lunedì 23 febbraio 2009

La lunga notte delle stelle -And the winner is

Potete pensare e scrivere quello che volete, nel bene e nel male, ma l’assegnazione degli Academy Awards, rimane uno dei più importanti eventi culturali e mediatici del mondo del cinema e stanotte come ogni anno si ripeterà la magia della “lunga notte” degli Oscar.
Il battesimo degli Oscar ebbe luogo il 16 Maggio 1929 nella Blossom Room dell’Hollywood Hotel di L.A. L’atmosfera era magica, luci soffuse e 36 tavoli elegantemente apparecchiati e su ognuno di essi il facsimile in zucchero dell’uomo nudo con la spada che trafiggeva una pellicola.
La leggenda dice che una segretaria abbia esclamato “Ma assomiglia a mio zio Oscar!”
E così l’Oscar da 81 anni affascina generazioni di uomini, donne e bambini per quel insuperabile mix di raffinato sogno e “vil” denaro, che fa sognare ad occhi aperti colti e meno colti.
La notte degli Oscar è una notte magica che non si può fare a meno di guardare, anche se il vero cinofilo a volte non crede che i vincitori rappresentino la scelta più artistica e imparziale.
Ma se non ci si emoziona per film premiati, rimangono le star e gli abiti delle star da commentare.
Ma questa sfavillante manifestazione ha avuto ed ha anche la funzione di “cartina di tornasole” dei mutamenti sociali e di costume.
Basti pensare come il premio a Tom Hanks in Filadelfia abbia sdoganato il mondo gay, come abbia mostrato l’umanità disperata dei malati di Aids, come abbia fatto vergognare il mondo, per aver considerato questo terribile morbo, una “punizione” divina per chi si considerava contro-natura.
I tempi cambiano e l’Oscar si adegua, nel 1963 il premio a Sidney Poitier come migliore attore per “I gigli del campo” fu così commentato dallo speaker dell’epoca: “This is the firt nigger to win Academy Award” . Una simile affermazione ora, è semplicemente impossibile: chi avesse il temerario coraggio di farlo, sarebbe “espulso” dal consorzio umano.
Gli Oscar sono anche stati luogo di piccoli e grandi scandali, ad esempio la finta indiana che nel 1972 salì sul palco al posto di Marlon Brando che non ritirò il premio per protestare contro il modo in cui Hollywood trattava i pellerossa d’America.
Oppure quando nel 1973 la cerimonia si concluse con un fuori programma, David Niven stava presentando la Taylor, quando un uomo nudo si mise a correre come un pazzo nella sala esibendo un cartello pacifista. Il regista dirottò l’inquadratura per evitare l’immagine delle “grazie” del tizio nudo, in primo piano ai telespettatori e quando finalmente fu acciuffato e il pubblico smise di ridere, la Taylor potè proclamare “la Stangata” miglior film.
Anche le capriole di Roberto Benigni nel 1998 fecero scalpore, fu il primo tentativo della storia degli Oscar di raggiungere il palco, camminando sulle spalliere delle poltrone mentre molte star in piedi ridevano e Spielber aiutava Benigni nel suo numero d’equilibrismo.
La notte degli Oscar non è solo, gossip o glamour patinato è la sintesi perfetta del cinema come “fabbrica” di sogni, arte, costume e società.
Tanti, troppi i film che hanno ricevuto questo ambito premio.
Mi limito a ricordare quelli che più sono legati al mio immaginario di cinefila appassionata ma dilettante.
Via col vento
Rebecca la prima moglie
Casablanca
Eva contro Eva
Fronte del porto
Un uomo da marciapiede
Il Padrino e il Padrino parte II
Qualcuno volò sul nido del cuculo
Il cacciatore
La mia Africa
Platoon
Rain Man
Balla coi lupi
Il silenzio degli innocenti
Gli spietati
Schindler’s list
Braveheart
America Beauty
Il signore degli anelli
Million Dollar Baby
Questo anno la serata più importante del cinema avrà per protagonisti «Il curioso caso di Benjamin Button» di David Fincher con Brad Pitt, che si presenta con ben tredici candidature. «The Millionaire» di Danny Boyle, con dieci candidature, «The Reader», e «Milk» con otto nomination; ma anche «Frost/Nixon», che ha portato sullo schermo il «duello» televisivo tra il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon e David Frost.
Vinca il migliore!
Aretusa

sabato 14 febbraio 2009

Lucien Lévy-Dhurmer e un percorso poetico-tematico



Lucien Lévy-Dhurmer è stato un artista enigmatico, probabilmente sottovalutato e poco conosciuto, ma di grande fascino. Nasce il 30 Settembre 1865 ad Algeri. Presto nel Sud della Francia inizia la sua attività come ceramista e decoratore. In seguito, dopo Parigi, visita l'Italia, rimane affascinato dall'arte Rinascimentale.

La sua pittura fu amata da Camille Mauclair, Gustave Soulier, Léon Tevenin. Negli anni 80 lavora nel laboratorio d'arti applicate di Clement Massier (Manufactures de Faiences). Nel 1896 esibisce i suoi primi pastelli, una delle sue tecniche preferite, in cui si assiste a una presa di distanza dall'Impressionismo, per aderire alla poetica visiva Simbolista, e Preraffaellita; nella produzione più tarda sfiorerà anche l'Art Nouveau. Muore nel 1953. Nell'ultima produzione novecentesca si distanzia dalle forme e stile tipici del Simbolismo incorporando stralci più ampi di paesaggio, anche se la visionarietà rimane una delle sue caratteristiche costanti. Si nota un'influenza da Odilon Redon, Gustave Moreau e dal belga Ferdinand Khnopff.
 
Lévy-Dhurmer era legato ai contenuti simbolisti francesi: nelle sue opere è costante la presenza di figure pittoriche 'finite', dettagliate, quasi realiste, ma avvolte in un alone di spiritualità che suggerisce l'indeterminatezza. Tra i suoi dipinti più famosi "Mistero-la Donna con la Medaglia" (pastello, 1896, Musée d'Orsay, Parigi - foto a sinistra in basso) che risente del Rinascimento italiano:

















La donna è spesso presentata in maniera enigmatica, sacrale, Cfr. "Il Silenzio" 1895 (Louvre, Parigi - qui a destra), che si rifà a suggestioni arcane (teosofia, magia, tematiche Rose Croix), o nel dipinto posto in alto al centro, in una delle sue incarnazioni  dell'autunno.











La stessa atmosfera sospesa appare nel ritratto dello scrittore Georges Rodenbach (1855-1898) affine alla scrittura di quest'ultimo, dedicata al culto delle città morte e alle presenze misteriose che immaginava vi abitassero. (Ritratto di Georges Rodenbach, pastello, 1896, Musée d'Orsay, Parigi - foto piccola).






Il volto dello scrittore è incorniciato nel paesaggio retrostante della città di Bruges, tra canali, tetti aguzzi e sprazzi di architettura gotica. L'acqua del fiume di Bruges si confonde indistintamente nella figura dello scrittore, a sottolineare il clima onirico e l'alone indefinito.
Rodenbach fece parte del gruppo la nouvelle Belgique sosteneva la nascita di un'arte nazionale indipendente. Rodenbach poi a Parigi diviene esponente di quel filone letterario che dall'Ecole du Parnasse sfociò nel Simbolismo di Maurice Maeterlinck, visionario come l'opera di Lévy-Dhurmer "Medusa-Onda impetuosa" pastello del 1897 (qui sotto a destra) :




Georges Rodenbach compose poesie di tono elegiaco, servendosi dei paesaggi suggestivi della terra d'origine, le acque e la pace sospesa delle antiche città fiamminghe, un immaginario percorso segnato dall'anelito religioso e dalla dimensione intimistica e memoriale. Tra le raccolte poetiche: "La bianca giovinezza" (La jeunesse blanche, 1886), "Il regno del silenzio" (Le règne du silence, 1891), "Le vite racchiuse" (Les vies encloses, 1896), "Lo specchio del cielo natale" (Le miroir du ciel natal, 1898). Tra i suoi racconti una certa eco ebbe "L'idolo", (protagonista è la signora Desgenet, una sorta di dandy al femminile).

Tra le sue opere maggiori il romanzo breve 'Bruges la morta' (Bruges la morte, 1892), (da cui il quadro fortemente connotato di Lévy-Dhurmer) trasfigurazione della città fiamminga, denso di rimandi tra immagini interiori e luoghi. In Italia ebbe un'infuenza sui Crepuscolari e su Gozzano.
Rodenbach verso la fine della vita era parte del mondo culturale parigino, aveva rapporti coi Goncourt, coi Daudet, con Mallarmé. Da "Bruges-la-Morte", attraverso un dramma dello stesso Rodenbach "Le Mirage", mai rappresentato in Francia ma solo a Berlino nel 1909, Erich Wolfgang Korngold s' ispirò per il libretto della sua Opera, "Die Tote Stadt"/"La città morta", del 1920, andata in scena di nuovo di recente al Festival di Salisburgo, e in Italia qualche anno fa al Festival di Spoleto. Bruges la morte, che vediamo trasfigurata anche nel quadro, città della malinconia, può essere interpretata come il canto per una città, e insieme l'allegoria di una condizione culturale. Bruges era una città gotica, ex città fiorente, tra conventi, chiese, strade vuote, avvolti nella nebbia. La città fiamminga era stata tra le più ricche del Medio Evo, e ne restano testimonianze suggestive: un numero esorbitante di chiese e un intero pittoresco villaggio di conventi, denominati il Béguinage. Il prosciugamento naturale del fiume, che aveva reso importante il porto nei secoli medievali, aveva spento l'economia e la vita di Bruges. Rodenbach la descrive come una città deserta, popolata di ombre di monache, di memorie e immagini di vite che furono, che si specchiano in canali, in vecchi edifici stipati in vie medioevali strette, avvolte di nebbia, spesso bagnata da una continua finissima pioggia. Le campane sono il leitmotiv acustico del romanzo: rintocchi, suoni, sussurri, echi lontani in una dimensione acustica spettrale. Il libro riassume così l’immaginario del proprio tempo, ricorre anche il topos romantico-decadente del doppio (doppelgaenger). L'evocazione poetica della 'città morta' è il vero tema del romanzo, le edizioni dell'opera furono sempre volute con molte fotografie in b/n della città che fu, e il pittore simbolista belga Ferdinand Khnopff realizzò il primo frontespizio su richiesta di Rodenbach. Hugues Viane, il protagonista quarantenne, caduto in un autunno personale precoce (speculare a quello della città narrata) per la morte dell'amata moglie, inizia una sorta di culto dell'amata scomparsa. Nella città percorre sempre itinerari solitari, e arriva ad identificare la città con la moglie scomparsa. La sua casa diviene un reliquiario, nel salotto campeggia un ritratto della moglie, e conserva con maniacalità una ciocca di capelli di lei a treccia, di un biondo antico dorato. In seguito Hugues sarà affascinato da una donna (la ballerina Jane Scott) vista all'opera nel "Robert le diable" che sembra una sosia della moglie, e invece si rivelerà, nei modi e nell'aspetto, molto differente e brutale. Solo la morte (e l'uccisione del reale/brutale per far rivivere la trasposizione ideale) potrebbe riaffermare la somiglianza della nuova alla precedente compagna, e Hugues non avrà altro modo di recuperare l'immagine perduta che uccidere quella ritrovata. Questo romanzo e alcuni suoi temi ebbero fortuna nel 1900 da R. M. Rilke a Marino Moretti (il quale visiterà Bruges sospinto dal fascino del libro e dall'aura emanata dai ritratti, in un viaggio col pittore De Pisis: elementi del libro e del viaggio a Bruges si possono rilevare nel suo romanzo "La Casa del Santo Sangue") e anche in "D'entre les Morts" di Boileau e Narcejac, romanzo poliziesco da cui Hitchcock trasse il famoso Vertigo (La donna che visse due volte). Ugualmente Bruges come città-specchio di un'assenza, di un lutto, o come bellezza nell'assenza e nella sottrazione, ricorda in parte la Firenze depauperata per la morte di Beatrice, nella "Vita Nuova", e l'innamoramento per somiglianza è un topos già presente in Guido Cavalcanti per la giovane donna di Tolosa.


Autore: Josh

lunedì 9 febbraio 2009

Splendore e decadenza dell'Impero Romano d'Occidente ( i mosaici di Ravenna)

Se andate al mio post precedente, potrete ammirare una foto di Re Magi in cammino per recare omaggi a Gesù Bambino. Non è un quadro o un affresco, ma il particolare di un Antico Mosaico di Ravenna.

Chi mi consigliò quella foto, ebbe un'idea felice. Si svolgeva in quei giorni, a Nova Milanese, una mostra dedicata a quegli Antichi Mosaici, il cui precipuo scopo era stato quello di accendere un faro su quell'immenso patrimonio storico-artistico, misconosciuto a gran parte degli italiani, me compreso.Coloro che, infatti, pensano a Ravenna, hanno in mente le immagini delle sue Basiliche e dei suoi Mausolei, viste però dalla parte esterna; senza magari sapere che il bello sta al loro interno. In tal senso, le Basiliche, i Mausolei, il Battistero andrebbero visti come scrigni: casseforti contenenti grandi tesori d'Arte. Ed è per il loro immenso valore interiore che l'Unesco ha voluto tutelarli, dichiarandoli Patrimonio dell'Umanità.
A distanza di un mese dalla conclusione, debbo dire che l'intento di quella mostra, voluta da Rosaria Longoni, assessore alla cultura di Nova Milanese,è stato raggiunto.
A questo punto, esco un attimo dal tema, per rivolgere un consiglio, e una critica, ai responsabili delle attività culturali dei comuni d'Italia, i quali lamentano, spesso e quasi tutti, le scarse risorse a loro disposizione per fare promozione culturale. Quello di Nova Milanese è stato un esempio tangibile di come a ciò si possa adempiere, senza spendere praticamente nulla. Per quel che ho potuto appurare, tale mostra, durata oltre un mese, ritengo sia costata pochissimo alle casse comunali, se penso al modo intelligente con cui è stata organizzata e diretta. E' stata infatti allestita e curata dalla Cooperativa Edificatrice di Muggiò, in collaborazione con il Comune di Ravenna e con il solo patrocinio della Città di Nova Milanese, che ha messo a disposizione un salone per il suo allestimento. Le gigantografie dei mosaici sono state create, con superba maestria, dalle leggendarie Edizioni Panini di Modena (più note per le figurine da collezione).


Nello spazio di circa 300 mq, sono stati esposti esempi perfetti di particolari dei mosaici provenienti dalla Basilica di San Vitale (foto in alto a destra) e del Mausoleo di Galla Placidia ( qui a sinistra).

La maestria della Panini deriva dal fatto che, stando in prossimità dei murali, si poteva avere l'impressione di toccar con mano le minuscole mattonelle, dalle dimensioni e dai colori più diversi, con cui furono creati gli splendidi mosaici.
Invito i lettori, che vogliano approfondire l'argomento Mosaici di Ravenna, a documentarsi via Internet. Voglio invece soffermarmi sull'impressione emotiva procuratami dalla gigantografia di uno dei mosaici principali della Basilica di SanVitale, che è stato presentato all'esposizione e riprodotto nell'immagine in basso a destra.

E' un gruppo di dignitari autorevoli e altolocati, dall'aspetto cupo, pensoso, severo, triste. Quasi l'immagine di persone che stanno presagendo e vivendo l'inizio di quel lungo periodo di "oscurità"che è stato il Medio Evo. Nei loro sguardi vi era già tutto il vissuto di un popolo estremamente travagliato; un popolo, un'intera umanità costretta a fuggire da Roma, prima, e poi dopo da Milano, sotto l'incalzare delle invasioni barbariche.
Soffermandomi invece sull'aspetto della bellezza e magnificenza di quei Mosaici, vi intravedo il tentativo di voler ricostruire, di voler tramandare ai posteri, i fasti di quello che era stata la bellezza della civiltà Romana, la quale stava per essere soggiogata, demolita e cancellata dai barbari. Ma, consci dei rischi e pericoli già intercorsi a Roma e a Milano, lì a Ravenna si volle costruire senza troppo sfarzo esteriore, quasi a non voler dare troppo nell'occhio. Al contrario di Roma e Milano, dove si fece largo uso di preziosi e costosi marmi (si pensi al Palazzo Imperiale di Milano, del quale non è giunto nulla fino a noi, che era stato costruito facendo arrivare via mare, via Po e via Vettabia, pregiati marmi fin dall'Africa Romana), a Ravenna si pensò di meno all'esteriorità. Mattoni grezzi (questo, almeno, è quel che è giunto fino a noi), poco o nulla uso di luccicanti marmi, almeno nella parte esterna. Ci si concentrò quasi totalmente alla realizzazione di splendori interni. Quasi a non voler ripetere le esperienze di Roma e Milano, dove, il passa-parola sullo splendore dei marmi aveva contribuito a far sì che avvenisse la calata di orde barbariche devastatrici, qui non c'è traccia di marmo; la bellezza e la grandiosità stanno tutte racchiuse all'interno di quegli edifici, solidi e ben costruiti.
L'analisi storica più approfondita di quei secoli, sarà oggetto di altri post. Qui, mi limito ad un accenno sul perché della scelta di Ravenna per impiantarvi la Nuova Capitale dell'Impero Romano d'Occidente. Essa è stata vista anche come una fuga dalla realtà da parte delle élite di allora, coloro i quali avevano in mano le sorti e i destini delle genti, lasciate in balia del proprio drammatico e ignoto destino.
Un quesito, e una provocazione, che mi sorgono spontanei, lo rivolgo alle élites e ai governanti occidentali di oggi: quanti secoli di travagli e quali traversìe dovettero subire, prima che avvenisse l'amalgama e l'assimilazione dei barbari alla civiltà?


































autore: Marshall