sabato 24 marzo 2018

Givenchy, quando l'abito fa la diva


Quando muore un grande artefice del Novecento, la domanda che ci si pone è sempre la stessa: chi prenderà il suo posto? E sarà alla sua altezza? Parlo di Hubert de Givenchy lo stilista scomparso il 10 marzo scorso. La Maison è andata avanti diretta da altri nomi di prestigio, come Joe Galliano e Riccardo Trisci, più altri tentativi di fusioni. Attualmente è diretta dalla britannica Clare Waight Keller. Il grande couturier  vi rimase a fare il direttore artistico fino al 1995. Ma è inutile ricordare che il meglio della sua produzione artistico-artigianale è già entrata nei musei dedicati alla moda e alla storia del costume. E non a caso, dato che questo grande (era alto quasi 2 metri) gentleman della moda aveva una sua filosofia: «È l’abito che deve seguire le linee del corpo, non il corpo assecondare la forma del vestito». Il gusto francese, caratterizzato da una manifattura dedita alla perfezione ed alla raffinatezza, incontra le mani di un uomo nato da famiglia aristocratica di religione protestante nel 1927 a Bouvais, orfano di padre e cresciuto da sempre tra i costumi d’epoca collezionati dal nonno, un celebre fotografo. Contro il volere della famiglia si avvicinò al mondo della moda, specie dopo aver frequentato “L'Ecole Nationale des Beaux Arts” a Parigi ed essersi avvicinato all'atelier di Cristobal Balenciaga del quale era fervente ammiratore. Dopo il 1968 ne ereditò per l'appunto la clientela, incorporandola nel suo atelier che andava già a gonfie vele. Dalla loro collaborazione nacquero gli abiti a “palloncino”.



«Gli abiti di Givenchy sono gli unici nei quali mi sento me stessa. Lui è più di un designer, è un creatore di personalità» diceva Audrey Hepburn del suo couturier preferito, le cui creazioni (91 abiti, 17 dipinti, bozzetti, foto) sono pure stati in mostra fino al gennaio 2015 nel Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid. In scena tutte le più significative “mises” realizzate dal geniale stilista francese. Come l'abito nero lungo appena scivolato indossato da Audrey Hepburn in "Colazione da Tiffany" con un motivo circolare in perle che quasi copre le spalle di Audrey (aveva il complesso delle scapole sporgenti) nella scena della celebre passeggiata sulla 5th Avenue a NY davanti alla vetrina della famosa gioielleria, mentre è intenta a mangiare una brioche.

Cappottino arancio per Audrey in "Colazione da Tiffany"

Givenchy è stato il couturier che per primo ha saputo creare una fortunata simbiosi stilista-diva. Il tubino nero di Audrey (battuto a cifre considerevoli nell'asta di Christie's ) mentre fuma al party con il lungo bocchino, è già un'icona intramontabile e non solo una locandina filmica. Idem l'abito nero più corto un po' svasato (il “little black dress”) con una bordatura in fondo - “mise” completata di largo cappello a cloche abbellito da un nastro di seta e occhiali, quando lei fischia per chiamare un taxi. Non è un caso che la Guerlain Profumi abbia prodotto in tempi recenti una fragranza dal titolo "La petite robe noire", in omaggio al suo stile sobrio e raffinato. 

Abito corto con cappello a cloche in "Colazione da Tiffany"

E chi non ricorda la scena dell’ingresso al ballo in "Sabrina" di Billy Wilder? La giovane si appresta al gran ballo di Cenerentola facendo la sua apparizione nella ricca casa dei Larrabee indossando l'abito da sera bianco di organza, con inserti di motivi floreali in seta nera impreziositi da perline nere, ricamati sul corsetto e lungo lo strascico. Il design semplice, la scollatura senza spalline, l'assenza di gioielli, riescono a far risaltare Sabrina-Audrey nel suo aspetto fresco e giovanile in mezzo agli altri invitati severi e banali. Il taglio dell'abito è molto innovativo: è più corto sul davanti mostrando le caviglie e le scarpe dal tacco basso. La grande amicizia fra Audrey e Hubert de Givenchy nacque per caso. 
Abito di "Sabrina"

Lei era agli esordi della sua carriera  durante la lavorazione di "Sabrina" e si fece annunciare per incontrarlo. Ma ecco l’equivoco.  “Credevo fosse un'altra Hepburn, Katharine, di cui ero fan. A quel tempo Audrey non era ancora molto conosciuta a Parigi" racconta lo stilista nelle interviste. “Mi chiese di disegnarle il guardaroba per Sabrina, io ero  occupato a metà collezione, ma le mostrai alcuni modelli che sembravano tagliati per lei”.  Fu subito sodalizio creativo. Da allora la loro solida amicizia durò fino alla morte dell'attrice e il nome di Hubert de Givenchy compare nei crediti di tanti altri suoi film: “Arianna”, “Cenerentola a Parigi” (un film ambientato proprio sul mondo della moda e della fotografia)  “Sciarada”, “My Fair Lady", "Insieme a Parigi", “Come rubare un milione di dollari”, ciò che favorì l'espansione e diffusione della sua griffe nel mercato americano. 
Abito rosso in "Funny Face" (Cenerentola a Parigi)

Un'amicizia fraterna fatta di stima e fiducia reciproca. Per Givenchy  "Audré" (così la chiamano i francesi) era considerata una “sorella”. Del resto divenne il suo sarto personale anche nella vita privata, grazie al suo stile sobrio, pratico e veloce. Precursore del prêt-à-porter di lusso, fin da giovanissimo creò nell'atelier di Elsa Schiaparelli (dove lavorò per 4 anni), i  famosi "separati" multifunzionali, una linea di coordinati blusa-gonna-giacca e pantaloni che i clienti potevano accessoriare a seconda del loro gusto e  umore.  
Il suo talento fece subito breccia fin dalla prima collezione del 1952, dove appena 24enne, venne notato con interesse dalla direttrice di "Elle" e  da Carmel Snow, gran sacerdotessa di " Harper’s Bazaar”. Un défilé tutto in bianco e nero dove si distinguono le modelle amiche sue tra le quali la stupenda Bettina Graziani che darà il suo nome a un pezzo destinato a diventare un capo di culto: la blusa Bettina. Nasce ed evolve con lui anche la figura della supermodel divistica e Bettina (chiamata così, senza il cognome) ne fu un esempio significativo. Lei fu anche press-agent per la Maison Givenchy.  
Blusa Bettina

Deborah Kerr, Juliette Gréco,Lauren Bacall, Elizabeth Taylor, Jeanne Moreau, Jean Seberg, Marlène Dietrich, Greta Garbo, Marella Agnelli figurano nel gotha della sua clientela. Ma soprattutto creò tutto il guardaroba per la visita ufficiale di Jacqueline Kennedy in Francia nel 1961 e confezionò l’abito verde smeraldo con bolero indossato da Grace Kelly durante un viaggio a Washington.
Nelle ultime interviste rimpiange il tempo in cui le mannequin erano eleganti ma senza ricorrere ad un  glamour chiassoso e le sue clienti si vestivano con cura anche per recarsi in luoghi sperduti.

Abito verde smeraldo con bolero per Grace Kelly
Giusto il tempo, prima di andarsene, di avere un ultimo rammarico: quello di non aver saputo identificare un discepolo a cui trasmettere il suo savoir-faire. E quello di aver prolungato la sua vita fino a 91 anni, catapultato in un'epoca dove l'eleganza non è più una virtù. "Ma ora l'eleganza è scomparsa. Niente sta bene, niente sta male, tutto è qualunque cosa». «Oggi – aggiunge – sembra che i creatori non cerchino di rendere bella la donna, ma piuttosto il contrario» ."Vedo in giro abiti con tessuti di scarsa qualità e mi dispiace. Mi sembrano creazioni senza vita."

Abito da cerimonia per Jackie Kennedy qui con Charles De Gaulle

Ma poi, da vero signore, quasi a pentirsene,  aggiunse che in fondo è già stata una grande fortuna aver attraversato un tempo nel quale la grazia, lo stile, l'eleganza e il talento venivano riconosciuti e apprezzati. La sua ultima sfilata si tenne l’11 luglio 1995 a Parigi. Il quotidiano "Le Figaro" sottolinea che “le Grand Hubert” non ha trovato il suo posto nella nuova era, quella dei "bulldozer industriali”. Ma forse è anche un privilegio.

domenica 4 marzo 2018

Fabrizio De André, luci ed ombre



Il biopic  "Principe libero" su Fabrizio De André in onda sulla RAI ha avuto numerosi strascichi polemici per aver messo come protagonista un attore (Luca Marinelli) con spiccato accento romanesco invece che ligure. Molti genovesi non hanno gradito e personalmente sono d'accordo con loro. Va ricordato che Genova è sempre presente nelle canzoni di Fabrizio ("La città vecchia", "Via Del Campo", "Crêuza de mä ", "Dolcenera" sull'alluvione del 1970, "Megu Megùn", e perfino la piccola stazioncina di Sant'Ilario di Nervi in "Bocca di Rosa"). E che molto repertorio "etnico" del cantautore è stato cantato in antico dialetto genovese.  Così come è stato considerato uno sgarbo non aver fatto terminare la sua esecuzione dal vivo di "Bocca di rosa" mentre scorrevano i titoli di coda troncati dalla Rai, anche questi. Peccato inoltre, non aver potuto ascoltare nel corso delle due puntate una canzone intensamente poetica come "Per i tuoi larghi occhi", dedicata a Maritza una donna slava assai bella ma di facili costumi, della quale, pare, si fosse innamorato - canzone la cui prima strofa è stato appena letta su un foglietto da Luca Marinelli (il De André nella finzione), ma non cantata. Inoltre nella fiction si è insistito troppo sul suo vizio del bere, e poco sulla parte creativa  della sua vita. 



Altre cose vale la pena di scandagliare su questo cantautore da molti considerato "il più grande". Innanzitutto è davvero così?
Il personaggio è certamente ricco di fascino e di carisma e ha in sé qualcosa di non facilmente  indefinibile. Il fatto che non si esponesse affatto ai media e in particolare alla tv, ne ha prolungato senz'altro l'aura. Era di famiglia assai facoltosa (suo padre era un dirigente dell'Eridania), abitava in un signorile palazzo liberty fronte mare di proprietà della famiglia in Corso Italia, il lungomare che si snoda dalla Foce fino a Boccadasse), ma militò nelle file dell'anarchismo storico di Carrara frequentandone i circoli. Bazzicava  tanto gli ambienti della Genova bene, quanto il sottoproletariato dei "caruggi". Non ultimi anche i "travestiti" di Via Del Campo, vicolo dove esiste da qualche tempo un negozio-museo dedicato a lui. Non sfugge però il tentativo da parte di quei media che tanto temeva e detestava, di farne un'autentica agiografia, quando in realtà è un artista fatto di luci ed ombre, come tanti del resto. 
Francesco De Gregori che fece collaborazioni con lui lo disse in alcune interviste, come pure confermò il suo carattere burrascoso e difficile aggravato dal fatto che fece uso e abuso di alcolici. Famosa fu una sua rissa in una discoteca genovese in voga in quegli anni "Lo Psichedelic" nella quale spaccò gli arredi interni. L'indomani fu in prima pagina sul quotidiano ligure "Il Secolo XIX".
Lo stile di vita da eterno maudit, una sorta di Cecco Angiolieri moderno (mise in musica - guarda caso - "S'i fossi foco" tratta dal sonetto di  Cecco,  e "La Ballata degli impiccati", ispirato al "Bal des Pendus" di François Villon, anche lui pecora nera della poesia) non faceva che accrescere la sua leggenda.

"De André - ha detto De Gregori ai microfoni di START, Radiouno Rai - si è circondato di collaborazioni, quindi ciò che è ascrivibile direttamente a lui non è la gran parte del suo lavoro. Questo non gli toglie nulla, perché se non avesse avuto quell’autorevolezza insita nelle sue corde vocali la musica italiana sarebbe molto, molto più povera". Aggiunge: "Per me De André resta una grande voce narrante. Ma a volte si sentono dire cose iperboliche. Credo che questo non faccia bene né a lui né alla gente che deve capire e ascoltare. E credo che non sarebbe piaciuto neanche a Faber".


Sul frutto di collaborazioni più allargate spesso attribuite solo a lui in esclusiva è senz'altro vero. La canzone "Fila la lana", ballata medievale di Robert Marcy ("File la laine") non compaiono crediti e gli viene attribuita in esclusiva. In questo caso è doveroso parlare di plagio. Ma ciò accadeva spesso e volentieri nei primi pionieristici anni "anni del vinile", e quel che ieri si poteva fare (copiare e attribuire a sé) , oggi con le nuove leggi del mercato discografico sarebbe impossibile. Va inoltre detto che nella Karim, casa discografica per cui incideva, suo padre Giuseppe aveva delle quote.

Fabrizio e il poeta anarchico Riccardo Mannerini ai tempi della loro collaborazione

I rapporti tra lui e uno dei suoi liricisti, l'anarchico Riccardo Mannerini (foto sopra), altro personaggio leggendario della Genova bohémienne morto suicida, che compare anche nella fiction con occhiali scuri per coprire la cecità, non furono sempre facili dato che i due erano temperamenti "caratteriali". Con l'anarchico reso cieco a causa di un incidente su una motonave che ebbe una fuoriuscita di vapore caldissimo compromettendone la retina degli occhi, Fabrizio collaborò al LP "Tutti morimmo a stento" che resta ancor oggi un ottimo lavoro, e in particolare al pezzo "Il cantico dei drogati". In questa raccolta c'è  pure "Inverno", una struggente ballata lenta sulla fine dei sentimenti inserita in un paesaggio invernale.   Ma collaborò anche al LP "Senza orario e senza bandiera" dei New Trolls, altra band leggendaria genovese. In ogni caso dopo una grande amicizia e sodalizio tra i due ci fu un brusco distacco definitivo, la cui causa non ci è dato di sapere. Anche qui si vociferava che Fabrizio non pagasse i "diritti" al povero Mannerini, per il suo apporto. La sua aria svagata di eterno"enfant gâté" molto concentrato su sé stesso, gli impediva di preoccuparsi troppo degli altri dei quali pure aveva bisogno.
Ma andiamo avanti con il repertorio musicale. La "Canzone dell'Amore perduto" è interamente costruita sull'adagio di Georg Philipp Telemann "Concerto in Re maggiore per tromba, archi e continuo", fra i massimi esponenti della musica barocca.  Sia l'incipit iniziale che  il modulo musicale provengono da lì. Ma qui, chiaramente si tratta di musica classica e nessuno può rivendicarne "le royalties".
Di converso invece si dice che Georges Brassens fosse molto contento della traduzione fatta da De André su "Il Gorilla", canzone interamente del cantautore francese, a cui De André si è ispirato in gioventù quale "maestro", specie nel repertorio dei primi anni sessanta. "La città vecchia" ad esempio, deve molto, per atmosfere e contenuti, a "Le Bistrot" di Brassens. "Il Testamento" comparso nel lontano 1962 quando ancora si firmava Fabrizio (senza cognome) ,  è ispirato al "Le Moribond" di Brel.
"Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" si snoda su una ballata medievale ripescata dalla cantautrice provenzale Anne Sylvestre (non compare nei crediti del disco) e su liriche dell'amico Paolo Villaggio.
Veniamo a "Via del Campo", canzone registrata alla SIAE da Enzo Jannacci. La musica di "Via del Campo" è attribuita ad Enzo Jannacci in quanto è l'aria di una sua canzone del 1965 "La mia morosa la va alla fonte", che faceva parte di uno spettacolo teatrale e che Jannacci incluse successivamente nell'album Vengo anch'io. No, tu no. Sul vinile, nell'etichetta è riportata la scritta: «Da una musica del '500 (XVI secolo) tratta da una ricerca di Dario Fo». In realtà Fo-Jannacci la scrissero insieme. Forse credendo si trattasse di  un'aria del '500 De André la fece sua con altre parole, quelle e dedicate alla prostituta del caruggio genovese. Si raggiunse alla fine dopo le rimostranze jannacciane, un concordato: testo di Fabrizio De Andrè su musica di Enzo Jannacci.
Ho ascoltato "La mia morosa la va alla fonte" in originale. E' probabile che se fosse rimasta a Jannacci, non avrebbe ottenuto il successo del brano riadattato da De André. Ma possiamo dire che anche questa fu una...manchevolezza da parte del mitico Fabrizio?

Si scatenano sul web le cacce al plagio e su you tube è possibile rintracciare una "Summer 68" dei Pink Floyd che sinceramente è molto simile al "Fiume Sand Creek". Più lenta la prima, più sostenuta nel ritmo la seconda di De André. 

La sottoscritta scrisse tutte queste precisazioni  puntuali e verificabili in un forum musicale on line, prendendosi un mucchio di insulti dai fan del Faber (come lo chiamava affettuosamente  il suo amico Paolo Villaggio).  Non me ne dolgo. Quando  una leggenda prende il volo la gente ha bisogno di crederci fino in fondo e il mito è sempre  più forte della verità.
Ecco perché credo che la lotta governativa contro le cosiddette "fake news" sia destinata all'insuccesso clamoroso.

In Sardegna con Dori Ghezzi e la piccola Luvi nella masseria dell'Agnata

Per tornare a De André, meritava davvero quest'aura che lo attorniava e lo attornia a tutt'oggi? 
Risposta: i miti non si meritano, vivono di vita propria e la nostra è un'epoca fatta di mitologie.  Forse ha ragione Mogol che alla sua morte, pur lodandone i pregi tra i quali una voce profonda ed espressiva rimasta inalterata nonostante il tabagismo disse: "Ha inoltre avuto la fortuna di avere una consorte favolosa".  E ora Dori Ghezzi con la quale divise il drammatico rapimento da parte dell'Anonima Sequestri sarda, così come la seconda parte della sua vita in Sardegna nella masseria dell'Agnata, mantiene in piedi questa soprendente  fabbrica del mito che sta funzionando a meraviglia -  un modo per non perdere l'uomo tanto amato.



Ma ha anche qualche ragione De Gregori quando lascia comprendere nelle sue dichiarazioni che è stato un ottimo organizzatore del lavoro altrui. 

Fabrizo De André menestrello anarco-individualista alto-borghese che non si esponeva troppo ai media ed era terrorizzato dai concerti dal vivo e dalla presenza del pubblico (concerti ne fece pochi) è riuscito in un altro prodigioso intento: imporre il Fascino discreto della Borghesia in piena epoca di contestatori marxisti, di rivoluzionari dalle barbe folte e di  eskimi, sempre in tumulto, ecc. Non è poco. Nonostante le collaborazioni molteplici delle quali si è avvalso e che hanno impreziosito il suo lavoro (dalla PFM e  Mauro Pagani,  da Mannerini,  ai New Trolls, al chitarrista classico Vittorio Centanaro coautore di "La guerra di Piero", Massimo Bubola, Fernanda Pivano per l'Antologia di Spoon River, il citato  De Gregori, Ivano Fossati per "Anime Salve",  ecc.), alla fine è pur sempre lui che prevale un po' come un divo cinematografico: viso segnato,  ciuffo spettinato, strabismo nello sguardo, sigaretta all'angolo della bocca, voce  profonda e inconfondibile.
"L'Unico e la sua proprietà", testo di Max Stirner  che fece parte delle sue letture di culto, prevalse decisamente  su Marx anche nella vita privata. 
Morì a 59 anni nel 1999 per un carcinoma al polmone dovuto all'eccesso di fumo e certamente ad una vita "senza orario e senza bandiera". Non poté vedere il nuovo secolo e di questo è assai probabile che ne sarebbe stato contento.

Quando la morte mi chiamerà
forse qualcuno protesterà
dopo aver letto nel testamento
quel che gli lascio in eredità...
Non maleditemi non serve a niente
tanto all'inferno ci sarò già...