domenica 28 dicembre 2008

Poesie di un Giardino d'Inverno: Aleksandr Blok

Il Giardino delle Esperidi sonnecchia nel bel mezzo di un gelido inverno che si preannuncia duro e lungo. Eppure anche l'inverno ha una sua limpida magia e ha avuto i suoi sublimi cantori visionari. Grandissimi e ineguagliati fra tutti, i poeti russi, come Aleksandr Blok e Boris Pasternak. Non potendoli ospitare tutti e due per motivi di spazio, scelgo una trilogia invernale del primo. Blok è il poeta simbolista delle lunghe distese invernali, della Bellissima Dama Bianca, regina incontrastata delle nevi nella Steppa - un miraggio, una sorta di Fata Morgana dei lunghi e solitari inverni russi. Questi poeti amavano recitare i loro versi al riparo delle calde bettole e taverne, e la loro poesia, nelle gelide ore invernali, veniva ascoltata direttamente dagli umili, dalla gente del popolo, chiamata a parteciparvi. Per questo ne "Il Dottor Zivago" c'è un passo in cui il poeta-romanziere Pasternak fa dire a un suo personaggio che nessuno ama tanto la poesia quanto il popolo russo.
L'occasione mi è gradita per propiziare a tutti i visitatori, i miei auguri per un Felice Anno Nuovo! (Hesperia)




Se ammirerò di notte la tormenta




Se ammirerò di notte la tormenta,

m'infiammerò senza potermi spegnere.

A me l'azzurra notte ha bisbigliato,

ciò che è negli occhi tuoi, ragazza bella.




Una fiaba vellosa ha bisbigliato
ed un prato incantanto mi ha predetto
sul tuo conto parecchi sogni alati
sul tuo conto, mia amica misteriosa.




M' intreccerò come una ragnatela
di neve, i baci sono lunghi sogni
Sento il tuo cuore di cigno,
discerno l'ardente cuore della primavera.






L'Orsa Maggiore mi ha profetizzato,
e anche una strega, creatura del gelo,
che dentro agli occhi tuoi, ragazza bella,
sulla tua fronte c'è l'azzurra notte.













La mia luna è in un maestoso zènit



La mia luna è in un maestoso zènit.
Mi inebrierò di libertà notturna
e là mi avvolgerò in argentei fili,
in un eccesso di felicità.




Movendo incontro a un'ardente abulia
e a nient'altro che all'Alba futura,
annuisco all'azzurra largura
e mi tuffo nello scuro argento!...





Sulle piazze dell'afosa capitale
uomini ciechi cingottano:
- Che c'è sopra la terra? Un pallone.
Che c'è sotto la luna? un aerostato.






Ed io per il deserto inargentato
corro bruciando dal delirio,
e nelle pieghe d'una pianeta azzurro cupo
ho nascosto la mia Diletta Stella.














Tu mi vestirai d'argento






Tu mi vestirai d'argento,
e alla mia morte la luna spunterà - Pierrot celeste,
sorgerà il rosso pagliaccio ai quattro venti.



La morta luna è senza scampo muta,
non ha svelato nulla a nessuno.
Chiederà soltanto alla mia amica
a che scopo un tempo io l'abbia amata.



In questo sogno furioso a occhi aperti
mi capovolgerò col viso morto.
E il pagliaccio spaventerà la civetta,
tinnendo di sonagli sotto il monte...



Lo so: vecchio è il suo aspetto grinzoso
e impudico nella nudezza terrena.
Ma si leva l'ebrietà funesta
verso i cieli, l'altura, la purezza. - Aleksandr Blok - traduzione di Angelo Maria Ripellino -




I primi due dipinti in alto sono di Giovanni Segantini. Il primo titola "Ritorno dal bosco" e il secondo, "Le cattive madri".

Il terzo dipinto in basso d' ispirazione simbolista è di Domingo Motta "Il ritorno del Pierrot".

Hesperia

giovedì 18 dicembre 2008

Il presepe della nostra infanzia

Quando la famiglia era ancora il nucleo caldo e avvolgente che ogni bambino sogna, il “nido” protettivo dove crescere al riparo delle brutture del mondo, il Natale era il momento in cui ci si radunava intorno ai simboli cristiani di questa mistica ricorrenza: la nascita di Gesù Cristo.
L’albero era decorato con poche palline di vetro fragili come ali di farfalla, monete e babbi natali di cioccolata e tanti nastri argentati, niente luci “Made in China” vendute a due lire o palline di plastica, che rappresentano l’esatto contrario del significato del Natale: festa d’amore, bontà e letizia per gli uomini di buona volontà. Mentre quelle luci sono simbolo di schiavitù, dolore ed egoismo, della superficialità di questa società, che “brilla” ma per farlo calpesta tutti i valori umani. Una società di “consumatori” e non più di uomini, donne e bambini. Consumare è il nuovo credo, e il Natale ormai non è più la celebrazione della nascita di nostro Signore, ma quella delle nostre più deplorevoli abitudini. Il regalino che rappresentava un pensiero amorevole per i propri congiunti è diventata una corsa sfrenata all’acquisto, le vacanze che servivano a radunare parenti e amici per giorni e giorni, fra tombole e panettone, chiacchiere e il ragù della “nonna”, sono diventate l’occasione per andarsene in giro per il mondo, e così via. Il Natale della nostra infanzia non esiste più da tanti anni, ne è rimasta la parvenza, ma ha perso il suo significato più vero e profondo.
Di quei Natali, uno dei momenti più belli per me, era tirare fuori una scatola rettangolare, di quelle rigide (che contenevano le bottiglie),dove mia madre teneva imballate le statuine del presepe. E, quei pomeriggi trascorsi a creare montagne di carta pesta, laghetti con gli specchi, neve con la farina, sono i più bei ricordi della mia infanzia. Quel piccolo Gesù adagiato nella mangiatoia, rappresentava per me l’essenza stessa del cristianesimo, perché mi avevano insegnato che da uomo avrebbe sacrificato la sua vita per il bene dell’umanità. Lo ricordo con i suoi riccioli d’oro e le braccine aperte ad abbracciare il mondo, come 33 anni dopo sulla croce, sarebbe morto “abbracciando” i suoi carnefici e perdonandoli.
Il perdono e l’amore per il prossimo sono i principi fondanti del cristianesimo, la nostra religione, che dovremmo difendere dagli attacchi mortali del laicismo e dal “regime” multiculturalista, che per non offendere i credenti di altri paesi, ha tolto i Presepi dalle scuole, ha sostituito i solenni canti di Natale con “We are the world” e vuole togliere persino la croce dai luoghi pubblici. Infischiandosene di offendere e ferire i sentimenti di milioni di cattolici.
Dopo questo lungo preambolo aggiungo la storia del Presepe, dalle origini ai tempi nostri. Leggerla ma soprattutto ricordare il valore del Presepe è un modo per mantenere vive e vitali le nostre radici di cristiani.


Sono gli evangelisti Luca e Matteo i primi a descrivere la Natività. Nei loro brani c'è già tutta la sacra rappresentazione che a partire dal medioevo prenderà il nome latino di praesepium ovvero recinto chiuso, mangiatoia. Si narra infatti dell’umile nascita di Gesù come riporta Luca "in una mangiatoia”, dell'annunzio dato ai pastori, dei magi venuti da oriente seguendo la stella per adorare il Bambino che i prodigi del cielo annunciano già re. Questo avvenimento così famigliare e umano se da un lato colpisce la fantasia dei paleocristiani rendendo loro meno oscuro il mistero di un Dio che si fa uomo, dall'altro li sollecita a rimarcare gli aspetti trascendenti quali la divinità dell'infante e la verginità di Maria. Così si spiegano le effigi parietali del III secolo nel cimitero di S. Agnese e nelle catacombe di Pietro e Marcellino e di Domitilla in Roma che ci mostrano una Natività e l'adorazione dei Magi, ai quali il vangelo apocrifo armeno assegna i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, ma soprattutto si caricano di significati allegorici i personaggi dei quali si va arricchendo l'originale iconografia: il bue e l'asino, aggiunti da Origene, interprete delle profezie di Abacuc e Isaia, divengono simboli del popolo ebreo e dei pagani; i Magi il cui numero di tre, fissato da S. Leone Magno, ne permette una duplice interpretazione, quali rappresentanti delle tre età dell'uomo: gioventù, maturità e vecchiaia e delle tre razze in cui si divide l'umanità, la semita, la giapetica e la camita secondo il racconto biblico; gli angeli, esempi di creature superiori; i pastori come l'umanità da redimere e infine Maria e Giuseppe rappresentati a partire dal XIII secolo, in atteggiamento di adorazione proprio per sottolineare la regalità del nascituro. Anche i doni dei Magi sono interpretati con riferimento alla duplice natura di Gesù e alla sua regalità: l'incenso, per la sua Divinità, la mirra, per il suo essere uomo, l'oro perché dono riservato ai re. A partire dal IV secolo la Natività diviene uno dei temi dominanti dell'arte religiosa e in questa produzione spiccano per valore artistico: la natività e l'adorazione dei magi del dittico a cinque parti in avorio e pietre preziose del V secolo che si ammira nel Duomo di Milano e i mosaici della Cappella Palatina a Palermo, del Battistero di S. Maria a Venezia e delle Basiliche di S. Maria Maggiore e S. Maria in Trastevere a Roma. In queste opere dove si fa evidente l'influsso orientale, l'ambiente descritto è la grotta, che in quei tempi si utilizzava per il ricovero degli animali, con gli angeli annuncianti mentre Maria e Giuseppe sono raffigurati in atteggiamento ieratico simili a divinità o, in antitesi, come soggetti secondari quasi estranei all'evento rappresentato. Dal secolo XIV la Natività è affidata all'estro figurativo degli artisti più famosi che si cimentano in affreschi, pitture, sculture, ceramiche, argenti, avori e vetrate che impreziosiscono le chiese e le dimore della nobiltà o di facoltosi committenti dell'intera Europa, valgano per tutti i nomi di Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca, il Perugino, Dürer, Rembrandt, Poussin, Zurbaran, Murillo, Correggio, Rubens e tanti altri.
Il presepio come lo vediamo rappresentare ancor oggi nasce secondo la tradizione dal desiderio di San Francesco di far rivivere in uno scenario naturale la nascita di Betlemme coinvolgendo il popolo nella rievocazione che ebbe luogo a Greccio la notte di Natale del 1223, episodio rappresentato poi magistralmente da Giotto nell'affresco della Basilica Superiore di Assisi.


Primo esempio di presepe inanimato è invece quello che Arnolfo di Cambio scolpirà nel legno nel 1280 e del quale oggi si conservano le statue residue nella cripta della Cappella Sistina di S. Maria Maggiore in Roma. Da allora e fino alla metà del 1400 gli artisti producono statue di legno o terracotta che sistemano davanti a una pittura riproducente un paesaggio come sfondo alla scena della Natività, il tutto collocato all'interno delle chiese. Culla di tale attività artistica fu la Toscana ma ben presto il presepe si diffuse nel regno di Napoli ad opera di Carlo III di Borbone e nel resto degli Stati italiani.


Nel '600 e '700 gli artisti napoletani danno alla sacra rappresentazione un'impronta naturalistica inserendo la Natività nel paesaggio campano ricostruito in scorci di vita che vedono personaggi della nobillà, della borghesia e del popolo colti nelle loro occupazioni giornaliere o nei momenti di svago, nelle taverne a banchettare o impegnati in balli e serenate. Ulteriore novità è la trasformazione delle statue in manichini di legno con arti in fil di ferro, per dare movimento, abbigliati con vesti di stoffe più o meno ricche, adornati con monili e muniti degli strumenti di lavoro tipici dei mestieri dell'epoca e tutti riprodotti con esattezza anche nei minimi particolari. A tali fastose composizioni davano il loro contributo artigiani vari e lavoranti delle stesse corti regie o la nobiltà, come attestano gli splendidi abiti ricamati che indossano i Re Magi o altri personaggi di spicco, spesso tessuti negli opifici reali di S. Lencio. In questo periodo si distinguono anche gli artisti di Genova e quelli siciliani che, fatta eccezione per i siracusani che usano la cera, si ispirano sia per i materiali che per il realismo scenico, alla tradizione napoletana. Sempre nel '700 si diffonde il presepio meccanico o di movimento che ha un illustre predecessore in quello costruito da Hans Schlottheim nel 1588 per Cristiano I di Sassonia.
La diffusione a livello popolare si realizza pienamente nel secolo scorso quando ogni famiglia in occasione del Natale costruisce un presepe riproducendo la Natività secondo i canoni tradizionali con materiali - statuine in gesso o terracotta, carta pesta e altro - forniti da un fiorente artigianato. A Roma le famiglie importanti per censo e ricchezza gareggiavano tra loro nel costruire i presepi più imponenti, ambientati nella stessa città o nella campagna romana, che permettevano di visitare ai concittadini e ai turisti. Famosi quello della famiglia Forti posti sulla sommità della Torre degli Anguillara, o della famiglia Buttarelli in via De' Genovesi riproducente Greccio e la caverna usata da S. Francesco o quello di Padre Bonelli nel Portico della Chiesa dei Santi XII Apostoli, parzialmente meccanico con la ricostruzione del lago di Tiberiade solcato dalle barche e delle città di Gerusalemme e Betlemme.
Oggi dopo l'affievolirsi della tradizione causata anche dall'introduzione dell'albero di Natale, il presepe è tornato a fiorire grazie all'impegno di religiosi e privati che con associazioni come quella degli amici del presepe, Musei tipo il Brembo di Dalmine vicino Bergamo, Mostre, tipica quella dei 100 Presepi nelle Sale del Bramante di Roma, una tra le prime in Italia, rappresentazioni dal vivo come quelle di Rivisondoli in Abruzzo o Revine nel Veneto e soprattutto gli artigiani napoletani e siciliani in special modo, eredi delle scuole presepiali del passato, hanno ricondotto nelle case e nelle piazze d'Italia la Natività e tutti i personaggi della simbologia cristiana.
Chiudo augurando a tutti un Felice Natale e un fantastico Anno Nuovo.
Aretusa


sabato 13 dicembre 2008

Il mio incontro con Guareschi



Avvertenza: Trattasi di un racconto, e l'incontro tra me e lo scrittore è puramente immaginario. Qui è tutto immaginario tranne il fatto che questo scritto è stato liberamente tratto da un racconto di Giovannino Guareschi (foto piccola in basso a sinistra). Tra l'altro, esso avviene in un luogo che, al tempo di cui si narra il fatto, non era ancora stato reso di pubblica fruizione (infatti Villa Ghirlanda è diventata proprietà comunale dopo il 1970, e, a quell'epoca, Guareschi era già scomparso).Questo racconto mi sarebbe servito, com'è vero che mi servirà, da introduzione per un post di attualità politica che ho già in mente, e che rimando per non ingolfare me stesso e il lettore.

Era una mattina limpida, piena di sole, e lo scrittore-giornalista, arrivato all'incrocio Casignolo-De Vizzi, anziché proseguire per Milano, decise improvvisamente di svoltare a destra, per quella strada che conosceva molto bene. Tutte le volte che si recava a Monza per servizio, faceva immancabilmente tappa a quel ristorante rinomato di inizio via. Era una strada, questa, che nel corso degli anni è diventata molto trafficata ed ora è un bel viale alberato, ornato di giganteschi platani, che purtroppo, si sono molto diradati in quantità, per dare accesso alle strade e ai passaggi laterali che,nel frattempo, sono stati edificati. Quel Ristorante esiste tuttora e, al tempo del racconto, era stato inaugurato da pochi anni.




C'era ancora tempo per l'ora di pranzo, e quindi, anzichè fermarsi, pensò bene di proseguire dritto in direzione del Parco Cipelletti di Villa Ghirlanda. Ne volle approfittare per andarsi a documentare su quel parco, in vista degli articoli che avrebbe dovuto scrivere sui grandi parchi privati lombardi, che stavano per essere lentamente acquisiti dai comuni, onde metterli a disposizione della popolazione.



Non fu semplice, per lui, distrarsi in quel modo. Anche se andava là per documentarsi, la considerava comunque una divagazione ed un venir meno ai propri doveri professionali. Essendogli avanzato parecchio tempo, dopo quel servizio a Monza, avrebbe dovuto proseguire dritto per Milano, alla sua redazione, dove lo attendeva una mole di lavoro arretrato. Ma il sole chiaro di quella mattina, che aveva illuminato angolini nascosti del suo animo e del suo passato, gli fecero sentire l'acuta nostalgia del fogone (dalle parti di Parma, è il marinare la scuola).


Risentiva improvvisamente il gusto per i piaceri semplici, sani e onesti della sua prima giovinezza. La primavera aveva riscaldato le sue vecchie ossa ed era una primavera di tanti anni fa. Decise allora di considerare quella scappatella come un fogone, una bigiatura di scuola come quelle che faceva tanti anni prima.



Fermò l'auto al parcheggio, e, fatti pochi passi, si trovò di fronte a una enorme e antica cancellata in ferro battuto. Oltrepassò la piccola radura circolare di alberi pregiati, dietro la quale faceva bella mostra un'ampia scalinata di sapore antico e il grandioso portico d'ingresso alla villa, e, svoltato a sinistra, si inoltrò per andare verso l'accesso al parco.



Incamminatosi per quel vialetto, giunse alle spalle della villa, di bellezza superiore alla facciata, dove, un grande tappeto erboso, disseminato di piccole siepi cespugliose, ben disposte e ben curate, gli si parava di fronte. Era un giorno lavorativo di maggio inoltrato, un giorno di scuola, e non si vedeva quasi anima viva. Girò per quasi tutto il parco, senza aver visto un solo ragazzo. Ai suoi tempi, quando andava al liceo, in una giornata simile avrebbe incontrato parecchi ragazzi bigioni, nel parco ducale della sua Parma. Con un sole come quello, trovò quindi strano che nessuno bigiasse la scuola. A meno che, gli venne un sospetto, costoro non avessero cambiato abitudine e, anzichè imboscarsi nel parco, andavano a rifugiarsi da altre parti. Girovagò per un po', fino a quando, in fondo al tappeto erboso, nei pressi del bosco, sotto un magnifico tiglio ombroso e profumato, vide un ragazzo seduto e con la schiena appoggiata all'albero. Se ne stava come in meditazione, inclinato di lato e con il gomito destro appoggiato sopra un pacco di libri legati con una cinghia. Si fermò a guardarlo ed egli levò gli occhi sospettosi.



- Hai bigiato eh? - gli disse- Il ragazzo sorrise. Aveva una faccia simpatica e due occhi intelligenti.



- Perchè hai bigiato?


- Sono in pausa di studio: mi piace pensare delle cose. E poi, comunque, non ho bigiato, sono in aspettativa di lavoro. Sono uno studente lavoratore. Di giorno lavoro e la sera vado a scuola. Ho chiesto l'aspettativa dal lavoro, e oggi sono qui, approfittando di questa bella giornata di sole, per prepararmi agli esami di fine anno.



- Non le puoi pensare questa sera a scuola, quelle cose?



- No, le cose che dico io non si possono pensare a scuola.



Lo guardò commosso: - Bravo - gli disse - Ricordati che le uniche cose che ti aiuteranno veramente nella vita saranno quelle che avrai pensato qui, sotto questo cielo favoloso. Perchè se sai osservare, qui tu puoi capire le cose essenziali della vita. Questo sole, fra anni ed anni, ti riscalderà e ti illuminerà nelle ore più buie.



























Autore: Marshall

martedì 9 dicembre 2008

La leggenda del Vischio natalizio

LA TRADIZIONE sulla pianta del vischio

Nell'antichità i druidi usavano il vischio per ottenere infusi e pozioni medicamentose. Nella mitologia norvegese il dio Balder, fu ucciso perché colpito da un ramo di vischio, tutte le altre piante avevano giurato di non recare alcun male al giovane e bellissimo dio, tutte tranne l'umile e innocua piantina del vischio. Il perfido rivale del dio, fece in modo che un vecchio cieco, per gioco colpisse Balder con un rametto di vischio uccidendolo all'istante. In memoria del dio, i norvegesi sono soliti bruciare rami di vischio in prossimità del solstizio d'inverno, con lo scopo di allontanare la sventura e invocare la prosperità ed il benessere.
Probabilmente anche il significato oggi attribuito alla pianta deriva da queste antichissime credenze popolari; siamo soliti, infatti, donare o tenere in casa rami di vischio tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo anno nella speranza di proteggere in tal modo noi stessi, le persone a noi care e la nostra casa dai guai e dalle disgrazie.

LA LEGGENDA CELTICA : La Morte di Balder
Balder, dio della luce, era tormentato dagli incubi. Pur sapendo di essere amato da tutti per la sua bontà e la sua bellezza, ogni notte sognava che qualcuno stesse per ucciderlo. Il padre Odino, dio della guerra, era preoccupato. Così, in groppa al suo cavallo dalle otto zampe, si reco' a Niflheim, la terra dei morti, dove c'era la tomba di Volva, la veggente che conosceva i segreti del futuro. Odino, con le sue arti magiche, la costrinse a uscire dalla tomba e la interrogò. «Presto per Balder si mescerà birra e idromele» rispose Volva, volendo significare che il dio sarebbe morto. Odino domandò come sarebbe avvenuto e Volva disse: «Sarà Hoder, il dio cieco, a ucciderlo». Ritornato tra gli dei, Odino informò la moglie Frigg, madre di Balder, del destino che attendeva il figlio. Frigg partì subito per un lungo viaggio, attraversando tutti i paesi del mondo. A ogni cosa che incontrava faceva giurare di non fare mai del male a Balder Giurarono tutti: l'aria e l'acqua, la terra e il fuoco, le piante, gli animali e le pietre. Solo la pianticella del vischio non giurò. Frigg, infatti, l'aveva ritenuta troppo debole e innocua per costituire un pericolo. In questo modo Balder divenne invulnerabile e ciò fu per gli déi un'occasione di divertimento. Gli tiravano sassi e frecce, lo trafiggevano con le lance, lo colpivano con le spade... Ma nulla poteva ferire il giovane Balder. Solo Loki, dio della distruzione, non partecipava. Egli amava gli scherzi crudeli e quel gioco innocuo non lo divertiva affatto. Così, mutate le sue sembianze in quelle di una vecchia, si recò da Frigg e con l'inganno venne a sapere dalla dea che il vischio non aveva giurato. Allora andò nel bosco e ne prese un ramo che cresceva sul fusto di un melo. Con esso costruì un bastoncino dalla punta affilata, quindi si recò all'assemblea degli dei. Come al solito gli dei erano impegnati nel gioco di colpire Balder. Loki si avvicinò al cieco Hoder e gli porse il bastoncino di vischio. «Prova a colpire Balder con questo» gli disse. Hoder replicò: «Come posso colpirlo se neppure lo vedo?» Ma Loki lo rassicurò: «Non temere, guiderò io la tua mano». Hoder lanciò il bastoncino e colpi Balder. Il vischio penetrò nelle sue carni e lo uccise.
Tratto da "Miti e leggende di tutti i tempi" - editore HAPPY BOOKS

Note: Frija, Freya, chiamata anche Frigg nella mitologia scandinava.
È la moglie di Wotan. Protettrice dell'amore, dell'unione sessuale e della fertilità.
Il suo nome sopravvive in inglese nel termine Friday (Frigg's-day).
Narra la leggenda che Balder, morendo, cadde su un cespuglio di agrifoglio, spruzzandolo di sangue, mentre le lacrime di Frigg si trasformarono in perle che rimasero per sempre ad ornare la pianta del vischio. (da Terre Celtiche)


LA LEGGENDA CRISTIANA
La leggenda del vischio, viene più ingentilita ed emendata nella tradizione cristiana sotto forma di "favola di morale". Così la narrano, ad esempio, nel Trentino-Alto Adige.

"Una volta, in un paese tra i monti, un vecchio mercante. L'uomo viveva solo, non si era mai sposato e non aveva piu' nessun amico. Per tutta la vita era stato avido e avaro, aveva sempre anteposto il guadagno all'amicizia e ai rapporti umani. L'andamento dei suoi affari era l'unica cosa che gli importava. Di notte dormiva pochissimo, spesso si alzava e andava a contare il denaro che teneva in casa, nascosto in una cassapanca. Per avere sempre piu' soldi, a volte si comportava in modo disonesto e approfittava della ingenuita' di alcune persone. Ma tanto a lui non importava, perche' non andava mai oltre le apparenze.Non voleva conoscere quelli con i quali faceva affari. Non gli interessavano le loro storie e i loro problemi. E per questo motivo nessuno gli voleva bene.Una notte di dicembre, ormai vicino a Natale, il vecchio mercante non riusciva a dormire e dopo aver fatto i conti dei guadagni, decise di uscire a fare una passeggiata.Comincio' a sentire delle voci e delle risate, urla gioiose di bambini e canti.Penso' che di notte era strano sentire tanto chiasso in paese. Si incuriosi' perche' non aveva ancora incontrato nessuno, nonostante voci e rumori sembrassero molto vicini. A un certo punto comincio' a sentire qualcuno che pronunciava il suo nome, chiedeva aiuto e lo chiamava fratello. L'uomo non aveva fratelli o sorelle e si stupi'. Per tutta la notte, ascolto' le voci che raccontavano storie tristi e allegre, vicende familiari e d'amore. Venne a sapere che alcuni vicini erano molto poveri e che sfamavano a fatica i figli; che altre persone soffrivano la solitudine oppure che non avevano mai dimenticato un amore di gioventu'.Pentito per non aver mai capito che cosa si nascondeva dietro alle persone che vedeva tutti i giorni, l'uomo comincio' a piangere. Pianse cosi' tanto che le sue lacrime si sparsero sul cespuglio al quale si era appoggiato.E le lacrime non sparirono al mattino, ma continuarono a splendere come perle. Così era nato il vischio".




Verde naturale coi suoi frutticini bianchi e ...vischiosi che gli uccelli adorano e che concorrono a inseminare da un tronco d'albero all'altro, oppure dipinto in oro e ornato di nastri, il vischio è, con l'agrifoglio e il pungitopo (foto piccola a sinistra), la pianta tradizionale dei nostri Natali e Capodanni, per ornare porte e portali, centri-tavola e per tante altre decorazioni creative. Non ultimo, anche per propiziare giorni sereni e fortunati dell'anno entrante.
Hesperia

sabato 29 novembre 2008

La Dark Lady nel cinema della prima metà del '900

Nel 1900 ritroviamo alcune incarnazioni privilegiate della Dark Lady, note anche alla più leggera cultura popolare. Molto è dovuto al nuovo divismo dello spettacolo, inaugurato dal cinema, e alla nuova cultura di massa delle immagini. Il modello mitico-simbolico e letterario si incarna in alcune figure del cinema, per pellicole esemplari come 'oggetto film', ma che talora triturano testi alti, eredità pittorica, schemi letterari più articolati trasformandoli in sceneggiature, fornendone una vulgata affascinante ancorché semplificata. Il modello di dark lady del muto vira spesso verso il tema donna fatale, è contaminato dal melodramma, ha ancora molti debiti con il Decadentismo, vista anche la vicinanza cronologica con il movimento artistico e la sensibilità dell'epoca, nonché il susseguirsi di Secessione, Liberty, Art Nouveau: la partecipazione spesso degli stessi autori letterari (e pittori-scenografi) ad alcune sceneggiature, didascalie o produzioni, ne aumenta l'influenza. Il caso più eclatante fu D'Annunzio e il film Cabiria, del 1914, diretto da Giovanni Pastrone su un soggetto tratto in parte da Emilio Salgari 'Cartagine in fiamme', e dal crudele e prezioso 'Salammbô' di Gustave Flaubert. Si può dire che per metà il nostro cinema muto è dannunziano, mentre l'altra metà è di matrice naturalistico-verista. Di conseguenza le divine e fatali bellezze italiane incarnano questa tipologia, al di là dei numerosi generi. Il divismo italiano del cinema delle origini ha parecchie personalità di talento, le maggiori delle quali, Lyda Borelli (foto piccola a sinistra) e Francesca Bertini . Il muto italiano è ancora abbastanza indipendente dal modello americano (che avrà una sua idea di dark lady legata ai polizieschi anni '40). Anzi, sarà proprio David W. Griffith ad affermare di avere imparato molte idee e tecniche dalle maestranze italiane (Cabiria di Pastrone ispira "Intolerance" e Il Giglio infranto' di Griffith. Quest'ultimo, sarà un melodramma cupo, laddove la donna (Lilian Gish) gioca il ruolo dell' angelo-vittima. Lyda Borelli rivoluziona la recitazione e il rapporto del gesto con lo spazio scenico esasperando l'espressività (il proverbiale aggrapparsi alle tende con gli occhi pieni di bistro in primo piano): nel suo 'essere fatale' agisce un sistema simbolico fittissimo, di forme facili di Simbolismo e Decadentismo, di pose preraffaelite, in relazione con l'immaginario creato da Alphonse Mucha e Marcello Dudovich, con forme e le pose tipiche della plasticità dei gioielli e delle figure di René Lalique di cui si è già occupata Aretusa. Le torsioni floreali di una natura in costante metamorfosi come quella raffigurata nei lavori di Louis Confort Tiffany o la sinuosità delle statue dell'Art Nouveau in generale.
Tra i titoli dei film fatali della Borelli: 'Fior di male' del 1915, e 'Malombra' 1916 di Carmine Gallone, 'Rapsodia Satanica' nel 1915 di Nino Oxilia, in cui gli elementi ricorrenti sono dannazione, vicende torbide, che in un clima pop dannunziano paiono spaziare in un maledettismo della letteratura che stava ormai diventando di genere.



Attrice d'impostazione più teatrale, Francesca Bertini (foto piccola a destra) accentua una recitazione più personale nell' 'Histoire d'un Pierrot' (1913) di Baldassarre Negroni, è passionale e veristica in 'Assunta Spina' (1915) di Gustavo Serena, melodramma con accenti neri e catarsi-redenzione finale. Girerà anche "La Signora delle Camelie" (1915) e una serie di film in capitoli ispirati ai 'Sette peccati capitali' di Eugène Sue, in cui...i peccati vengono sondati uno ad uno.Vanno segnalate, ad accentuare simili temi, tra le altre meno note, Pina Menichelli, interprete dannunziana nel famoso film 'Fuoco' di Giovanni Pastrone del 1916,ma anche 'Tigre Reale' (da Verga), 'Più forte dell'odio e dell'amore', 'Il giardino delle voluttà', 'La colpa', 'Malafemmina'; si aggiungono Hesperia in 'La Signora delle Camelie' del 1915.
E' ricorrente l'alone di maledettismo ed erotismo di queste figure femminili (donne tentatrici di fronte a uomi imbelli in preda a debolezze causate da rovelli esistenziali) collocate in scenografie sovraccariche di simboli e riferimenti, che richiedevano un lavoro e uno studio complesso, spesso artigianale, tra didascalie accurate e altisonanti, e fotogrammi in origine anche a colori imbibiti a mano.Un mondo immaginario e prezioso che verrà letteralmente spazzato via dalla Ia Guerra Mondiale.
Un protogotico italiano sonoro sarà "Malombra", 1942, di Mario Soldati, film suggestivamente calligrafico tratto dall'omonimo romanzo di Fogazzaro, con Isa Miranda. Così come nel versante in parte neorealista, sonoro, va citata la brava Clara Calamai in Ossessione di Luchino Visconti (1943) , tratto dal romanzo di James M. Cain ('The Postman always rings twice')dopo la sua prova-choc a seno nudo nella "Cena delle beffe" di Alessandro Blasetti (1941). Negli USA, per il cinema muto Theda Bara (anagramma della parola Arab Death) una delle prime vamp del nascente cinema americano.
In Germania anche il cinema muto delle origini si muove all'interno di alcune tendenze apparentate con altri settori della cultura del tempo: il Kammerspiel (teatro da camera), la Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) e l'Espressionismo, che di tematiche 'nere' erano assai fecondi (Wiene e Fritz Lang). C'è W.G.Pabst (che lanciò Greta Garbo nella Via senza gioia del 1925), che firma due grandi film: "Il Vaso di Pandora" (1928) e "Diario di una ragazza perduta" entrambi con la femme fatale Louise Brooks (foto a sinistra) che incarna alla perfezione l'innocente-perversa Lulù di Frank Wedekind. La pettinatura dal celebre caschetto nero e i due tirabaci sulle guance della Brooks, ispirò Guido Crepax per il suo celebre fumetto erotico Valentina.


Joseph Von Sternberg emigrò presto in USA, fu artefice di memorabili film che diedero vita alla sua creatura Marlene Dietrich. Von Sternberg fece esordire Marlene ne l''Angelo Azzurro" del 1930, unico film diretto in Germania (dal romanzo di Heinrich Mann) che narra la tragica storia del professor Rath, insegnante di un ginnasio di provincia, che si innamora di una spietata cantante di varietà dai facili costumi, fino alla perdita totale della sua umana dignità. Marlene Dietrich (a destra) di solito si presenta nei film sternberghiani come donna indipendente, sensuale, androgina. Venere Bionda, 1932, L'imperatrice Caterina, 1934, e Capriccio spagnolo, 1935 completano l'opera. La sua eccentricità, un filo di acidità e sadismo nei confronti degli uomini lasciano una singolare traccia nello star system hollywoodiano. Un'altra "topica" delle femmes fatales è la spia Mata Hari, di cui ci diede una famosa versione Greta Garbo, in un tema già sfruttato a lungo nel cinema muto; ma la Garbo non amava concentrarsi più di tanto nei ruoli 'fatali' troppo sadici o demoniaci come spesso tentò di far capire. Sebbene ne "La carne e il diavolo" (film muto) di Clarence Brown accanto a John Gilbert fosse stata utilizzata anche in questa veste. Negli anni '40 del cinema americano assistiamo a una sorta di 'borghesizzazione' della figura della dark lady. Non più castelli o dimore decadenti in un passato indefinito medievale o ottocentesco, ma la grande città contemporanea. Esemplificativo potrebbe essere in parte il dipinto "Nighthawks" (1942) di Edward Hopper.In questa fase sono infatti protagonisti il film e il romanzo nero legati alla contemporaneità. Il film noir anche se ha ancora debiti con il gotico, con una parte della cultura francese, inglese, americana, in realtà nasce per la maggior parte dal romanzo poliziesco di W.R. Burnett, James M. Cain, Raymond Chandler, James Hadley Chase, James Ellroy, David Goodis, Dashiell Hammett, Patricia Highsmith, Mickey Spillane, Cornell Woolrich alias William Irish. Il noir è un aspetto più sottilmente inquietante del giallo: stravagante, irrazionale, non simmetrico e spesso senza consolatorio happy ending né svelamento del mistero o enigma. C'è poi la variante hard boiled, con la sua violenza cieca, un buon numero di morti, in uno sfondo di corruzione e di disastro sociale, di malattia della vita e cultura urbana, spesso critica feroce alla degenerazione del potere e con tratti iperrealistici. La città rappresentata, fotografata nei film noir si fa a sua volta personaggio: i toni forti in cui è rappresentata sono debitori delle numerose maestranze tedesche post-espressioniste rifugiatesi negli USA. Lo spazio è spesso claustrofobico, le linee sono verticali, asimmetriche, la narrazione usa spesso il flashback, trasformazione del tempo filmico in tempo irrimediabilmente perduto (cfr: Giorni perduti film di Billy Wilder). La città nel noir, nella cultura a base biblica americana, è quasi sempre il Regno di Caino (cfr. Gen 4:17), un mondo di condannati quindi. Nel nero in cui si muovono le dark ladies americane, s' incontrano melodrammi a tinte fosche fatti di avidità di denaro, di psicologismo freudiano, segnato dall'ambivalenza, dall'insicurezza, dall'impossbilità di recuperare l'ordine razionale. Il mistero del nero di questo periodo del cinema è tanto all'esterno quanto all'interno dell'anima di ciascuno. Il noir dell'epoca è suddivisibile in 3 fasi:


1) dal 1941 al 1945 circa, dell'investigatore privato di Chandler, Hammett e Greene, con attori come Humphrey Bogart, attrici come Laureen Bacall dalla voce roca e dalla sguardo felino soprannominata " The Look" (lo sguardo) o Veronica Lake, di registi raffinati come Michael Curtiz, con predominanza della parola sull'azione.

2) ha maggiore realismo, coincide col dopoguerra 1945-1949, predomina la rappresentazione della delinquenza per le strade, il potere della polizia, la corruzione politica, c'è predominanza dell'azione sulle parole. Ci sono personaggi sempre meno romantici, e un maggior realismo nella scena.

3) va dal 1949 al 1953 circa: psicosi, impulsi suicidi, follia non più spiegabili o giustificabili che paiono segnalare l'assurdo della vita moderna, la purificazione impossibile. C'è una progressiva incisività estetica.

In questo senso vanno segnalati alcuni film e rispettive dark ladies."Ombre Malesi" (1940) di William Wyler, con Bette Davis, attrice di straordinaria intensità ed espressività, utilizzata spesso nel ruolo di canonica "perfida" o allumeuse capricciosa.
"Il mistero del falco" 1941 di John Huston, con Mary Astor e Humphrey Bogart, dal romanzo di Dashiell Hammett. Film leggendario in cui un intero mondo va in cerca della statuetta del falcone d'oro (falso).
"Il grande sonno" 1946, di Howard Hawks, è un noir dalla trama pressoché ingarbugliata ma dalle suggestive atmosfere, tratto da Raymond Chandler, col detective Philip Marlowe (il mitico Bogey) e Lauren Bacall (qui a sinistra) nel ruolo di una ragazza "per male" dell'ambiente statunintense "bene". Nel casting compare anche Dorothy Malone.


La fiamma del peccato" (Double Indemnity) 1944, di Billy Wilder, sceneggiato da Raymond Chandler, tratto da una novella di James M. Cain, pellicola noir del genere "dramma assicurativo", con Barbara Stanwyck nel ruolo della perfida Phyllis Dietrichson, un'avventuriera senza scrupoli, arrivista delittuosa che afferma rivolgendosi a Fred Mc Murray, l'assicuratore suo amante che istigherà all'assassinio del proprio marito: "No, io non ti ho mai amato, non ho mai amato nessuno. Sono guasta dentro".
Gene Tierney (foto in alto al centro del post) in "Femmina folle" (1945) di John M. Stahl, è bella, iperpossessiva, psicotica e arriva ad uccidere per catalizzare su di sé tutte le attenzioni del marito. Quindi si butta dalle scale per abortire nel timore che il bambino di cui è in attesa le sottragga parte dell'affetto del consorte. In "Vertigine" (Laura nell'originale - 1944), di Otto Preminger con Gene Tierney, c'è un clima onirico e sospeso.

"La donna del ritratto" 1945, di Fritz Lang, con Joan Bennett, (e poco dopo anche "Scarlett street") in cui l'elemento dell'attrazione per la femme fatale vista in un quadro e poi incontrata dal vero causerà al tranquillo protagonista una serie di guai. Il noir progrediva anche con film geniali quali , e "I gangsters" di Robert Siodmak con Burt Lancaster e Ava Gardner nel ruolo della bella quanto malvagia Kitty, e dello stesso regista "Lo specchio scuro" 1946 con Olivia de Havilland in una parte psicotica.
Rita Hayworth, cantante vamp nel noir di Charles Vidor (1946) che ha come sfondo un casinò di Buenos Aires frequentato da spie d'ogni nazionalità è "Gilda" per sempre. Ma nel capolavoro "La Signora di Shangai", un noir del '47 girato insolitamente in esterni sullo yacht dell'attore Erroll Flynn, dal regista-attore Orson Welles, già marito della Hayworth, provvederà a tagliarle la lunga chioma fulva, per trasformarla in una gelida dark lady dai capelli corti e biondi: Elsa Bannister. Una sorta di donna-ragno indecifrabile come gli ideogrammi di quella lingua cinese che conosce, e come la ragnatela mortale che tesse nel labiritnto finale e nella sala degli specchi. "Il postino suona sempre due volte" di Tay Garnett dal romanzo di James Cain - 1946, con Lana Turner, nell'indimenticabile scena del rossetto, la quale diventerà poi una specialista in ruoli ambigui e passionali, è la versione americana di Ossessione di Visconti. Detto "Postino" verrà ripreso in seguito molti anni dopo con gli intepreti Jack Nicholson-Jessica Lange, in coppia diabolica.
"Il grande caldo" del 1953, di Fritz Lang con una riflessione sul lato oscuro e sulla doppia natura in ognuno di noi, personificata da Gloria Grahame, che appare con metà viso bellissimo e l'altra metà, sfregiato. Poi c'è Veronica Lake (a destra) la bionda dalla celebre capigliatura ondulata, lunga, con una ciocca morbida che le scende voluttuosamente sull'occhio malandrino (ripresa molti anni dopo poi da Kim Basinger in L.A. Confidential) che interpreta
"La chiave di vetro" di Stuart H, in coppia "fuorilegge" con Alan Ladd.
"Il Caso Paradine" di Alfred Hitchcock,1947 con la nostra Alida Valli, femme fatale dai grandi occhi chiari, già apprezzata nella spy story nera "Il terzo uomo" di Carol Reed, qui nel ruolo di un'avvelenatrice.
"Un bacio e una pistola" (Kiss me deadly- 1955), è un altro affascinante noir di Robert Aldrich, dal racconto di Michael Spillane, che, per atipicità, fa il paio insieme a "L'infernale Quinlan" di O.Welles. Il detective Hammer fa salire nella sua auto un'autostoppista, Cloris Leachman. La donna sembra alla ricerca sempre di chissà che cosa, ma...Malviventi li speronano e li fanno uscire di strada. Quando Hammer si sveglia sente che la donna viene torturata. Hammer segue il caso, ma scoprirà che il motivo della contesa è in una valigetta che contiene ....materiale radioattivo pericolosissimo. Qui, la dark lady finirà per distruggere il mondo, nella sua esasperata volontà di dominio.


Autore: Josh

lunedì 24 novembre 2008

Dark Lady, signora delle Tenebre

Questa conturbante idea di donna proviene da lontano, è un simbolo che attraversa arti, letteratura e vari settori della cultura come un τόπος che si evolve con minime varianti e ricompare in innumerevoli incarnazioni.
L'intento è abbozzare brevemente solo uno dei tanti percorsi possibili, senza pretese esaustive, dato il campo sconfinato.
Chi ha formazione principalmente letteraria non potrà non ricordare dai Sonetti di Shakespeare
i componimenti dal 127 al 152 dedicati alla misteriosa dark lady.
Si apre così, come l'introduzione a un'estetica rivoluzionaria, il 127 qui un commento, e qui l'opera



"In the old age black was not counted fair,
Or if it were, it bore not beauty's name;
But now is black beauty's successive heir,
And beauty slandered with a bastard shame"

Un tempo non aveva grazia il nero,
o di beltà il nome non portava;
ma ora è il nero di beltà vero erede,
da onta bastarda infamata


Molte sono state le ipotesi sull'identità vera e simbolica della Dark Lady shakespeariana, a partire dal concetto della "bellezza oscura" già presente nel Cantico dei Cantici,
con cui sono possibili collegamenti ulteriori alla classicità antica, ripresa poi nel Rinascimento e nelle fasi più eccessive del Barocco.
Il tratto evidente in tutta la tematica anche successiva rimane la presenza nel personaggio di un'oscurità interiore, dell'anima, uno degli elementi ricorrenti delle dark ladies di tutti i tempi,
unito a un richiamo esplicito all'amore-passione peccaminoso cui non ci si può opporre, al torbido inganno e alla morte (comprese la dannazione dell'uomo, e la minaccia di fine della vita).
Frances A. Yates ("The Occult Philosophy in the Elizabethan Age", London, 1979, trad. "Cabala e Occultismo nell'età elisabettiana", To 1982) scorge una simbologia esoterica legata alla filosofia occulta, nei Sonetti: riflessi magici e alchemici sono depositati nei testi su questa donna in nero, forse vera e propria personificazione della stessa sapienza arcana.
La dama in nero shakespeariana è un simbolo, e insieme una complexio oppositorum, (già nel linguaggio nei Sonetti sulla dark lady si trova lessico esasperato, elementi di passionalità stridente, ossimori, tanto che Wordsworth li giudicò "abominevolmente aspri, oscuri"): è una figura in parte demonica, incarnazione della donna come indomabile potenza ctonia e selvaggia che ricorda la "prima materia" delle discipline alchemiche (C.G. Jung "Psicologia e Alchimia" To 1981 pag. 333; e T. Burckhardt "Alchimia, Significato e visione del mondo" Guanda, Milano 1981, pp.89).
Il gioco concettuale oltre che linguistico dei paradossi bello/brutto, onesto/perverso, luce/tenebra si ritrova come tema anche nel Macbeth (I, 1,11: "Fair is foul and foul is fair" ovvero il Bello è Torbido e il Torbido è Bello, proprio enunciato dalle streghe all'inizio dell'opera. Di alcune donne dice anche Re Lear IV, 6 "Dalla vita in giù sono centauri, sebbene al di sopra siano donne; solo fino alla cintola sono razza degli Dei, la parte di sotto è tutta del Diavolo" (non me ne vogliano le signore frequentatrici e autrici del blog). Shakespeare ha creato inoltre altri personaggi abbeverandosi a questi contenuti, da Lady MacBeth alla stessa sua rilettura di Cleopatra.

E' chiaro dunque che ci troviamo dinanzi ad un archetipo. L'insieme dei temi si riallaccia all'idea di eterno femminino rappresentata da figure simboliche ancestrali antiche come la storia del mondo, per esempio Lilith, demone nella tradizione mesopotamica, apportatrice di disgrazie e morte. Ritroviamo Lilith anche nell'Ebraismo: nella Cabala è la supposta prima moglie di Adamo, prima di Eva, demone femminile, stregonesco a volte rappresentata come civetta. Ancora Lilith è la Luna Nera in astrologia, la Dark Side of the Moon. Nel Talmud è ancora una volta lo stesso sinistro personaggio.
In Genesi, nella Bibbia, Eva stessa, nell'attrazione verso l'Ybris della Disobbedienza, ricalca in qualche modo la duplicità, nella Caduta del genere umano che sarà poi redenta solo da Gesù Cristo nella pienezza dei tempi. Sempre nella Bibbia, Dalila (Libro dei Giudici) che priva del suo potere Sansone tagliandogli i capelli dopo averlo distolto dal suo voto di nazireato e Salomè (nel NT, Vangelo di S. Marco) che vorrà la testa di San Giovanni Battista.

Parentele ideali nelle funzioni simboliche di queste inquietanti incarnazioni del femminile si possono trovare con Ishtar, divinità di amore-creazione e guerra-distruzione nel mito mesopotamico, affine a Inanna divinità sumera: in entrambe è presente una doppiezza tra funzione mitica di femminilità benefica che porta amore, nascita, terra nutrice, vegetazione, quindi una sorta di Natura Naturans e di Grande Madre e il suo opposto, distruzione, guerra, morte e tempesta.
Ma è in termini meno cosmici la stessa ambiguità della Venere alta e della Venere bassa, del sublime d'en haut e sublime d'en bas, nella lotta tra Eros e Thanatos, eterni poli dell'amore e della nostra esistenza.
Ancora Calipso che rende schiavo Odisseo, la maga Circe che trasforma gli uomini in maiali, le Sirene che incantano e ipnotizzano, o con un balzo temporale le figurazioni medievali della tipologia della "strega" e "maga", fino alla mitica Morgue la Fée (Morgana) in Geoffrey de Monmouth, o in seguito in Chrétien de Troyes.

In età romantica, avremo "La belle dame sans merci" di John Keats (che devitalizza gli uomini facendoli 'pallidi come la morte') come Hesperia ha ricordato nel post su Mario Praz "La carne, la morte, il diavolo" .
Ma abbiamo anche Lamia, o Matilda nel "Monaco" di Matthew Gregory Lewis, Juliette del Marchese De Sade, la 'Venere in Pelliccia' di Leopold von Sacher-Masoch, Ligeia in Edgar Allan Poe, Baudelaire e la donna demoniaca , ma anche l'italiana Fosca di Iginio Ugo Tarchetti e la Lupa di Verga.

Gran parte del decadentismo (detto da Praz secondo Romanticismo) fissa la propria attenzione su questo tipo di donna con diverse sfumature, per approfondire il tema: talvolta si tratteggia il carattere nero, "dark", gotico, altre volte il comportamento doppio, o selvaggio e i fini malvagi; talvolta con il ricomparire nella letteratura nera del tema del vampirismo viene tratteggiata la figura della Vamp (abbreviazione per Vamp-ira/Vamp-iress) variante del tema,
come la, esteticamente meno orrorifica, ma non meno pericolosa per ciò che le si agita nel cuore, femme fatale, che sarà in un certo senso la vera protagonista della Secessione viennese, con i suoi lussi e lussurie, lascivie dorate e sguardi ipnotici, per esempio in Gustav Klimt.
Alla galleria di concetti e figurazioni letterarie, appena sfiorati fin qui, corrisponde un altrettanto fertile apparato iconografico in tutta la storia della pittura, che si trasferisce presto nel cinema e nell'immaginario popolare già ai tempi del muto, nello spettacolo in genere, argomento che sarà trattato nella parte 2 del post in seguito.

Segnalo anche un dipinto a mio avviso abbastanza 'riassuntivo' di quanto detto, ad opera del suggestivo Franz von Stuck "Il Peccato"(Die Sünde), 1893 e più in alto al centro dello stesso autore: Salomé (fine della prima Parte)





autore: Josh

domenica 16 novembre 2008

UN MONDO IN FRANTUMI

Aleksandr Solzenicyn se ne è andato il 3 agosto 2008, e la notizia della sua morte, in Italia è scivolata via senza destare quasi clamore.
Eppure questo grande vecchio, dallo sguardo tormentato di chi ha visto troppo, è stata una figura epocale, uno di quegli uomini che scendono sulla terra, per regalare all’umanità una conoscenza più profonda.

Attraverso la sua opera letteraria intrisa di dolore, denuncia e passione rivelò al mondo l’orrore dei gulag, i campi di lavoro sovietici e cancellò l’utopia comunista, smascherandone la natura totalitaria e sanguinaria. Fu insignito del Nobel per la letteratura nel 1970, fu esiliato e visse lontano dalla sua terra in Germania, Svizzera e Stati Uniti. Una vita rocambolesca che attraverso la sua storia e la sua opera, testimonia la libertà irriducibile di ogni uomo.
Ma seppe anche anticipare il "male oscuro" dell'Occidente, capì che quando la libertà diventa irresponsabile cade ogni barriera contro gli abissi del decadimento umano.
Nel 1978 ad Harvard davanti a un enorme pubblico, parlò lucidamente della deriva di una società che fa di ogni sua pulsione un diritto, e che lentamente si avvia verso la sua autodistruzione.
E infatti dopo aver letto parte del suo discorso che ho trovato attualissimo che ho deciso di ricordarlo con questo scritto.
LIBERTÀ: DELL'IRRESPONSABILITÀ?
In conformità ai propri obiettivi la società occidentale ha scelto la forma d’esistenza che le era più comoda e che io definirei giuridica. I limiti (molto larghi) dei diritti e del buon diritto di ogni uomo sono definiti dal sistema delle leggi. A forza di attenersi a queste leggi, di muoversi al loro interno e di destreggiarsi nel loro fitto ordito, gli occidentali hanno acquisito in materia una grande e salda perizia (ma le leggi restano comunque così complesse che il semplice cittadino non è in grado di raccapezzarcisi senza l’aiuto di uno specialista). Ogni conflitto riceve una soluzione giuridica, e questa viene considerata la più elevata. Se un uomo si trova giuridicamente nel proprio diritto, non si può chiedergli niente di più. Provate a dirgli, dopo la suprema sanzione giuridica, che non ha completamente ragione, provatevi a consigliargli di limitare da se stesso le sue esigenze e di rinunciare a quello che gli spetta di diritto, provatevi a chiedergli di affrontare un sacrificio o di correre un rischio gratuito… vi guarderà come si guarda un idiota. L’autolimitazione liberamente accettata è una cosa che non si vede quasi mai: tutti praticano per contro l’autoespansione, condotta fino all’estrema capienza delle leggi, fino a che le cornici giuridiche cominciano a scricchiolare. (…)Io che ho passato tutta la mia vita sotto il comunismo affermo che una società dove non esiste una bilancia giuridica imparziale è una cosa orribile. Ma nemmeno una società che dispone in tutto e per tutto solo della bilancia giuridica può dirsi veramente degna dell’uomo. Una società che si è installata sul terreno della legge, senza voler andare più in alto, utilizza solo debolmente le facoltà più elevate dell’uomo. Il diritto è troppo freddo e troppo formale per esercitare un’influenza benefica sulla società. Quando tutta la vita è compenetrata dai rapporti giuridici, si determina un’atmosfera di mediocrità spirituale che soffoca i migliori slanci dell’uomo. E contare di sostenere le prove che il secolo prepara reggendosi sui solo puntelli giuridici sarà per l’innanzi sempre meno possibile.

È ora che affermiate i vostri doveri.
Nella società occidentale di oggi è avvertibile uno squilibrio fra la libertà di fare il bene e la libertà di fare il male. Un uomo politico che voglia realizzare, nell’interesse del suo paese, una qualche opera importante, si trova costretto a procedere a passi prudenti e perfino timidi, assillato da migliaia di critiche affrettate (e irresponsabili) e bersagliato com’è dalla stampa e dal Parlamento. Deve giustificare ogni passo che fa e dimostrarne l’assoluta rettitudine. Di fatto è escluso che un uomo fuori dell’ordinario, un grande uomo che si riprometta di prendere delle iniziative insolite e inattese, possa mai dimostrare ciò di cui è capace: riceverebbe tanti di quegli sgambetti da doverci rinunciare sin dall’inizio. Ed è così che col pretesto del controllo democratico si assicura il trionfo della mediocrità. Per contro è cosa facilissima scalzare l’autorità dell’Amministrazione, e in tutti i paesi occidentali i poteri pubblici si sono considerevolmente indeboliti.
La difesa dei diritti del singolo giunge a tali eccessi che la stessa società si trova disarmata davanti a certi suoi membri: è giunto decisamente il momento per l’Occidente di affermare non tanto i diritti della gente, quanto i suoi doveri.
Al contrario della libertà di fare il bene, la libertà di distruggere, la libertà dell’irresponsabilità, ha visto aprirsi davanti a sé vasti campi d’azione.
La società si è rivelata scarsamente difesa contro gli abissi del decadimento umano, per esempio contro l’utilizzazione delle libertà per esercitare una violenza morale sulla gioventù: si pretende che il fatto di poter proporre film pieni di pornografia, di crimini o di satanismo costituisca anch’esso una libertà, il cui contrappeso teorico è la libertà per i giovani di non andarli a vedere. Così la vita basata sul giuridismo si rivela incapace di difendere perfino se stessa contro il male e se ne lascia a poco a poco divorare.
E che dire degli oscuri spazi in cui si muove la criminalità vera e propria? L’ampiezza dei limiti giuridici (specialmente in America) costituisce per l’individuo non solo un incoraggiamento a esercitare la sua libertà ma anche un incitamento a commettere certi crimini, poiché offre al criminale la possibilità di sfuggire al castigo o di beneficiare di un’immeritata indulgenza, grazie magari al sostegno di un migliaio di voci che si leveranno in suo favore.
E quando in un paese i poteri pubblici affrontano con durezza il terrorismo e si prefiggono di sradicarlo, l’opinione pubblica li accusa immediatamente di aver calpestato i diritti civili dei banditi.

La stampa, impenitente guardona
Anche la stampa (uso il termine “stampa” per designare tutti i mass media) gode naturalmente della massima libertà. Ma come la usa?Lo sappiamo già: guardandosi bene dall’oltrepassare i limiti giuridici ma senza alcuna vera responsabilità morale se snatura i fatti e deforma le proporzioni. Un giornalista e il suo giornale sono veramente responsabili davanti ai loro lettori o davanti alla storia? Se, fornendo informazioni false o conclusioni erronee, càpita loro di indurre in errore l’opinione pubblica o addirittura di far compiere un passo falso a tutto lo Stato, li si vede mai dichiarare pubblicamente la propria colpa? No, naturalmente, perché questo nuocerebbe alle vendite. In casi del genere lo Stato può anche lasciarci le penne. Ma il giornalista ne esce sempre pulito. Anzi, potete giurarci che si metterà a scrivere con rinnovato sussiego il contrario di ciò che affermava prima. La necessità di dare un’informazione immmediata e che insieme appaia autorevole costringe a riempire le lacune con delle congetture, a riportare voci e supposizioni che in seguito non verranno mai smentite e si sedimenteranno nella memoria delle masse. Quanti giudizi affrettati, temerari, presuntuosi ed erronei confondono ogni giorno il cervello di lettori e ascoltatori e vi si fissano! La stampa ha il potere di contraffare l’opinione pubblica e anche quello di pervertirla. Così, la vediamo coronare i terroristi del lauro di Erostrato, svelare perfino i segreti della difesa del proprio paese, violare impudentemente la vita privata delle celebrità al grido “Tutti hanno il diritto di sapere tutto” (slogan menzognero per un secolo di menzogna, perché assai al di sopra di questo diritto ce n’è un altro, perduto oggigiorno: il diritto per l’uomo di non sapere, di non ingombrare la sua anima divina di pettegolezzi, chiacchiere, oziose futilità. Chi lavora veramente, chi ha la vita colma, non ha affatto bisogno di questo fiume pletorico di informazioni abbrutenti).
Giornalisti in nome di chi?
È nella stampa che si manifestano, più che altrove, quella superficialità e quella fretta che costituiscono la malattia mentale del XX secolo. Penetrare in profondità i problemi le è controindicato, non è nella sua natura, essa si limita ad afferrare al volo qualche elemento di effetto.E, con tutto questo, la stampa è diventata la forza più dirompente degli Stati occidentali, essa supera per potenza i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Ma chiediamoci un momento: in virtù di quale legge è stata eletta e a chi rende conto del suo operato? Se nell’Est comunista un giornalista viene apertamente designato dall’alto come ogni altro funzionario statale, chi sono gli elettori cui i giornalisti occidentali devono invece la posizione di potere che occupano? E per quanto tempo la occupano? E con quale mandato?
QUI il discorso per intero
Come si può facilmente immaginare in Italia Alexandr Solzenicyn fu osteggiato e censurato, l'élite letteraria rossa lo bollò come una "nullalità sul piano artistico" (Cassola), un "Dostoévskij da strapazzo" (Eco). Ma gli attacchi non furono solo sul piano letterario, Moravia sull'Espresso scrisse che lo scrittore russo è un "nazionalista slavofilo della più bell'acqua".
Insomma, il solito film a cui siamo abituati dal dopoguerra a oggi. La sinistra non ammette critiche, ma non disdegna di ricorrere agli insulti, quando non ha argomenti validi per obiettare.
Aretusa

lunedì 10 novembre 2008

From Marx to Market: il lato oscuro della globalizzazione

Il 9 novembre 1989 è caduto il Muro di Berlino e con esso la fine del comunismo. Molti blogger lo hanno ricordato con opportune immagini. Ma questa, purtroppo, non sarà mai una data da poter ricordare con la stessa esultanza con cui si festeggiò la fine della IIa guerra mondiale e con essa la caduta del nazifascismo. Perchè? Perchè non tutti i muri cadono per portarci gioia e letizia.

1) La caduta del Muro ha dato la stura alla globalizzazione e al mercatismo internazionalista, che è un'altra rivoluzione su scala mondiale.

2) Ha permesso alla Ue di creare e allargare l'area mercantile di Schengen, col risultato che ora insieme ai capitali e alle merci ci sono anche flussi incontrollati di uomini dai vari angoli del pianeta (moldavi, romeni, rom solo dall'Est, migrazioni dal Sud del mondo, ecc.).

3) Dopo la caduta sono subito nati i "transcomunisti", neoconvertiti al mercato unico di un mondo unico.

4) Le etnie tenute insieme con la forza totalitaria e dispotica delle dittature comuniste, hanno dopo la caduta del Muro, ripreso a farsi guerre e guerriglie nei Balcani e nelle ex Republiche socialiste sovietiche (si veda Georgia contro Ossezia e la mai risolta questione cecena in Russia).


Perché nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. E anche il comunismo si è subdolamente trasformato nel passaggio from Marx to Market. Sia Massimo Fini nel suo pamphlet sull'antimodernità "Il vizio oscuro dell'Occidente" (del 2002 e con grande anticipo rispetto alla crisi attuale) che Giulio Tremonti nel capitolo "Il lato oscuro della globalizzazione" del suo saggio "La Paura e la Speranza", sono consapevoli che l'homo oeconomicus è un retaggio delle rivoluzioni industriali inglesi, poi illuministe, poi francesi, poi bolsceviche, e che il "mercatismo" attuale è la faccia ferocemente fondamentalista del vecchio liberalismo-liberismo, con al suo interno qualche costola di marxismo, apportata opportunamente dai transcomunisti e socialisti.
"Il mercatismo, è "utopia-madre della globalizzazione ne è il motore ideologico: i liberali drogati dal successo appena ottenuto nella lotta contro il comunismo; i postcomunisti divenuti liberisti per salvarsi, i banchieri travestiti da statisti (ovvero i cosiddetti "illuminati fanatici"); gli speculatori-benefattori (allusione a Soros e a Bernard Madoff?!), e i più capaci pensatori di questo tempo, gli economisti, sacerdoti e falsi profeti del loro credo". (Giulio Tremonti in La Paura e la Speranza).

Per entrambi, "il Paese dei Balocchi"(Massimo Fini) o "la cornucopia dell'abbondanza" (Tremonti) si è trasformata da sogno in un incubo, il cui uomo, ridotto a Grande Consumatore, a una mera scheggia di PIL, è uomo a taglia Unica dal Pensiero Unico. "Noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre" scrive Massimo Fini " Il meccanismo non è al nostro servizio, ma noi al suo...".

Megabanche, tecno-finanza, universalizzazione e deresponsabilizzazione (due concetti intimamente legati del capitalismo su scala planetaria) slegate da tutto e da tutti , hanno creato il crack delle bolle speculative. La "tempesta perfetta" è partita dalla tecno-finanza, ma andrà ancora avanti con le carte di credito (che in USA sono in realtà, sempre più carte di debito).



"Tutto si è sviluppato dentro la "meccanica perversa" del "meno rischi più guadagni", perché con le nuove tecnologie finanziarie gli operatori, più trasferivano a terzi i loro prodotto, più facevano profitti" . I Subprime, i prestiti a rischio concessi negli USA, impacchettati e fatti circolare per il mondo, sono solo il primo anello di una lunghissima catena di fuga dal rischio e di corsa ai profitti. Una fuga e una corsa fatta di tanti altri strumenti (vehicles, collateralized debt obligations, derivatives, monolines, hedge funds ecc. ). Strumenti diversi tra loro, con un comune denominatore: l'essere operati e operabili fuori da ogni controllo (...) (ancora Tremonti op. cit)




Gli hedge funds non sono nient'altro che banche fuori controllo, la cui regola è di non avere regole.
Ovviamente non è finito il crack della bolla speculativa. O meglio del perverso gioco del "bolla su bolla".
"E' come essere dentro un videogame: arriva un mostro, lo batti, e mentre tiri il respiro ne arriva un secondo. E poi un terzo ancora più grande, e un quarto. Il primo mostro sono stati i mutui e in qualche modo sono stati gestiti. Ora sta arrivando il secondo, le carte di credito, che in America sono carte di debito, e anche questo potrebbe essere gestito. Si sta avvicinando il terzo mostro: i finanziamenti alle imprese, inclusi i corporated bond in scadenza. E sullo sfondo si profila il terzo mostro, i "derivati" (Tremonti al Corriere della Sera - intervista a Mario Sensini del 9 novembre).



Avrete quindi capito che se il Muro di Berlino è caduto, dalle parti di Washington, NY e dintorni di Wall Street (e cioè dal nostro alleato sul fronte "occidentale") c 'è ben poco da rallegrarsi.



Conclude Massimo Fini nel suo pamphlet:

"Lo scontro del futuro non sarà quindi fra destra e sinistra (ndr: infatti la globalizzazione ne azzera le distanze e i significati intrinsecamente ideologici e culturali), fra un liberalismo trionfante e un marxismo morente - questo lo sappiamo. Non sarà nemmeno quello scontro di civiltà fra Occidente e Islam, preconizzato dallo studioso americano Samuel Huntington. Il terrorismo alla Bin Laden sarà con ogni probabilità una parentesi - magari una lunga parentesi - che aiuterà l'Occidente a rafforzare la propria egemonia, a completare il delirio dell'unico modello mondiale, assorbendo, integrando, innocuizzando, distruggendo ogni altra cultura. Non ci saranno guerre di civiltà perché ne rimarrà una sola, la nostra. Ma è all'interno di questa che arriverà lo scontro vero, il più drammatico e violento: fra le élites dominanti fautrici della modernità e le folle deluse, frustrate ed esasperate, di ogni mondo, che non ci crederanno più, avendo compreso alla fine, che lo spirito faustiano, lo spirito dell'Occidente, opera eternamente il Bene ma realizza eternamente il Male.



Dunque più "crepuscolare" la visione di Massimo Fini, seguace di Spengler, più "risorgista" quella di Tremonti che come politico e uomo di governo, non può che cercare d' infondere speranza. La Speranza, non dimentichiamolo, è anche una virtù teologale, e Tremonti è profondamente credente. E la Speranza è quella che perfino gli antichi Greci, lasciarono in fondo al vaso di Pandora, allorché tutti i mali del mondo si riversarono sulla Terra. Ma i punti di partenza tra i due sono molto simili e non poche sono le analogie nell'analisi di un fenomeno inafferrabile come la globalizzazione in atto.

domenica 2 novembre 2008

L'ultima lezione di Randy, sconfiggere la morte raccontando la vita

"Non la battiamo vivendo più a lungo, ma vivendo bene e pienamente, perché ella verrà per tutti noi"- Randy Pausch



Il 2 Novembre è il giorno che i viventi dedicano ai “riti” per i morti. Un giorno l’anno, per i restanti 364 si preferisce scordare la morte, a meno che, questa non irrompa prepotentemente nella nostra vita. La morte spaventa, il solo pensarci, provoca una stretta allo stomaco e scaramantici gesti di “protezione” come toccare ferro.

Eppure la morte può insegnare molto, può insegnare ad apprezzare la vita. Quando ci sfiora e ne sentiamo l’alito gelido sul volto, dopo, tutto ci appare in una nuova prospettiva e ci rendiamo conto di quanto preziosa sia la vita.
Una “lezione” che a volte ci viene impartita da chi sa che morirà presto.
Randy Pausch, un professore di scienze informatiche alla Carnegie Mellon University in Pennsylvania, ha tenuto una lezione per affrontare la morte imminente, raccontando la vita.
Randy aveva 47 anni, la tendenza al sorriso, tre meravigliosi figli, un passato da progettista di realtà virtuale per la Disney e un tumore al pancreas che se lo stava portando via, anche se vederlo sembrava in perfetta salute. Una vita e una morte assolutamente normali, che Paush è riuscito a trasformare in qualcosa che ha toccato le persone e i media e ha fatto il giro del mondo.
Mesi prima quando aveva saputo di non avere speranze s’era domandato quale fosse il modo migliore di lasciare un “testamento spirituale” ai suoi bambini, lui era un professore e così ha scelto di tenere una lezione, è andato davanti ai suoi studenti, alla sua famiglia e davanti alla telecamere ha tenuto la sua ultima lezione. Ovviamente non di informatica e nemmeno, come ci si sarebbe potuto aspettare sulla morte, ma sulla vita. Sul valore della vita, sulla bellezza della vita, sui suoi valori inalienabili, che questa società sembra aver dimenticato, sepolto sotto una cultura nichilista.
In un aula gremita ha parlato di sé, senza vittimismo, armato di coraggio e ironia, deciso a “rinchiudere tutto sé stesso in una bottiglia che un giorno i suoi figli apriranno”.
Per settantacinque minuti si è raccontato, ha fatto ridere il pubblico, lo ha commosso, ha parlato dei suoi genitori, dei loro insegnamenti, dei suoi sogni infantili, di come è cresciuto, di ciò che considerava giusto e di ciò che considerava sbagliato.
Tante piccole perle di buon senso, che alcuni hanno definito banali, dimenticando che la vita per miliardi di persone è banale, ma non per questo immeritevole di essere vissuta o meno appagante.


La bellezza della vita sta nell’apprezzare fino in fondo la sua importanza, nel non dare mai nulla per scontato e soprattutto nel riconoscerne il suo immenso valore da appena si nasce al momento in cui si muore, che per i più fortunati coincide con la vecchiaia. Lottare contro il corso temporale della vita produce solo infelicità, negare il diritto ad esistere ai non “desiderati”, ai “non perfetti”, agli ammalati senza speranza produce solo una spaventosa ingiustizia, che si tenta di far passare per carità, per altruismo. Per una conquista del vivere civile.
Ma una società che si basa su questa cultura è una società sconfitta, una società morente, che dovrebbe imparare dalla lezione di Randy Pausch: un uomo che non si è lasciato trainare dalla sua morte, ma ha trainato la sua vita, fino all’ultimo istante.
Randy è morto 25 luglio 2008, lasciando a tutti noi (e non solo ai suoi bambini) un grande dono: questa lezione che ha fatto il giro del mondo, ed é stata vista da milioni di persone, su ciò che conta veramente negli anni in cui ci é dato di stare su questa meravigliosa, difficile, imprevedibile terra.
Mi sembra giusto ricordarlo, ma non solo oggi. Sempre.

La morte ha sempre avuto un posto importante nell'arte e nelle poesie.

Aretusa

lunedì 27 ottobre 2008

Iperico, male oscuro e Spleen

Arriva l'autunno, le giornate si accorciano, le notti diventano più lunghe dei giorni, gli alberi perdono la chioma e con il morire della stagione, non sono pochi coloro i quali soffrono di un disturbo che i soliti anglosassoni hanno chiamato con la breve sigla di SAD (Seasonal Affective Disorder ovvero Disordine Affettivo Stagionale). Tra le terapie in uso, vi è quella di esporre il paziente sotto forti lampade che ne stimolano la serotonina. Alzi la mano chi non ha mai sofferto di malinconia autunnale, specie dopo il ripristino dell'ora solare. La parola "melanconia" proviene dal greco melas "nero"e konis "polvere" (ovvero bile nera). Una sua variante cristiana è l'accidia, considerato uno dei sette peccati capitali, dato che reca indolenza e indifferenza. Poiché secondo la concezione di Ippocrate la bile nera veniva elaborata dalla milza, concezione rafforzatasi poi durante il Medio Evo fino all'età romantica, da qui la parola spleen (milza), un suggestivo termine impiegato da Baudelaire per indicare l'umor nero. Quattro sono infatti gli Spleen composti dal poeta. E ne citerò solo qua e là qualche frase, tratte da un paio.



(Ja'i plus des souvenirs que si j'avais mille ans).
Ho più ricordi in me che se mille anni avessi.Un grosso mobile a cassetti stipato di bilanci,versi,lettere d'amore,di verbali,di romanze,e di pesanti ciocche di capelli avvolte da quietanze,non nasconde segreti quanto il mio cervello triste:piramide ed immensa tomba,cela più morti che comune sepoltura. Io sono un cimitero dalla luna aborrito,in cui vermi lunghi,come rimorsi,si trascinano e che sempre s'avventano sui morti miei più cari. Sono un vecchio salotto,d'appassite rose ricolmo,dove alla rinfusa le mode sorpassate insieme giacciono...


II - Quando come un coperchio il cielo pesa
grave e basso sull'anima gemente
in preda a lunghi affanni, e quando versa
su noi, dell'orizzonte tutto il giro
abbracciando, una luce nera e triste
più delle notti; e quando si è mutata
la terra in una cella umida, dove
se ne va su pei muri la Speranza
sbattendo la sua timida ala...


Lo spleen, benché stato d'animo d' umor nero, è per Baudelaire la condizione necessaria per pervenire all'Ideale. Nella concezione baudelairiana Spleen et Idéal sono intimamente congiunti.Pare che il poeta soffrisse fortemente di questo "disordine" ma che proprio per questo, ne avesse bisogno per raggiungere le sue sublimi idealità. Questo stato d'animo lo si coglie anche in Spleen di Parigi, suo poemetto in prosa: Allora dimmi, che cosa ti piace, o bizzarro straniero? Io amo le nuvole ...le nuvole che passano...lassù... le nuvole meravigliose.

Eugenio Montale lo chiama il mal di vivere: Spesso il male di vivere ho incontrato/ era il rivo strozzato che gorgolia/ era l'incartocciarsi della foglia/ riarsa, era il cavallo stramazzato.




E' ancora in questa poesia del pittore-poeta Ardengo Soffici che la incontriamo per la "Via".


Palazzeschi, eravamo tre,
Noi due e l'amica ironia,
A braccetto per quella via
Così nostra alle ventitré
..........................

finale

...Ma un organetto un po' sordo
si mise a cantare: Ohi Marì...

E fummo quattro oramai
A braccetto per quella via
Peccato! La malinconia
S'era invitata da sé.




Una poesia che parte scanzonata, ma che nel finale descrive come lo stato d'animo della malinconia crei quasi un effetto-imboscata per chi ne è colpito.



Lo scrittore veneto Giuseppe Berto la descrisse come una discesa agli inferi nel suo "Il male oscuro" e per raffigurarne la nevrosi d'ansia che l'accompagna scrisse il romanzo senza punti né virgole, in un flusso di coscienza ininterrotto. Non ne soffrono solo i poeti e gli scrittori, ma anche gli artisti (pittori, scultori, musicisti). Ne soffrì Michelangelo, Caravaggio, Cellini, Duerer e molti altri. Albrecht Duerer ne fece anche una famosa incisione a bulino dal titolo "La melanconia" (immagine in alto al centro), sulla quale sono state avanzate parecchie ipotesi e chiavi di lettura. Ma secondo la più accreditata, pare voglia indicare una condizione primitiva, come il primo gradino della conoscenza da perseguire in salita, uno stato d'animo di travaglio interiore assimilabile alla notte, alla "nigredo" dell'elemento ctonio (cioè della terra). La donna infatti è cupa in volto e la scritta sul nastro sorretto dal pipistrello sembra indicare proprio questa condizione di "melanosi" e di "nigredo" paragonabile ad uno stato d'animo di pensosità travagliata. E' un tema che ha attraversato anche la pittura moderna dal Rinascimento fino ai nostri giorni. Edward Munch, grande cantore espressionista degli stati d'animo esistenziali (L'Angoscia, L'urlo) ha composto un dipinto intitolato Malinconia (immagine di lato). Un topos ricorrente anche in uno stupendo dipinto di De Chirico che ha colpito non poco l'immaginario collettivo dal titolo "Mistero e malinconia di una strada" (seconda immagine accanto alla poesia di Ardengo Soffici).


Ma certamente per i malinconici, o accidiosi o depressi o affetti dal male oscuro, o come vogliamo chiamarli, non è di conforto né di consolazione sapere che non sono pochi i personaggi famosi afflitti da questo male. In epoche più vicine alla nostra ne soffrirono pure persone di grande successo politico come Churchill, e giornalistico come Montanelli. Esistono rimedi senza dover sconfinare nella zona grigia degli psicofarmaci e sono l'Iperico (pianta di Iperione, il nome greco del Titano padre di Elio-Sole). Grande è pure il valore simbolico di questa pianta dai bei fiori giallo-sole (quel colore della luce che tanto piaceva a un melanconico cronico come Van Gogh). Capace di combattere gli stati depressivi, è anche un potente cicatrizzante. In fondo, a ben rifletterci, è come immettere piccole dosi di sole nel corpo di chi vede buio e non riesce a uscire dall'oscurità. Non di rado dunque anche la medicina e la farmacopea sono fatte di simboli come le arti, la poesia e il linguaggio.