello di Abbiate. I fidanzati non si erano visti né conosciuti, e né si vedranno fino al giorno del matrimonio, che avverrà quando lei avrà compiuto 17 anni, l'età minima ritenuta conveniente per un matrimonio regale.

La figlia visse così i dieci anni di trepida attesa, racchiusa tra possenti mura, sognando il suo bel principe azzurro. Venne così il giorno fatidico del pronunciamento. L'umanista Marco Antonio Coccio, soprannominato Sabellico, che, quarant'anni dopo i fatti ebbe a narrare di quel rito nuziale, era perfino informato del discorso che Francesco fece alla fidanzata: "Confesso d'essere entrato in asprissima guerra per mostrare che tutto quello che facevo era per amor vostro; certo io deliberai con animo caldo di morire non potendo acquistarvi. Non cercavo d'offendervi ma di difender me, perchè il duca non mi facesse ingiuria: ora io gli dono la pace e benché mi vediate cinto d'armi pensate d'esser mandata a un quieto et amorevolissimo sposo". Parole di quel discorso e l'accenno alle armi di cui era cinto nel giorno del matrimonio, sono indicative del periodo burrascoso vissuto dallo sposo, e da tutti in generale, durante quel periodo prematrimoniale di dieci anni; un periodo burrascoso dovuto anche al carattere alquanto instabile del duca padre, che sfociava in un andirivieni continuo di promesse e rimangiamenti nel concedergli la figlia in sposa; e le armi di cui era cinto sono il segno evidente che anche quel giorno, pur essendo a casa della sua promessa sposa (Cremona era il suo piccolo regno, che aveva ricevuto in dono dal padre, quando era ancora in tenera età), temendo ritorsioni e agguati da parte di eventuali sicari inviati sul posto dal futuro suocero (la scelta all'ultimo momento di quella chiesa fuori mano, per l'epoca - collocata praticamente nel mezzo di una campagna - anziché il più prestigioso Duomo, situato questo nel mezzo di una serie di viottoli, che avrebbero agevolato la fuga dei possibili sicari, rientrò in quella strategia di autodifesa personale). Comunque sia, più che quelle parole di Francesco furono probabilmente la sua calda voce e il calore dell'intonazione a costituire per Bianca un messaggio inconfondibile: la storia che incominciava tra loro, sarebbe stata una storia d'amore.
Seguì la cerimonia, narrata con enfasi dai cronisti dell'epoca. La sposa, vestita di rosso, colore nuziale e anche colore zodiacale, per i nati sotto il segno dell'Ariete, come lei, era giunta a cavallo di un destriero bianco dalla gualdrappa dorata. Lo sposo, secondo lo storico Giovanni Simonetta, autore della Sforziade, testimonia che Francesco fece il tragitto che lo condusse alla chiesa, preceduto da duemila cavalieri in squadre molto ornate d'oro e d'argento, tutte formate da capitani, condottieri e capisquadra.

Dopo la cerimonia iniziarono i festeggiamenti, culminanti nel sontuoso banchetto nuziale. Invitati d'alto lignaggio, recanti ricchi doni, erano giunti da ogni parte della Penisola. Verso la fine del banchetto, per la prima volta nella storia, in onore della coppia regale era stato portato in tavola un dolce dal gusto squisitamente nuovo, che il popolo all'unisono si era arrovellato nell'ideare. Fu confezionato con la forma della celebre torre campanaria di Cremona, il Torrazzo: nasceva il Torrone.

Fin qui la storia; da qui si dipana il seguito frammistandola con un poco di fantasia personale.

E mi piace immaginare che in quel banchetto furono servite anche altre specialità, divenute poi un classico dell'arte culinaria cremonese: il Salame di Cremona e la Sbrisolona. Quasi sicuramente fu invece portata in tavola la già classica Mostarda di Cremona, conosciuta in quel momento da ormai quasi due secoli. L'avevano infatti messa a punto i monaci del XIII secolo, disseminati nei monasteri, allora numerosi nelle campagne lombarde. Cercando il modo per conservare più a lungo possibile la frutta estiva, ne avevano sapientemente messo a punto la ricetta originale. E così da quegli albori, ciliege, pesche, albicocche, pere, fichi, meloni, ecc., anche se il loro gusto viene coperto, quasi nascosto, dal forte e piccante sapore della senape, si potettero gustare anche per tutto il resto dell'anno.

Di certo, e qui per inciso, va ricordato che Bianca Maria Visconti Sforza è stata benevolmente ricordata molto a lungo nella memoria dei cremonesi.

Al termine del banchetto iniziarono balli, gare, sfide, tornei che si protrassero per giorni e giorni, e rimaste impresse nella memoria popolare. La gente, dopo anni e anni di battaglie, di cui erano state teatri quelle campagne, aveva voglia di dimenticare, divertendosi. I ricordi lasciati da quella festa ebbero un tale potere mnemonico che ancora generazioni dopo un cronista lodigiano ebbe a scrivere: "Fuori Cremona si ballava ... il conte Francesco l'aveva per mano e fu fatta allora quella canzone che dice "Quando per la mano fu presa sotto Cremona" e "Come la bala ben". Un viandante che avesse girovagato per quei paesi e per quelle campagne nei decenni, e forse secoli successivi, le avrebbe sicuramente sentite canticchiare dai lavoranti delle costruzioni e della terra. Per rievocare quei giorni di festa, da qualche anno, nella seconda metà di novembre, a Cremona si svolge la Festa del Torrone.Ed ora, nell'augurarvi un buon Natale, vi sottoporrei gentilmente ad un quiz. Si tratterebbe d'individuare l'autore e il luogo dove è conservato il quadro qui sotto. E' un'immagine natalizia, con Madonna e Gesù Bambino che ricevono la visita di qualcuno. Il quiz è stato sottoposto al gruppo degli universitari del tempo libero, nostri lettori. Si sono rivolti a me, sperando li possa aiutare. Qualcuno mi potrebbe suggerire le risposte? Bibliografia: La Signora di Milano, Daniela Pizzagalli, BUR Rizzoli, Gennaio 2009

Immagini:

Bianca e Francesco Sforza: tratta da Google immagini, proprietario il sito Flickr.com

Chiesa di San Sigismondo, Cremona, dal sito: Cremonaguide.net
N.B. al momento del matrimonio la chiesa era soltanto un cappella. La chiesa di San Sigismondo, così come la conosciamo oggi, fu costruita solo a partire dal 1462, su commissione di Bianca Maria Sforza Visconti.

Castello di Abbiategrasso (Mi): dal sito Mondi Medievali

Duomo e Torrazzo di Cremona: dal sito
Tripadvisor.it

Un bel barattolo di Mostarda Dondi da collezione. Non è pubblicità: regalatomi anni fa, è vuoto, e lo conservo gelosamente. Il fac simile della foto è tratta dal sito
Demar Alimentari.

Cremona, Festa del Torrone, dal sito
Marcopolo Tv

Ultima foto: fa parte del quiz, e non so nulla.

lunedì 13 dicembre 2010

Matilde Serao, scrittrice da riscoprire

Più che per le opere è per la biografia che il nome di Matilde Serao viene, talvolta, ancora ricordato. In effetti, il carattere intrepido ed esuberante della scrittrice napoletana, capace di conquistare e mantenere a lungo posizioni di grande responsabilità nella stampa e nella letteratura in tempi difficilissimi per le rappresentanti del genere femminile, sembra fatto apposta per suscitare ammirazione. Ma relegandola nel ruolo esclusivo di regina del paleo-femminismo si fa un grande torto a una donna che invece merita di essere ricordata soprattutto per ciò che ha scritto.
Matilde Serao si considerava in primo luogo una giornalista e i suoi romanzi traevano spesso ispirazione dall’acuta osservazione delle virtù ma soprattutto dei vizi del popolo napoletano su cui basava tanti suoi articoli. Il paese di cuccagna, uscito a puntate nel 1890 su “Il Mattino” di Napoli e immediatamente pubblicato dalla milanese Treves, che a quel tempo era la maggiore casa editrice italiana, fa tesoro della sua lunga inchiesta Il ventre di Napoli, apparsa nel 1884 sul “Capitan Fracassa”. Le gioiose atmosfere e gli affascinanti colori della città partenopea, così sapientemente descritti nel romanzo, non nascondono i mali gravissimi che più di un secolo fa affliggevano la città partenopea e che sono più o meno gli stessi di oggi. Tra questi mali emerge l’abitudine di disperdere le più belle energie in cose di poco conto e assolutamente improduttive, almeno per l’epoca. Rassegnati e fatalisti, pronti ad affidare le loro sorti al gioco del lotto piuttosto che a un qualsiasi progetto costruttivo, i napoletani riescono ad animarsi fino allo spasimo e si indebitano fino a rischiare la bancarotta solo quando si tratta di ben figurare nel carnevale, la festa più effimera e caotica dell’intero calendario. Matilde prima osserva e descrive attentamente il comportamento dei suoi conterranei: “Dai primi di gennaio Napoli era stata presa da una smania di lavoro che si diffondeva da una bottega all’altra, da una casa all’altra, di strada in strada, di quartiere in quartiere, dalla regione nobile a quella popolare, con un movimento continuo, ascendente e discendente. Dagli stabilimenti agli opifici usciva più forte il rumore delle seghe, delle pialle, dei martelli…” Poi non risparmia loro il più severo dei giudizi quando spiega il motivo di tanta inusuale alacrità: “La grande città si era data a quell’impetuosa e gioconda fatica, non per amore del lavoro in sé, per quel lavoro che è causa e conseguenza di benessere, che è, in sé, fondamento di bontà e decoro, la grande città non si era abbandonata a quella fervente attività per uno scopo immediatamente civile, miglioramento igienico o industriale, esposizione di arte o di commercio, trasformazione di vecchi quartieri o creazione di nuovi: era per il carnevale, soltanto pel carnevale, un carnevale decretato ufficialmente dal palazzo della Prefettura e da quello del municipio, un carnevale caldeggiato da comitati, commissioni, associazioni, messo su da mille persone, creato e realizzato come una grande istituzione e diffuso nello spirito di tutti i cinquecentomila abitanti…” Ma più avanti, e probabilmente suo malgrado, si fa prendere la mano e si fa coinvolgere dall’arrivo dei carri bizzarramente addobbati che scorrono come un fiume in piena nelle vie e nei corsi, sommersi dalla pioggia incessante dei fiori di carta, delle piccole bomboniere e dei mestoli di coriandoli che scendono dalle finestre dei piani alti senza soluzione di continuità, e si perde nell’ammirazione dei terrazzini situati più in basso che la fantasia del popolo ha trasformato in harem, in cucine, in improbabili casette giapponesi nel tentativo di dar vita a qualcosa di memorabile, possibilmente di unico per suscitare l’altrui meraviglia. Lo fa con tanto calore e tanti colori da farci rimpiangere di non poter più assistere alla rappresentazione di uno di quegli antichi carnevali napoletani che per fantasia e sfoggio del superfluo non dovevano aver proprio nulla da invidiare a quelli più famosi dei nostri giorni.
La Serao dimostra altrettanta efficacia nelle opere in cui porta in scena i personaggi del mondo, da lei ben conosciuto, delle redazioni, come quel Riccardo Joanna, protagonista del romanzo I capelli di Sansone. Questo azzimato giornalista è il prototipo della razza, fortunatamente estinta, degli intellettuali dandy che alla fine dell’Ottocento godevano del favore delle donne belle e frivole che popolavano i migliori salotti della capitale. Spontanea e poco incline alle smancerie, Matilde doveva trovare insopportabile questo genere di giovanotti effemminati, sempre pronti a sciogliersi in languori, e ce lo mostra impietosamente mentre gira a bordo d’una carrozza presa a nolo nella disperata quanto vana ricerca di qualche conoscente disposto a prestargli le mille lire che gli servono per evitare il protesto d’una cambiale, in scadenza per l’indomani. Le sue tasche sono drammaticamente vuote e non sa neppure come pagare il conto del vetturino che cresce di ora in ora. Ma l’ansia che l’attanaglia non è sufficiente ad impedirgli di compiacere il suo narcisismo smisurato; infatti, è sempre pronto a dimenticare per qualche istante i suoi guai per corteggiare le signore che incontra lungo il suo angoscioso pellegrinare. Di tutte queste belle donne, regolarmente sposate, egli si dice perdutamente innamorato.
Sempre aggiornata e partecipe della vita intellettuale, Matilde non disdegna di trarre ispirazione dalle mode letterarie del suo tempo. La protagonista de La virtù di Cecchina è una piccola borghese che assomiglia tanto alla Madame Bovary magistralmente raccontata da Flaubert. Ma la mancanza di originalità del soggetto non toglie nulla all’imprevedibilità con cui ella sviluppa la vicenda, fino al suo malinconico ma soprattutto ridicolo epilogo. C’è una certa sottile perfidia femminile nel ritrarre questa donna frustrata, pronta a tutto per soddisfare i suoi desideri, che poi torna indietro e rinuncia all’adulterio semplicemente perché spaventata dall’aspetto truce del portinaio installato all’ingresso del palazzo in cui risiede l’uomo che dovrebbe diventare il suo amante: “Ma sulla soglia, sbarrando la metà dell’entrata, appoggiato al muro, vi era il portinaio, un uomo alto e grosso, dalla faccia volgare e irsuta di peli bigi… Cecchina si fermò, senza osare attraversare la via. Per entrare nella porticina, bisognava domandare al portinaio di poter entrare, chiedergli se il marchese di Aragona era su… ella riunì tutte le sue forze per fare questo tentativo ma a mezza via si fermò di nuovo”. Ogni sforzo per vincere i suoi timori risulta vano e alla fine Cecchina, che pure aveva mentito a tutti e lottato contro ogni fattore avverso pur di concedersi l’agognata avventura, si arrende come una bambina spaventata davanti a quel viso brutto e irriverente, mentre la Serao non nasconde il proprio divertimento nel castigare la patetica borghesuccia.
Merita un cenno anche la scrittura, sanguigna, ricca di umori, popolare, ma non dimentica della lezione della miglior narrativa del passato e a lei contemporanea, di questa nostra scrittrice ingiustamente dimenticata.

Miriam

lunedì 6 dicembre 2010

Il mistero delle sorgenti del Nilo



La storia delle indagini e delle esplorazioni per scoprire quali fossero le sorgenti del Nilo riempie un capitolo vastissimo della vicenda del fiume africano, oltre che costituire una delle mystery-story più intriganti e affascinanti per più generazioni di uomini. La fisionomia ingarbugliatissima del territorio attraversato dal Nilo ha impedito per secoli di sciogliere l'enigma. Le sei cateratte a monte di Assuan ne impediscono la navigazione oltre questo limite e nei pressi della conca sudanese le acque si disperdono in un groviglio di acquitrini e paludi da cui è impossibile districarsi per ritrovare la via che consenta di risalire fino alle sorgenti. Peraltro, nel quinto secolo a. C. Erodoto aveva elaborato una sciagurata teoria sul Nilo che contribuì a creare una confusione destinata a durare per un tempo interminabile. Il famoso storico greco, infatti, aveva opinato che il Nilo coincidesse col Niger, l'altro grande fiume africano; secondo lui si trattava di uno stesso corso d'acqua che nasceva nell'Africa occidentale, attraversava la conca del Ciad e si dirigeva quindi verso l'Egitto. Una versione più vicina alla realtà venne invece avanzata nel secondo secolo d. C. da un altro greco, l'astronomo e geografo Tolomeo, il quale aveva consultato nella biblioteca di Alessandria le opere di Marino di Tiro (vissuto nel primo secolo), a loro volta ispirate dai racconti di Diogene, ardimentoso esploratore ante litteram della costa orientale dell'Africa. Basandosi sulle indicazioni ricavate da quelle letture, Tolomeo tracciò una carta in cui comparivano le imponenti montagne della Luna cinte di nevi, alle cui pendici settentrionali disegnò una regione lacustre da cui fioriva un primo fiume che andava a confluire, più o meno all'altezza della città nubiana Meroe, in un secondo emissario proveniente da un lago situato più a sud. Le scoperte degli esploratori europei confermeranno proprio questo schema, da sempre ritenuto sospetto a causa dell'ampio credito riservato a Erodoto in Europa. Gli antichi, quindi, avevano già individuato i principali elementi geografici dell'alto corso del Nilo, essenziali per spiegarne l'origine: montagne elevate, laghi e – componente cruciale – un grande affluente sulla riva destra. Ma quest'ultimo complicava ulteriormente le ricerche, in quanto vi erano due fiumi da scoprire: quello che sarà poi chiamato il Nilo Azzurro, che rampolla e scende dall'altopiano etiopico, e il Nilo Bianco, che si sviluppa nel cuore dell'Africa. Tra l'altro, Diogene aveva già intuito l'inutilità di risalire il Nilo: occorreva cercare le sorgenti partendo dalla costa dell'oceano Indiano, proprio come poi faranno gli esploratori europei.

L'aristocratico scozzese James Bruce, scopritore intorno al 1765 del lago Tana situato sull'altopiano etiopico, dal quale, attraverso le maestose cascate del Tissisat, nasceva un corso d'acqua diretto verso il Sudan, individuò per primo la sorgente del ramo orientale del fiume, ossia il Nilo Azzurro, mentre la sorgente del ramo occidentale, il Nilo Bianco, fu scoperta solo nel 1857, dopo un’infinità di altri tentativi falliti, a seguito della spedizione di due ufficiali inglesi, John Hanning Speke e Richard Burton. La spedizione, organizzata all'isola di Zanzibar, era stata promossa con ampi finanziamenti dalla Royal Geographical Society, ma si rivelò irta di difficoltà d'ogni genere, sfibrante per la lunghezza e asperità del percorso ed estremamente perniciosa per la salute dei due esploratori; tanto che sarà il solo Speke, dal momento che Burton, troppo malato, era stato costretto a fermarsi, a raggiungere la sorgente, quella sorta di grande mare interno rappresentato dal lago più vasto dell'Africa (68.000 chilometri quadrati) battezzato dallo stesso Speke Lago Vittoria in onore della regina inglese e che, con l'ausilio dei più piccoli laghi adiacenti e ad esso comunicanti, alimenta il corso d'acqua che giungerà fino alla costa mediterranea.

Questa, molto sinteticamente, la storia dei momenti più salienti delle avventurose esplorazioni che approdarono alla conoscenza delle sorgenti del Nilo. Ma il regime estremamente complesso dell'afflusso delle acque in Egitto è stato decifrato, in effetti, solo in epoca recente. Sulla regione dei grandi laghi equatoriali da cui prende le mosse il fiume immortale si abbattono, annualmente, le copiose piogge africane in primavera. Ma l'acqua proveniente dai laghi gonfiati da tali precipitazioni non arriverebbero che in misura inadeguata in Egitto, poiché l'evaporazione in atto nei bacini sudanesi del Nilo Bianco, molto intensa, ne assorbe una quantità ingentissima. Fortunatamente il fiume beneficia di un secondo e più importante apporto di acque, quello dovuto ai monsoni degli altipiani dell'Abissinia, che scaricano sul Nilo Azzurro piogge cospicue trascinanti con sé, oltretutto, il prezioso limo strappato alle terre vulcaniche dell'Alta Abissinia. Ciò che resta del flusso partito dai laghi tropicali tra maggio e giugno comincia a giungere in Egitto a luglio, ma immediatamente dopo segue quello, più ricco, proveniente dall'Abissinia, dove il massimo di precipitazioni si riscontra da giugno a ottobre. La piena del Nilo si verifica quindi in piena estate e ciò è di fondamentale importanza in un paese dal clima sahariano, dove la massima temperatura si manifesta in luglio e in agosto e dove il suolo, perciò, si ricopre di acque proprio all'epoca in cui il solleone minaccerebbe di essiccare e annientare ogni coltivazione; mentre d'inverno, allorché il sole è considerevolmente più mite, le acque regolari del fiume bastano ad alimentare le colture anche con i sistemi tradizionali di irrigazione, già usati al tempo dei faraoni, costituiti da canali scavati rudimentalmente e da piccoli sbarramenti di legno e fibre intrecciate.
Questo meccanismo così preciso poteva – com'è facile immaginare – incepparsi e provocare disastri con estrema facilità: bastava appena un ritardo delle piogge da una delle località di provenienza delle acque per determinare una piena inadeguata o irrilevante. Oggi che il complesso sistema di flussi e deflussi del Nilo ci è perfettamente noto, l'uomo ha cercato di porvi rimedio costruendo una diga imponente, quella di Assuan, capace di garantire una sorta di immagazzinaggio permanente dell'acqua volta ad attuare una piena artificiale a portata regolare, in grado di sovvenire ai bisogni agricoli di ogni stagione con l'utilizzazione metodica e mirata delle acque del fiume; una distribuzione razionale delle acque utilissima per garantire una cospicua produzione agricola per tutta la durata dell’anno. Peccato sia stata resa vana dall’abnorme aumento della popolazione egiziana verificatasi proprio dopo la costruzione della diga; una popolazione giunta oggi a ben ottanta milioni di individui, costretti a vivere, per giunta, tutti ammassati a ridosso del Nilo, il solo territorio coltivabile poiché, com’è noto, il resto dell’Egitto non è altro che un vasto deserto infecondo.

Le immagini, nell'ordine: stampa ottocentesca delle esplorazioni del Nilo; mappa del percorso del Nilo con i due rami che l'alimentano: a destra il Nilo azzurro, a sinistra il Nilo Bianco; le cascate del lago Tissisat; John Hanning Speke e Richard Burton; il Nilo in piena; pianta di papiro che cresce sulle rive del Nilo; veduta della zona desertica dell'Egitto, quella che si estende tutto intorno al percorso del Nilo.

Dionisio

lunedì 29 novembre 2010

Colonne Sonore e Film, Frammenti di Immaginario

Cos'è in fondo il cinema, oltre che...'storie', al di là delle teorie analitiche e della critica, per noi individualmente, se non frammenti di immaginario, di interiorità rappresentata che si confonde spesso con la percezione della nostra vita?
O meglio quanto c'è di noi in quei momenti privilegiati,
costituiti dalla somma di un'inquadratura, un gesto, un volto, parole e alcune note musicali culminanti?


Ci sono più elementi che concorrono alla riuscita, o meno, di un'opera cinematografica: letteratura/sceneggiatura, découpage, montaggio, fotografia, regia, recitazione...perchè un film è comunque un punto di intersezione tra più arti e linguaggi. O, secondo altri, può anche essere anche un 'tritatutto' di vari codici espressivi più alti.

Pur se di solito un po' in secondo piano per chi si occupa di linguaggio cinematografico, anche le colonne sonore hanno importanza basilare: ce ne sono alcune che sono solo funzionali al film (ne costituiscono cioè solo il 'fondo sonoro' come le chiamava talvolta Buñuel negli anni 60-70 quando non ne faceva quasi uso).
Eppure ce ne sono altre che a volte hanno un valore maggiore del film stesso, o hanno una tale personalità da fuoriuscire dal loro ambito, costituire un'opera d'arte indipendente e diventare classici, altre volte ancora s'integrano perfettamente con i contenuti del film attraverso la resa puntuale di un clima emotivo, psicologico.
Altre non sono state composte appositamente per il film, ma provengono dalla storia della musica, e sono materiale di pregio preesistente scelto per alcune scene, di solito per intensificare e impreziosire una sequenza.
In questo ultimo caso si ricorda l'uso enorme, da parte di Visconti,



(nella foto, Romy Schneider in 'Ludwig', 1973)

di Wagner, Strauss, Mahler e altri grandi pezzi di classica, che non esemplificheremo ora, perchè servirebbe un'enciclopedia solo all'uopo. Molti di questi classici servono ad ambientare meglio la vicenda dei singoli in un'epoca e a contestualizzare, altre volte vengono però usati anche 'in modo improprio', almeno all'orecchio di un cultore musicale, perchè rifunzionalizzati a voler significare altro da ciò che il musicista dei secoli passati voleva dirci, anche se almeno nel caso di Visconti c'è una maniacale cura nella ricostruzione storica.

Oppure si incontra l'uso strategico, come contrappunto tra le sequenze, di Schubert in 'Barry Lyndon' (1975) di Stanley Kubrick.

O ricordiamo il caso peculiare di un film come 'Anonimo Veneziano' (1970) di Enrico Maria Salerno, che oltre al famosissimo tema di Stelvio Cipriani, rinfrescò la memoria classica con l'uso del Concerto per oboe e archi di Alessandro Marcello, che gode da allora di una seconda (o meglio, ennesima) giovinezza.

Gli esempi sono tra i più disparati. Qui si tenta di ricordare alcuni momenti privilegiati di colonne sonore, di valore già di per sè, magari non solo secondo il banale schema 'canzone e film', ma il meno possibile scontati all'interno della questione espressiva 'cinema e musica'.

Un caso particolare è il film 'Diva' di Jean Jacques Beineix (1981), che tra l'altro riflette sul tema del divismo in epoca contemporanea, in relazione alla musica lirica, ma anche al copyright, all'unicità della performance d'arte, alla riproducibilità (reale o meno) dell'evento musicale 'vivo e vero' nelle registrazioni: la colonna sonora ha bei brani di Vladimir Kosma, ma anche un'interpretazione 'iconica' dell'aria 'Ebben...n'andrò lontano' tratto dalla 'Wally' di Alfredo Catalani, cantato da Wilhelmenia Wiggins Fernandez nello stesso girato del film.

Un ulteriore rapporto privilegiato musica/film è "Tè nel Deserto" di Bernardo Bertolucci (1990): al di là del giudizio sull'opera, la colonna sonora di Ryuichi Sakamoto ha animato letteralmente molte sequenze, dato vita a momenti a volte quasi panoramico-documentaristici, aggiungendo un'idea di destino incombente, comunque presente nel film, con quel modo di comporre attento alle atmosfere, alle minime variazioni degli stati d'animo, fino a rendere la musica metafora e co-significante al film, a suggerirci che il 'deserto' di cui si trattava era prima di tutto un deserto interiore, un senso di perdita di sè che diventava 'Sheltering Sky'.
Sakamoto è un notevole compositore, che da anni si è imposto sia per colonne sonore straordinarie, sia nelle collaborazioni con David Sylvian, o nel jazz colto, e nella musica pop (ma di qualità), oltre ad essere un pianista (di tutti i generi) fuori dal comune.

Sempre da Bertolucci, invece per il film "Io ballo da sola" (96) è stata scelta una colonna sonora mista di brani pop-rock contemporanei, non tutti all'altezza a mio avviso, tra cui il ripescaggio degli ottimi, ma adoperati ormai ovunque, film e spot, Portishead.
Da segnalare invece lo straordinario brano "Alice" dei Cocteau Twins, che si dipana in diversi piani sonori grazie alla voce angelica di Elizabeth Fraser, icona della new wave inglese, inventrice del dream pop etereo fin dai primi anni 80.
Un'altra piccola perla audio è 'Take me with you' di Elizabeth Fraser per il film/fiaba esistenziale 'The Winter Guest/l'Ospite d'Inverno' (97, reg. A. Rickman), con musica di Michael Kamen, che fa rivivere quella Scozia letteraria e poetica, intimista e morale, così diversa dall'attualità urlata o dal cinema 'da rotocalco'.
Elizabeth è stata un'innovatrice, ma in fondo anche nello sperimentare è rimasta piuttosto vicina alla mistica particolare della sua terra. Chissà non sia anche questa la via maestra contro il deperimento delle arti:
distillare emozioni reincontrando il proprio animo e non negando le proprie origini, lontano da un mercato che appiattisce e omologa tutto, e che vorrebbe farci aderire a modelli spersonalizzanti, preconfezionati e mercificati, pre-decisi da altri.

Ancora Sakamoto è autore della notevole colonna sonora del discusso film 'Merry Christmas Mr. Lawrence/Furyo'(di Nagisa Oshima, 83) con il notissimo brano Forbidden Colours, anche in versione vocale, cantata da David Sylvian.




(fotogramma da "Il Ventre dell'Architetto", 87, Peter Greenaway)

Per tornare a 'classici contemporanei' vanno ricordate le scelte musicali particolarmente mirate per molti film di Peter Greenaway, da sempre interessato ai legami tra cinema e lettere, arte, architettura, pittura, geometria, moda, campi che ha indagato via via nei vari film.

'Il ventre dell'architetto' per esempio sviluppa la trama unitamente ad un percorso visivo nell'architettura, romana specialmente, avendo come contrappunto le musiche coinvolgenti di Wim Mertens e Glenn Branca.

Michael Nyman (a parte la ricca carriera di compositore in proprio) oltre a lavorare in molti successivi film di Greenaway, per 'Drowning by Numbers' (88) in particolare scrive Trysting Fields che è una sorta di riflessione e ampliamento su temi mozartiani, e al contempo un pezzo suggestivo. Grande maestria che si ritrova anche in 'The Piano' per 'Lezioni di Piano'(93) di Jane Campion.

Da ricordare anche Wojciech Kilar per la sua fitta attività di compositore contemporaneo, grandi partiture per orchestre d'archi, e nel cinema per la sua colonna sonora al 'Dracula' di Coppola (92) in cui spicca 'Love remembered', ma molto di più per la colonna sonora drammatica per 'The 9th Gate/la Nona Porta' di Polanski (99), e l'intenso motivo Vocalese con il soprano Sumi Jo.

Sarebbe il momento di parlare del nostro Morricone, richiederebbe a sua volta un'enciclopedia a parte, ne sono già state scritte; tento di dire allora qualcos'altro: il suo influsso è stato molto forte, nei generi più disparati. Il suo modo di fare musica, dai lenti più sognanti alle tipiche chitarre cadenzate degli spaghetti-western (si pensi anche solo ai suoi lavori per Sergio Leone) sono fuoriusciti dall'ambito cinematografico, e ampiamente ripresi in vari generi musicali.
Nel Neofolk, Folk Apocalittico-Marziale e nel Military Pop dei gruppi degli ultimi 20-30 anni, valga su tutti l'evidenza dell'influsso morriconiano su alcuni brani dei Death in June, seppur frammisto a suoni più rituali e Old Europa di un'epica personale propria: "The Honour of Silence"




(scena da 'Fantasma d'Amore' di Dino Risi, 1981)

Non si parla mai molto invece del talento compositivo di Riz Ortolani, un'altra vita spesa per la musica al cinema. Innumerevoli sono le sue colonne sonore, alcune famosissime, altre ingiustamente sottovalutate: in questa sede ricordo il suo raffinato lavoro per 'Fantasma d'amore' (1981) di Dino Risi, film che appartiene alla fase drammatica-introspettiva del regista, e uno degli ultimi film della Schneider: attrice fuori dal comune ricordata però nel mondo più per la leziosa serie di Sissi, che non per i film, d'Autore e non, piuttosto intensi che girò da adulta.
Una parte della Soundtrack sono composizioni di Ortolani, virate a un jazz fumoso, coniate sulle atmosfere del film girato a Pavia, e illuminate da Benny Goodman, guest star dell'operazione.
Ma i brani più suggestivi e lussureggianti sono di Ortolani e la sua orchestra, giocati sull'ossessione dei sentimenti, del tempo e delle persone perdute nella nebbia della memoria, tra fantasmi e follia.

In ambito musica/cinema affrontiamo il jazz stavolta solo di sfuggita, evitando il musical e Broadway, il rapporto classico tra Jazz e Noir, ma almeno alcune colonne sonore sono memorabili e rimaste nella storia:

'Ascensore per il patibolo' è un film noir di Louis Malle (57), con Jeanne Moreau.
Miles Davis creò la colonna sonora guardando il film, e improvvisandoci sopra in maniera stravolgente.



(Jeanne Moreau, fotogramma da 'Ascensore per il patibolo', di Louis Malle, 1957)

'Let's get lost' è un film di Bruce Weber (88) sulla vita del trombettista jazz Chet Baker, la colonna sonora è costituita da vari brani di Chet, che diventano la narrazione stessa della sua vita in un b/n sgranato.

Da 'One from the heart' di Francis Ford Coppola (82), da notare la collaborazione tra Tom Waits & Crystal Gayle (con Jack Sheldon e Chuck Findley alla tromba).

'Taxi Driver' il famoso film del 76 di Martin Scorsese ha una colonna sonora del genio del secolo in questo ambito, Bernard Herrmann (già storico compositore Hitchcockiano, si pensi solo al ruolo della musica ispirata ma così precisa nel contrappunto ritmo/montaggio in Psycho, Vertigo)qui impreziosita dal sax fluido di Tom Scott.

In jazz e dintorni ancora non posso non citare the Divine Sassy, ovvero l'enorme Sarah Vaughan, con una sua perla, in collaborazione con Quincy Jones, per il film 'Fiore di Cactus' (1969, Gene Saks);
o non ricordare l'esplosiva Shirley Bassey, l'icona degli 007 dalle enormi possibilità vocali, tuttora in attività.




(fotogramma da 'Il cielo sopra Berlino' di Wim Wenders, 87)

Cambiando genere, va segnalata l'originalità anche di una sorta di Road Movie Music unita al forte senso di fatalità del noir USA riletto però in Nord Europa nell''Amico americano' (77) di Wim Wenders, tratto da Patricia Highsmith, che mostra tra l'altro una Amburgo e Monaco di Baviera raggelate, mai inquadrate in quella maniera. La colonna sonora particolare e carica di tensione è dell'ottimo Jürgen Knieper, presente ancora per decenni in collaborazioni con Wenders, che qui gioca con gli archi e una melodia quasi intimistica per chitarra, rotta da improvvisi pieni orchestrali.

In seguito Wenders si appoggerà anche a colonne sonore composte di brani svariati di gruppi rock-d'avanguardia contemporanei, molto riuscito il brano per 'Until the end of the world' (91) dei Crime + City Solution 'The Adversary'; da notare anche la presenza di David Darling, violoncellista di classe, (e certo, dei famosi U2 su cui invece glissiamo volentieri).
Ancora va ricordata la cura nelle musiche per l'epocale e poetico 'Il cielo sopra Berlino' (87) che contiene anche uno dei pezzi migliori di Nick Cave.



(fotogramma da 'Il cielo sopra Berlino' di Wim Wenders, 87)

Sempre nell'ambito cinema e rock di spessore, per l'inquietante 'Lost Highway'(97) David Lynch usa un bel brano di David Bowie 'I'm deranged',
e Nine Inch Nails 'the perfect drug', volutamente allucinati, oltre alle parti in collaborazione ormai storica con Angelo Badalamenti (già in Twin Peaks).

Per 'Batman returns' (92) Siouxsie scrive una conturbante 'Face to face' con Danny Elfman, giocato sul tema del doppio.
Nella colonna sonora di 'The Crow'(94) c'è uno degli ultimi brani benriusciti dei Cure 'Burn'.

'Miriam si sveglia a mezzanotte/the Hunger' di Tony Scott (83) è stato un film simbolo estetizzante per una generazione: non molto considerato dal punto di vista di contenuti e regia, pare ai più una sorta di videoclip con un montaggio molto moderno per l'epoca, un delirio formale di erotismo patinato, vampirismo contemporaneo in senso lato in relazione con la sessualità.
Forse meno leggero di quel che si dica, in realtà la colonna sonora è curata, composta da brani classici (Lakmè di Léo Delibes) e rock-darkwave, entra nello stesso narrato:
il film si apre con Peter Murphy dei Bauhaus, in un locale notturno, che interpreta 'Bela Lugosi's dead'(ripresa ampiamente anche in spot pubblicitari, come le scelte tecniche-stilistiche per il montaggio del suono sulle immagini).



(Catherine Deneuve in 'Miriam si sveglia a Mezzanotte'/'the Hunger' di Tony Scott, 1983)

In questo modo, tentando di riconciliare il passato col presente, cosa che non sembra riuscire molto bene, nei rispettivi film, ai personaggi di Miriam, nè a Nino nel 'Fantasma',
concludiamo, anche se molto altro ci sarebbe da dire, e forse proseguirà in post futuri. Nei film citati, per un motivo o un altro, la musica ha un ruolo notevole, oltre la funzione di vaga sottolineatura della visione.
L'ideale sarebbe avere questi dischi sottomano, e aver presenti tutti i film,
ma tutto può essere lo stesso divertente facendo il percorso insieme, e cliccando sui vari links.

Josh

lunedì 22 novembre 2010

Lelio Luttazzi, la classe non è acqua



Qui sul Giardino, manca un po' di musica. E colgo questa occasione per porvi rimedio. La musica non è come la scrittura o come la pittura, non lascia tracce (a parte gli spartiti) e vola, ma ci rende il cuore lieto.
Non ho scritto un post alla morte di Lelio Luttazzi che è avvenuta sommessamente l'8 luglio scorso, perché non amo i coccodrilli, ma in questo paese distratto e irresponsabile, mi pare che un tributo, ancorché tardivo a un vero Signore d'alta classe del jazz-swing italiano , della buona musica leggera, gli vada garantito.

C'era una volta la tivù elegante. Quella che al sabato sera vestiva in smoking i presentatori e in abito lungo le cantanti. Lelio Luttazzi fu anche presentatore discreto. Presentatore e non "conduttore" come è in voga oggi, dove si pippobaudeggia istrionicamente cercando di oscurare gli ospiti. Lelio no, lui si limitava a introdurre con un sintetico: "Signori.....Minaaaa!".
Luttazzi ha una vena stramba, folle e surreale. Le sue canzoni parlano di zebre che invece delle strisce, hanno i pallini (pois), di giovanotti matti. Di colpi di luna invece di colpi di sole che ti fanno mettere in testa la borsa del ghiaccio quando ti innamori , di giovanotti che a squarciagola cantano anche se sono stonati, di cani triestini che si ubriacano davanti a "un fiasco de vin". Insomma, anche l'amore che è il soggetto principale di tutte le canzonette è cantato con stravagante scanzonata ironia.

Nato a Trieste e morto a Trieste, città dove al largo del suo mare, ha voluto che dopo morto,  venissero disperse le sue ceneri, dalla sua barca chiamata Oblomov, in una ristretta cerimonia per pochi intimi.
E a proposito di Oblomov il personaggio principale di Ivan Alexandrovic Goncorov, Lelio ha una sua personalissima teoria. Oblomovismo è infatti quell'atteggiamento passivamente blasé di chi ritiene non valga la pena di lottare contro l'umana idiozia. Leggere questo significativo passaggio per saperne di più.
Durante la sua lunga e prestigiosa carriera Lelio Luttazzi è stato musicista, cantante, compositore, direttore d'orchestra, attore e presentatore tv.
Nato a Trieste il 27 aprile 1923 è figlio di Sidonia Semani (maestra elementare a Prosecco, paesino nelle vicinanze di Trieste) e di Mario Luttazzi. E' grazie al parroco di Prosecco che il giovane Lelio si avvicina alla musica e allo studio del pianoforte. Studia presso il Liceo Petrarca di Trieste, dove instaura una profonda amicizia con il compagno di classe Sergio Fonda Savio, nipote di Italo Svevo.

Prosegue gli studi iscrivendosi alla facoltà di Giurisprudenza presso l'Università di Trieste; durante questi anni - in cui scoppia la Seconda Guerra Mondiale - Lelio Luttazzi inizia a suonare il pianoforte a Radio Trieste; compone inoltre le sue prime canzoni.
Il 1943 è caratterizzato da un incontro che cambia la sua vita: assieme ad altri compagni di ateneo, Lelio si esibisce al teatro Politeama in uno spettacolo musicale; i ragazzi aprono il concerto di Ernesto Bonino, cantante torinese molto in voga all'epoca. Quest'ultimo rimane tanto colpito da Luttazzi che al termine dell'esibizione gli chiede di comporre una canzone per lui. Lelio accetta la sfida: dopo poco tempo invia il suo pezzo e Bonino nel 1944 lo incide su vinile. La canzone è la celeberrima "Il giovanotto matto", che diventa un grande successo.
 
Finita la guerra, la SIAE riconosce a Luttazzi un guadagno di 350.000 lire, che allora era davvero da considerarsi una somma notevole. Lelio non ha più dubbi, vuole intraprendere la carriera di musicista, così decide di abbandonare l'università. Nel 1948 si trasferisce a Milano e inizia a lavorare come direttore musicale, presso la casa discografica CGD. Per Teddy Reno nel 1948 scrive "Muleta mia", in triestino "ragazzina mia".
Due anni più tardi (1950) diventa direttore d'orchestra a Torino per la RAI. Lelio Luttazzi dà il via a una strepitosa carriera che lo vedrà imporsi come artista a tutto tondo. Tra il 1954 e il 1956 lavora nel programma radiofonico a quiz "Il motivo in maschera", presentato da Mike Bongiorno. Intanto scrive canzoni dal carattere apertamente jazz, piene di swing, interpretandole al pianoforte e cantandole in uno stile molto personale: tra le più note ricordiamo "Senza cerini", "Legata ad uno scoglio", "Timido twist", "Chiedimi tutto", "Sono pigro". Compone brani sempreverdi quali "Una zebra a pois" (cantata da Mina), "Vecchia America" (per il Quartetto Cetra), "Eccezionalmente, sì" e "Mi piace" (per Jula De Palma), "You'll say to-morrow" (registrato in italiano da Sophia Loren). "Souvenir d'Italie", il citato "Bum Ahi! Che colpo di luna" (ancora per Mina).  "El can de Trieste", da Lelio cantata in dialetto triestino, la simpaticissima "Canto anche se sono stonato" rifatta anche da Christian De Sica.
Come conduttore televisivo presenta trasmissioni quali "Studio 1" (con Mina), "Doppia coppia" (con Sylvie Vartan), "Teatro 10". Lelio Luttazzi è anche attore: recita ne "L'avventura" di Michelangelo Antonioni. Cosa c'entrava con i temi dell'incomunicabiltà Luttazzi? Eppure la sua presenza era pur sempre pertinente e coerente con l'atmosfera del film. Poi "L'ombrellone" di Dino Risi. Compone inoltre la colonna sonora di diversi film tra cui "Totò, Peppino e la malafemmina", "Totò lascia o raddoppia?" e "Venezia, la luna e tu".
La trasmissione che più d'ogni altra gli procura grande fama è la radiofonica "Hit Parade", una vetrina settimanale dei dischi più venduti, andata in onda ininterrottamente per 10 anni dal 1966 al 1976.

Proprio mentre si trova all'apice del suo successo, nel giugno del 1970 la vita di Lelio Luttazzi viene scossa da un fulmine: con l'accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti l'artista viene arrestato, assieme all'attore Walter Chiari. Dopo 27 giorni di carcere è libero di uscire, completamente scagionato e prosciolto da ogni accusa. Durante gli anni successivi a questo fatto, che profondamente lo segna,  rimane amareggiato dalla lapidazione mediatica cui viene sottoposto e si inabissa nel male oscuro della depressione. Ne risente anche l'amicizia con Walter Chiari e la sua vita di relazione.  Lavora saltuariamente tra radio e tv, preferendo alla fine ritirarsi a vita privata, consapevole della caducità  ingannevole di una vita troppo esposta ai riflettori. E allora l'elegante personaggio di Oblomov gli verrà in soccorso per farsene uno schermo.
Dopo il 2000 torna a essere ospitato da varie trasmissioni sia radiofoniche (W Radio2 di Fiorello) che televisive. Torna sul piccolo schermo come interprete nel febbraio 2009, quando durante il Festival di Sanremo 2009 (condotto da Paolo Bonolis), Lelio Luttazzi - in qualità di ospite illustre - accompagna la giovane Arisa (nella foto a sinistra), la quale vincerà il Festival con il brano "Sincerità" nella categoria delle "Nuove proposte". Fu in quell'occasione che a Lelio venne conferito il Premio speciale alla carriera. Sono le ultime scintille di una carriera prodigiosa di questo signore di gran classe.
Nel maggio del 2008 Lelio Luttazzi, dopo oltre 57 anni trascorsi tra Milano, Torino ma soprattutto a Roma, dove ha abitato dal 1953, decide di trasferirsi definitivamente insieme alla moglie nella sua città natale, a Trieste. Ed è proprio in quella sua amata Trieste  che il maestro morirà  all'età di 87 anni a causa di una neuropatia. La barca Oblomov ora non solca più l'Adriatico.

Riascoltiamolo in questi strepitosi File musicali:
http://www.youtube.com/watch?v=lwgN5cJxw8A&feature=related (Luttazzi e Lionel Hampton in jam session).

Hesperia

lunedì 15 novembre 2010

Veronica Gàmbara, la poetica del tutto


Nota introduttiva

Data la complessità dell'argomento, per questione di brevità ho dovuto operare parecchi tagli; l'alternativa sarebbe invece stata quella di pubblicare il post in almeno tre volte. Ho così appena accennato ad argomenti basilari per la comprensione della trattazione; ad esempio, come alle amicizie con Pietro Bembo, Vittoria Colonna, Bernardo Tasso, Isabella d'Este; o gl'incontri folgoranti con lo statuario Francesco I, e il carismatico Carlo V, o la corrispondenza intrattenuta con i vari pontefici dell'epoca. Dell'incontro con Ludovico Ariosto ne ho accennato in questo post. Trascuro addirittura degli scambi punzecchianti avuti con Pietro Aretino; punzecchiato e domato a sua volta dalla Gàmbara. Del ciclo conclusivo della Poetessa, quello della religione, e dell'abbandonarsi alla fede cattolica, pubblico soltanto una poesia in conclusione di post: data l'abbondanza e complessità di avvenimenti storici di quel periodo, è mia intenzione tornare sull'argomento.
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In un tempo in cui il poetare era prerogativa solo maschile, e riservata ai nobili, la contessa di Correggio e la marchesa di Pescara, in quanto donne, furono due notevoli eccezioni. Quasi coetanee, Veronica Gàmbara era nata nel 1485, Vittoria Colonna nel 1490, ebbero del matrimonio esperienze totalmente diverse, i cui sentimenti riversarono fulgidamente in poesia: per la contessa un'esperienza esaltante e felice, per la marchesa travagliata e tormentosa.

La Gàmbara, cresciuta in un ambiente stimolante per un letterato, cominciò a comporre versi fin da bambina, arte che poi, crescendo, le tornò anche utile.

In età matura, facendo leva sui versi e su lettere dall'impostazione poetica, ha cercato, per mezzo di essa, di dirimere anche dissidi esterni al regno, che si trovò a dover governare. Anche se lei non scrisse mai con l'intenzione di vedersi poi pubblicare le proprie lettere private, gli altri, secondo una prassi comune del tempo, corrispondevano in maniera pomposa e ricercata, col preciso scopo che poi la loro corrispondenza privata sarebbe diventata oggetto di stampa. Appena ebbe le redini di Correggio, nel mentre sulle acque del Lario, a Musso, in Brianza e in tutto il Milanese si svolgevano le vicende anche sanguinarie legate al Medeghino, qui raccontate, e la Romagna era appena stata scossa dalle imperiose gesta del Valentino, nel piccolo regno di Correggio, posto nel mezzo dei due, la contessa Gàmbara governava la piccola contea in maniera totalmente diversa che non a quei due, con blando uso di armi, o forza. Infatti, durante i 32 anni di suo governo, nella contea fu registrata una sola condanna capitale, e si ricorda di un ricorso alla forza ed alle armi nel 1526 quando, per difendersi dall'aggressione di ottocento fanti, comandati da Fabrizio Maramaldo, fu necessario mobilitare tutti i cittadini, invitandoli ad imbracciare le armi. Gli ottocento fanti furono poi cacciati, ma lasciarono comunque dietro di se morte, fame, desolazione e pestilenza.

Veronica Gàmbara era di indole pigra, le piaceva la buona tavola, ed era pingue di corporatura; sarà stato anche per questo che aveva avuto una certa difficoltà a maritarsi, tanto che dovette intervenire sua madre, che chiese aiuto in tal senso alla propria famiglia d'origine, i Pio di Carpi. E sarà stato forse anche per la sua pinguedine che di lei non c'è alcun ritratto, nonostante Antonio Allegri, detto il Correggio, fosse il pittore ufficiale di casa Gàmbara. Aveva ventiquattro anni, e fu un gran sollievo per i suoi, quando si celebrarono le nozze, dapprima per procura, col quasi cinquantenne Giberto X da Correggio. Questi era anche il
vedovo di Violante dei Pico della Mirandola, dalla quale aveva avuto due figlie e, come detto, era anche imparentato con la sposa per parte della madre di lei, Alda dei Pio di Carpi. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, per via della forte differenza d'età, per Veronica fu la svolta della vita, e la felicità, anche se di breve durata; rimase infatti vedova dopo nemmeno dieci anni di matrimonio. Ciò non di meno il loro fu un matrimonio stabile e reso felice dalla nascita di due figli, che sarebbero potuti diventare di più, se un intervento chirurgico, resosi necessario per salvarle la vita, la privò del piacere di diventare madre ancora. Al contrario dell'amica Vittoria Colonna, infelice per quel marito giovane e forte, ma sempre in giro per il mondo in cerca di battaglie e di femmine, il marito di Veronica, ormai non più giovane nè forte, aveva deposto le armi ed aveva dedicato alla moglie ed alla prole il resto dei suoi anni. Il matrimonio per procura, senza che i due non si erano forse mai visti prima, era avvenuto il 6 ottobre 1518, una ricorrenza che la poetessa ricorderà sempre, anche e soprattutto nei 32 anni di vedovanza. Veronica era rimasta abbagliata dal di lui aspetto al primo vederlo, tanto che in seguito scrisse "di bellezza adone / cede al suo paragone". Dello stesso tenore di questi versi è il seguente struggente brano, che, presumibilmente, compose nel periodo dell'avvenuto matrimonio per procura, quando forse non si erano ancora visti.

Poscia che 'l mio destin fermo e fatale
Vuol pur ch'io v'ami e che per voi sospiri,
Quella pietà nel petto Amor v'ispiri
Che conviene al mio duol grave e mortale

E faccia che 'l voler vostro sia eguale
A gli amorosi ardenti miei desiri;
Poi cresca quanto vuol doglia e martìri
Che più d'ogn'altro ben dolce sia 'l male.

E se tal grazia impetro, almo mio sole,
Nessun più lieto e glorioso stato
Diede amor o Fortuna al mondo mai.

E quanti per addietro affanni e guai
Patito ha il cor, ond'ei si dolse e duole,
Chiamerà dolci, e lui sempre beato.

Nella primavera del 1509, gli sposi sono a Napoli, dove, nella Cattedrale di Amalfi, celebreranno il rito nuziale religioso. In occasione di quel viaggio Veronica ebbe modo di rivedere l'amico Bernardo Tasso, futuro padre del celebre Torquato, conosciuto quand'egli era a Ferrara, al servizio degli Estensi. Con lui, da giovani, c'era stato un fitto scambio di missive in gergo e in versi poetici. Per ragioni di lavoro, come diremmo oggi, Bernardo s'era trasferito a Salerno.
Come il Tasso, anche Pietro Bembo che era, e che sarà ancora, dopo la vedovanza, il mentore prediletto di Veronica, negli anni del felice matrimonio verrà messo un pò in disparte.

In quel periodo storico era di moda motteggiare ad imitazione del Petrarca, ma farlo non era da tutti, e soprattutto era prerogativa esclusivamente maschile: alle donne era riservato l'accudimento familiare. Veronica Gàmbara e Vittoria Colonna ruppero però quel tabù.
Nel 1509 Veronica aveva lasciato il paese natale nel bresciano alla volta dell'Emilia. Si era sposata per procura nell'ottobre precedente con il conte Giberto X, signore del piccolo regno di Correggio .

Di quel periodo sono state ritrovate solo poesie dedicate al marito, e di questo genere: "le parole / Dolci ad udir del suo bel foco ardente".
Pare anche che nel frattempo si fosse dimenticata perfino degli amici più cari, del Bembo, in particolare. Il 26 agosto 1518 conte Giberto moriva e Veronica, facile supporre al culmine della disperazione, scriverà:
Quel nodo in cui la mia beata sorte,
Per ordine del ciel, legommi e strinse,
Con grave mio dolor sciolse e discinse
Quella crudel che 'l mondo chiama morte.

E fu l'affanno sì gravoso e forte,
Che tutti i miei piaceri a un tratto estinse;
E se non che ragione alfin pur vinse,
Fatto avrei mie giornate e brevi e corte.

Ma tema sol di non andare in parte
Troppo lontana a quella ove il bel viso
Risplende sovra ogni lucente stella,

Mitigato ha il dolor, che ingegno od arte
Far nol potea, sperando in paradiso
L'alma vedere oltra le belle bella.

Restò così vedova all'età di 33 anni, non si risposò più, e mantenne il lutto totale per il resto della vita. Del suo corpo faceva vedere solo il viso. Fece perfin dipingere di nero la carrozza, facendola trainare solo da cavalli neri o morelli; anche la stanza e il letto fece addobbare di nero listato per sempre a lutto. Nei primi tempi di vedovanza, è probabile avesse anche meditato al suicidio, ma forse fu il pensiero dei due figli ancora in tenera età a distoglierla dalla turpe idea. E fu così che aspettando la loro maggiore età, prese in mano le redini del piccolo regno, assolvendo al compito con inusuale determinazione e maestria, per una donna di quei tempi. Le vicissitudini della vita, portarono poi i figli ad occuparsi di tutt'altro, diventando il maggiore un condottiero, e il minore un cardinale. Toccò così a Veronica di governare il Regno per gli oltre trent'anni in cui visse. E fu così che gli anni dal 1519 al 1532 li dedicò gran parte alla politica, ed estera in particolare. Scriveva in prosa, o motteggiando, a Francesco I e a Carlo V. Di Francesco I ammirava l'aspetto statuario, di Carlo V invece il grande carisma. L'ammirazione reciproca tra la contessa di Correggio e l'Imperatore fu tale che questi, nelle sue tre venute a Bologna, per ben due volte volle passare da Correggio, ospitato con tutti gli onori dai cittadini e da casa Gàmbara.

Componeva motti e sonetti e lettere per tutti; molte andate perse, ma parecchie ci sono pervenute, fornendoci tra l'altro preziose testimonianze sulle abitudini e modi di vivere del tempo, e una ricca testimonianza sull'evoluzione della nostra lingua che andava pian piano sganciandosi dal latino negli scritti di ufficialità. La grande stima e soggezione che aveva per Carlo V la trasferì in un sonetto che compose nel 1526, all'indomani della pace di Madrid siglata tra i due re. Con quel trattato di pace, Veronica si era illusa che, finalmente, si sarebbe giunti alla pace universale tanto agognata da tutti. Questo il sonetto:

Vincere i cor più saggi e i Re più alteri,
Legar con l'arme e scioglier con la pace,
Dargli e tor libertà quando a voi piace,
Esser dolce agli umili, acerbo ai fieri;

Che pajan falsi appo de' vostri veri
Gli onori altrui; che di virtù la face
Viva si accesa in voi, che ancor vi spiace
De l'error l'ombra e del vizio i pensieri;

Nasce, Signor, da unir la salda mente
Con l'eterno voler; far poca stima,
Che ceda al suo valor l'empia fortuna.

Onde sarà la gloria vostra prima
In terra, e l'alma il ciel sovra ciascuna,
Quella d'onor, questa d'amore ardente.

Nel luglio del 1532, tornando Verola in possesso della sua famiglia d'origine, fece un viaggio di ritorno al paese natio. Vi mancava da più di vent'anni e l'impressione unita a commozione fu tale, che compose la seguente poesia in suo onore, di chiara intonazione petrarchesca:

Con quel caldo desio che nascer suole
Nel petto di chi torna, amando, assente
Gli occhi vaghi a vedere, e le parole
Dolci ad udir del suo bel foco ardente,
Con quel, proprio voi, piagge al mondo sole,
Fresc'acque, ameni colli, e te, possente
Più d'altra ch'l sol miri andando intorno,
Bella e lieta cittade, a veder torno.

Salve, mia cara Patria, e tu, felice,
Tanto amato dal ciel, ricco paese,
Che a guisa di leggiadra alma fenice,
Mostri l'alto valor chiaro e palese;
Natura, a te sol madre e pia nutrice,
Ha fatto a gli altri mille gravi offese,
Spogliandoli di quanto avean di buono
Per farne a te cortese e largo dono.
In "Fresc'acque, ameni colli" si scorge chiaramente l'influsso del Chiare, fresche et dolci acque.
Da lì in poi, e quindi dal 1532 al 1540, si dedicherà alla poesia impegnata, quasi aborrendo i frivoli versi scritti nell'età giovanile. Nel sonetto che segue descrive infatti tutto il rammarico e disappunto per essersi persa in gioventù in quelle "sciocche rime". Ed è chiaro il riferimento a quando scriveva mottetti per il buffone Baron, di corte Gonzaga, o le canzonette per Isabella d'Este in Gonzaga, che da giovane si dilettava in canzonette, e prediligeva i versi composti da Veronica. Insomma, da quel 1532 la Poesia per Veronica Gàmbara è diventata una cosa molto seria, e scriverà, tra le sue innumerevoli composizioni:

Mentre da vaghi e giovenil pensieri
Fui nodrita, or temendo, ora sperando,
Piangendo or trista, ed or lieta cantando,
Da desir combattuta or falsi, or veri,
Con accenti sfogai pietosi, e seri I concetti del cor, che spesso amando
Il suo male assai più che 'l ben cercando,
Consumava dogliosa i giorni interi.

Or che d'altri pensieri, e d'altre voglie
Pasco la mente, a le già care rime
Ho posto, ed a lo stil, silenzio eterno.

E se allor vaneggiando, a quelle prime
Sciocchezze intesi, ora il pentirmi toglie
Palesando la colpa, il duolo interno.

Nella parte conclusiva della sua vita (1540-1550) c'è da rilevare l'abbandonarsi di Veronica alla religione. Questo è quel periodo, accennato all'introduzione, sul quale torneremo. Qui trascrivo solamente un suo significativo sonetto:
Ite, pensier fallaci, e vana speme,
Ciechi ingordi desiri, accese voglie;
Ite, sospiri ardenti, acerbe doglie,
Compagni sempre a le mie eterne pene;

Ite, memorie dolci, aspre catene
Al cor che pur da voi or si discioglie,
E 'l fren de la ragion tutto raccoglie,
Smarrito un tempo, e 'n libertà ne viene.

E tu, povr'alma in tanti affanni involta,
Slegati omai, e al tuo Signor divino
Leggiadramente i tuoi pensier rivolta;

Sforza animosamente il fier destino,
E i lacci rompi; e poi leggiera e sciolta
Rivolgi i passi a un più sicur cammino.
Nonostante, come detto, Il Correggio sia stato il pittore ufficiale di corte Gàmbara, pare non vi sia di Veronica alcun ritratto. Si ha soltanto notizia certa di un quadro da lei commissionato all'Allegri, che doveva rappresentare una Maddalena nel deserto; ma esso è andato disperso.
Bibliografia: La Signora della Poesia, di Daniela Pizzagalli, Editore Rizzoli, 2004.
Immagini - dall'alto: Ritratto di dama; Correggio (1517-1518), da Wikipedia
Francesco I di Francia - 1525 circa - da Wikipedia
Carlo V - da Wikipedia
Ulteriori fonti d'informazione: Cristinacampo.it

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