lunedì 29 marzo 2010

Leptis Magna, una città romana visibile nella sua (quasi) integrità

Nel corso di più viaggi ho potuto visitare molti siti archeologici romani, da quelli italici ad altri situati in Europa Africa e Asia minore, ma di nessuno di essi conservo l’impressione profonda, preziosa e incantevole ricevuta da Leptis Magna, città romana situata sulla costa libica a una manciata di chilometri da Tripoli. Ricordo che, appena la vidi ergersi dal candore delle sabbie sahariane, un complesso urbano imponente e solenne nettamente disegnato dall’invadenza della luce desertica eppure stupefacente e illusionistico come un miraggio, mi apparve quale la materializzazione d’un sogno sempre accarezzato e mai ritenuto possibile, quello, struggente, della visione complessiva della città romana originale, restituita una volta tanto non dai pezzi e dai bocconi ritagliati qua e là all’interno o a ridosso di tessuti cittadini d’epoche posteriori, ma nell’interezza e nell’organicità della sua struttura urbana e in tutta la sapienza e finezza delle sue articolazioni architettoniche. Una volta penetrati al suo interno, non sembrava possibile che la vita vi fosse finita per sempre; alcune strade ed edifici e finanche pezzi interi di quartieri apparivano così ben conservati nella loro funzionalità e compiutezza da suggerire l’illusione che da un momento all’altro dovesse riprendere il vocio degli abitanti e lo strepito delle loro attività, quasi che la vita nella città taciturna fosse solo momentaneamente interrotta a causa d’un sortilegio misterioso e crudele. Percorrevo attonito le vie rese surreali dalla quiete assoluta, calcando pavimenti di pietra o di marmo astrattamente echeggianti, passando sotto archi e frontoni meticolosamente sfarzosi e tra colonnati maestosi, in piazze nitidamente riconoscibili benché ingombri di colonne capitelli frammenti di statue e di fregi, evocando ad ogni passo, con la fantasia eccitata, i fantasmi d’un passato fulgido già tanto lontano eppure là, in quella città paradossale e, se così posso dire, metafisicamente consistente, stranamente vicino, quasi tangibile.

Ecco, più di ogni altro a proposito, l’arco di Settimio Severo, il monumento eretto per celebrare le gesta di colui che, divenuto, da generale al comando di valorose legioni, imperatore di Roma dopo aver posto fine a un periodo di torbidi e di anarchia in cui l’autorità imperiale era temporaneamente inciampata, conferì a Leptis, dov’egli era nato, il suo aspetto straordinario, possente e magnifico. Settimio Severo era un uomo dei confini dell’impero, un esponente di quelle etnie assoggettate a Roma e poi assimilate; scuro di pelle e afflitto da un forte accento punico-libico di cui non riuscì mai a liberarsi (originariamente Leptis era un insediamento cartaginese), ascese al rango di imperatore non solo per le sue notevoli qualità di stratega militare, ma precisamente per la sua totale e starei per dire viscerale romanizzazione. Se, com’è logico ritenere, a quei tempi i meccanismi psicologici non differivano da quelli attuali, la conversione dell’uomo alla romanità fu tanto più piena e convinta in quanto egli non era cittadino romano per diritto di nascita, ma per volontà di identificazione. Va da sé che, proprio per questo, volle, da imperatore, fare del proprio luogo nativo (che prima della sua ascesa al potere supremo era solo una colonia ancora soggetta al versamento del tributo alla Madre Patria), una delle città romane più belle e sfarzose di tutto l’impero.

Con tutto ciò, il quadrifronte arco a lui dedicato è forse uno dei monumenti più singolari dell’architettura romana, audace e, per l’epoca in cui sorse (203 d. C.), nuovissimo, anzi rivoluzionario, tanto che, a proposito della sua lussureggiante decorazione marmorea, qualcuno ha parlato di “barocco” romano, mentre altri, per via della posizione frontale delle sue sculture, d’un presagio o d’un annuncio dell’arte bizantina; accostamento, questo, a mio avviso francamente incongruo e dove, per inciso, si svela in modo clamoroso lo spiazzamento di taluni storici dell’arte europei di fronte ad un “manufatto” indubbiamente troppo complesso per essere giudicato con metri di riferimento esclusivamente occidentali e nel quale per la verità, e con ogni evidenza, confluiscono e si mescolano tradizione figurativa classica e rappresentazione orientale, forse d’ispirazione egizio-siriaca (la cui scultura obbediva, tanto per intenderci, a criteri rigorosamente frontali). Certamente fu opera di architetti e scultori attivi nel bacino mediorientale, meno legati all’ortodossia artistica romana di quanto accadesse a chi operava in Roma e dintorni. Tutta la città, d’altronde, non solo la parte voluta da Settimio Severo, ma anche il teatro e il mercato d’età augustea, fitti di colonne e decorazioni, trasudavano, come potei osservare, lo stesso gusto “esotico” pur nel legame estetico-strutturale strettissimo e inequivocabile mantenuto con la classicità latina. Va detto, tuttavia, che all’esotismo dell’insieme contribuiva non poco la pietra locale, un materiale dal tono fulvo, intensamente caldo, capace di suscitare lancinanti suggestioni estetiche proprio nell’accostamento sonoro al candore lustrale dei marmi provenienti dalle cave greche e italiche.

Proseguendo la visita, ecco le Terme di Adriano (del 126 d. C., queste) le quali, oltre ad indicarci come la città, anche prima dell’intervento severiano, fosse tutt’altro che una colonia di poco conto, senza dubbio perché la sua posizione mercantile eminentemente strategica le garantiva la gestione d’una ingente ricchezza (porto di grande movimento collocato al termine d’una importantissima carovaniera attraverso la quale pervenivano i prodotti esclusivi dei mercati dell’Africa nera, essa alimentava costantemente i gusti raffinati ed “esotici” della Madre Patria), ci introducono, quasi didatticamente, alla funzione delle terme, ricordandoci come la civiltà romana riuscisse sempre a coniugare l’efficienza politico-amministrativa e le virtù militari con una spiccata propensione alla piacevolezza del vivere. All’interno delle terme, la natatio precedeva le stanze del frigidarium, del tepidarium e del calidarium, nomi da cui indoviniamo facilmente la destinazione d’uso degli ambienti. Nei sudatorii erano ancora visibili – e forse, volendo, funzionanti – i tubi attraverso i quali era destinato a passare il vapore bollente alimentato alla fonte da un fuoco incessante: un sistema idrico sorprendentemente evoluto che, dopo due millenni, ispira per molti aspetti tecniche e soluzioni ancora adottate nel nostro mondo ipertecnologicizzato. E qui non posso rinunciare a formulare una piccola ma necessaria puntualizzazione. Ormai la maggioranza di noi ignora, perché nessuno ce lo ricorda più da tanto tempo, che la civiltà da cui nasciamo aveva già scoperto tutto (o quasi) ciò che occorre per rendere facile e gradita l’esistenza e che essa si riflette sui nostri giorni non certo unicamente come testimonianza archeologica o come motivo di ricerche erudite, ma soprattutto quale eredità tangibile e ancora attiva nel mondo in cui viviamo, e beninteso non solo nel campo della tecnica e della meccanica ma anche in quello, fondamentale, delle scienze sociali, prima fra tutte l’arte del Diritto.

D’altronde, il piacere del vivere, inteso come vero e proprio gusto estetico dell’ambiente dove l’esistenza si svolge (da considerarsi all’opposto del gusto di coloro che hanno voluto misurare gli ambienti costruiti dall’uomo, da un certo momento in poi della nostra storia, esclusivamente col metro della cosiddetta funzionalità, quella funzionalità coniugata fatalmente alla bruttezza e allo squallore che l’avvento dell’estetica modernista ha portato con sé), si respirava a Leptis a profusione e continuava a riversarsi su di me ovunque guardassi e dirigessi i miei passi. Anzi, per meglio dire, la città stessa, con le sue soluzioni urbanistiche e architettoniche spesso ardite, fantasiose e sempre sospette di concedersi al puro piacere dell’apparire – da cui l’effetto scenografico di gusto teatrale che poteva suggerire ma dal quale la riscattava continuamente il virtuosismo dello stile architettonico e l’intelligenza e nobiltà della concezione urbanistica – si configurava come un autentico sogno estetico, un sogno autorevole di pura bellezza. Sull’orlo di quel sogno, era facile per me immaginare quale piacere e vorrei dire genuina e ininterrotta voluttà dovesse essere per gli abitanti vivere in un luogo simile, specialmente se paragonavo, com’era inevitabile, la loro esistenza a quella che è costretta a condurre buona parte di noi negli abominevoli insediamenti costruiti a ridosso e in parte anche dentro le incantevoli città che a quel modello classico avevano ispirato il loro divenire fino a non molto tempo fa.

Ma il pensiero di ciò che abbiamo fatto dei luoghi in cui molti trascorrono oggi la vita era presente in me, in quel momento, solo come un ricordo sconveniente e molesto, non nella veste del monito aspro e pressante in cui può apparire come l’ho appena riferito, giacché la bellezza di Leptis Magna mi sovrastava e possedeva con tale forza ch’io badavo unicamente a identificarmi con coloro che avevano avuto il privilegio di farne la sede della loro esistenza, così da indovinare e recuperare lo stesso gusto che doveva trasmetter loro la contiguità e familiarità con una città di tale fascino e suggestione. Infatti, quanto più mi inoltravo dentro di essa e ne scoprivo ad ogni passo aspetti sempre più inattesi e seducenti, come l’imponente via fiancheggiata da un duplice colonnato diretta al bacino del porto, riassaporavo pari pari il senso di soddisfazione e pienezza estetica che doveva pervadere, come son certo, gli antichi abitanti allorché li immaginavo compiere lungo quella strada di veemente bellezza la loro passeggiata serale, quella che già al tempo dei romani, e fino a ieri in tutto il bacino mediterraneo, la gente si concedeva prima di recarsi a cena.

Toccavo insomma con mano come la città romana, per chi vi abitava, dovesse rappresentare, oltre al luogo dove si lavora ci si diverte e si sogna ad occhi chiusi o aperti, una perenne educazione alla bellezza, una consuetudine a nutrirsi di ciò che di più sublime e confortevole offre l’ingegno e il talento dell’uomo posti al servizio della comunità; ed io ritrovavo per l’appunto a Leptis le radici della mia cultura e l’essenza stessa del gusto di vivere trasmessomi in dote da quei miei magnifici antenati e dalle generazioni delle età successive che non hanno mai smesso di richiamarsi ad esso: quel gusto che neppure la barbarie del secolo appena trascorso ha potuto offuscare del tutto e che forse potremo ancora recuperare, se saremo capaci di tornare ad esercitare quell’intelligenza alleata al buon senso da troppo tempo negletta o smarrita nel decidere il modo e il come configurare la nostra esistenza.

Percorrendo l’ampia e solenne via colonnata, esempio d’un virtuosismo architettonico e monumentale stupefacente, raggiunsi il porto, il grandioso Porto Nuovo fatto costruire anch’esso da Settimio Severo in sostituzione di uno precedente, al quale attraccavano le grandi navi nelle cui stive venivano ammassati, oltre al grano e all’olio ricavato dagli ulivi coltivati nella piana stessa di Leptis, all’epoca verde e feconda, l’oro e l’avorio destinati a rifornire i banchi degli artigiani romani e gli animali feroci – leoni, leopardi, rinoceronti – diretti verso le arene dell’impero per essere impiegati nei giochi riservati al divertimento dei cittadini romani. Il porto severiano ormai si mostrava semisommerso dalla sabbia; il mare che anticamente lo lambiva era stato respinto lontano; solo qua e là la pietra corrosa e scheggiata della banchina conservava il supporto d’aggancio dell’anello di ferro al quale un tempo venivano assicurate le cime delle navi imponenti. L’intera insenatura destinata ad ospitare le imbarcazioni appariva interrata, come d’altronde sepolta e occultata da migliaia di metri cubi di sabbia era rimasta tutta la città fino a quando i preziosi scavi realizzati da archeologi italiani nel periodo della nostra occupazione della Libia non la riportarono alla luce, riscattandola finalmente da quella sabbia tuttora presente ai suoi piedi e il cui riflesso, anche dall’interno della città liberata, non mancava di ferire gli occhi.

Per spiegare la scomparsa della vita a Leptis Magna e il suo insabbiamento, che ne ha permesso la conservazione in gran parte integrale fino ai nostri giorni, è stata avanzata, accanto alle cause più generali della decadenza e della fine dell’impero romano, prime fra tutte le invasioni barbariche e i disordini e le distruzioni che ne scaturirono, un’ipotesi naturalistica di indubbia suggestione. Secondo questa ipotesi, la grande prosperità della città finì per provocare un eccessivo aumento dei suoi abitanti, saliti, al culmine del processo di inurbamento, oltre le centomila unità, un conglomerato umano enorme per i tempi di cui parliamo. La necessità di disporre di sempre nuovo terreno agricolo per garantire il nutrimento alla popolazione crescente indusse i governanti di Leptis al progressivo abbattimento delle cospicue foreste che una volta la circondavano, fino alla loro completa estinzione. Il suolo fertile, senza più radici vegetali capaci di trattenerlo, finì per essere trascinato via dal vento e dalla pioggia. Ed ecco dove, massimamente, andò a riversarsi: in quel mare che consentiva alle navi di approdare al suo scalo. Con l’insabbiamento del bacino del porto cessarono i floridi commerci da cui derivava la ricchezza della città e il terreno, desertificato, smise di produrre il grano e ogni altro frutto necessario all’alimentazione degli abitanti. Così cessò lentamente la vita a Leptis Magna; e quella che fu una delle città più splendide dell’impero romano decadde e fu gradualmente abbandonata, per essere poi ricoperta col tempo dalla sabbia del deserto accumulatale addosso ogni giorno dal soffio tenace dei venti.


Dionisio

martedì 23 marzo 2010

Egon Schiele quando l'ossesione diventa arte-in mostra a Milano


E’ in mostra a Milano, a Palazzo Reale un’interessante esposizione di Egon Schiele, a cura di Rudolf Leopold e Franz Smola e in collaborazione con il Leopold Museum di Vienna, da cui provengono le opere esposte. Il titolo è “Schiele e il suo tempo” e presenta circa 40 dipinti e opere su carta dell’autore, tra cui i celeberrimi “Donna inginocchiata con abito rosso-arancione” (1910), “La danzatrice Moa” (1911), “Autoritratto con alchechengi” (1912), “Case con biancheria colorata” (1914), “Donna distesa” (1917).
Guardando i dipinti di Schiele si avverte subito lo stretto contatto fra la sua arte e l’erotismo. Un erotismo che nulla concede al romanticismo e al sogno, ma é carnale, diretto, vibrante e colpisce per la carica lasciva e l’attenzione per i particolari sessuali. La sessualità è esibita sfacciatamente, e riporta ad un’ossessione erotica angosciosa e inquietante. Le donne ne sono l’oggetto ed Egon Schiele le rappresenta in pose oscene, con corpi scarni e volti lividi, divorati dagli occhi, il tratto è spigoloso, nitido e incisivo. Donne sfrontate, peccaminose e prive di innocenza, consapevoli della propria sensualità.

Schiele disse: “Io dipingo la luce che emana da tutti i corpi” ma è una “luce” che ha molte ombre e zone oscure, e porta a galla il rapporto morboso fra il geniale artista e le donne.
Rapporto che gli procurò aspre critiche e anche guai giudiziari. Nel 1912 fu incarcerato per tre settimane a causa di un’accusa di “pornografia artistica” ma anche per aver sedotto una quattordicenne; Schiele ha sempre respinto tale accusa.
Nato a Tullin nel 1890, la sua infanzia fu segnata dalla morte del padre malato di depressione. Il suo primo periodo artistico fu influenzato dall’arte dell'Estremo Oriente, dallo Jugendstill di Ferdinand Holder e, soprattutto, dall'incontro con Gustav Klimt nel 1907. Schiele tuttavia, si avvicinò ben presto all'Espressionismo che interpretò liberamente dando vita ad uno stile molto personale e non catalogabile. Già nel 1908 Schiele tenne la sua prima personale che vide affiorare il suo stile originale: la fisicità distorta e deformata, la tragica visione dell’uomo. Il pubblico dell’epoca fu scioccato dall’erotismo esplicito, dallo stile scarno e duro completamente privo di compiacimenti estetizzanti.

Nel 1911 il pittore incontrò la giovanissima Wally Neuzil, che fu la sua modella per alcuni splendidi quadri. Fu accusato di corruzione di minori e di pornografia, processato e prosciolto.
Nel 1915 Schiele lasciò Wally e sposò Edith Harms. Nel matrimonio trovò la serenità agognata e una diversa ispirazione. Nel 1918 partecipò con successo alla quarantanovesima mostra della Secessione Viennese e tenne esposizioni a Zurigo, Praga e Dresda.


Morì a Vienna nell’autunno del 1918 a soli 28 anni, di influenza spagnola, tre giorni dopo la moglie, incinta di sei mesi. Una fine tragica, beffarda per un uomo che aveva vissuto, fino al matrimonio, sopra le righe, un pittore “maledetto” la cui arte aveva scandalizzato e sconvolto i suoi contemporanei, un temperamento ribelle dal pessimo carattere, insolente come “insolente” è la sua pittura, che ben poco si adattava ai salotti virtuosi del tempo.
Un uomo in balia delle sue ossessioni che ha saputo tradurre in arte, e che gli hanno donato l’immortalità.
Alcuni siti con opere di Schiele QUI QUI
QUI
Arethusa

lunedì 15 marzo 2010

Cartier-Bresson e l'anima ritrovata

                              

Non ricordo più quale tribù di aborigeni si rifiuta di farsi fotografare, perché pensa che la foto sia un modo per rubare loro l'anima. Eppure quante foto vediamo sulle lapidi che ritraggono i defunti mentre vivono i momenti sereni e lieti della vita. In questo caso, la fotografia dei volti sembra restituire anima agli estinti. La foto in fondo è quel click che ferma l'attimo fuggente, in grado di sorprenderci: ci si riconosce e nel contempo si è stupiti nel vederci immortalati in un atteggiamento bizzarro o inconsueto. Ci sono immagini che possiamo ritenere salvifiche e ci sono altre immagini che sono espressione di volgarità, grossolanità, crudeltà, sadismo, perversione. Di fronte al persistente bombardamento fotografico moderno è importante saper selezionare. Quel che però occorre dire è che se sfogliamo rotocalchi, tabloid o riviste, difficilmente possiamo sottrarci agli ambigui e feticistici messaggi della pubblicità, incentrati sull'edonismo di massa, cattive sirene che approfittano della nostra distrazione per attaccarci.

C'è stato poi un periodo della più recente storia di questi anni , nel quale nasce quasi un'ideologia catastrofista precostituita della fotografia: "documentare, a scopo di denuncia, le brutture e le storture prodotte dall’uomo nel mondo contemporaneo. Ne è scaturita una vera e propria etica fotografica, un modello di comportamento precostituito che induceva a ricercare immagini di disastri e degrado: inquinamento, guerra, mostruosità urbanistiche, umanità affamata e derelitta, imbruttita dalle privazioni, dall’alienazione o dalla depravazione , e via insistendo lungo questo fosco percorso"
(D. Di Francescantonio).

Ovviamente un fotoreporter di guerra non può che descrivere scene di guerra e in questo senso, memorabile fu la foto di Robert Capa del miliziano che cade quale foto-simbolo della Guerra Civile di Spagna. Ma il valore aggiunto di tutto ciò, quello che permette di trascendere il fatto nudo e crudo è dato dalla particolare cura estetica dell'immagine fotografica.

Quando penso però a un vero artista della fotografia capace di fare del poetico quotidiano la sua grande cifra, penso a Henri Cartier-Bresson. Forte è la compenente pittorica (sapeva dipingere) delle sue immagini così riconoscibili fra tante. Cartier-Bresson cofondatore della prestigiosa agenzia Magnum con David Seymour e il citato Robert Capa, diventa un padre fondatore del fotogiornalismo. Ma i suoi rittratti rimarranno sempre negli annali della grande fotografia d'autore, grazie alla sua prodigiosa Leica 25. Nessuno come lui ci ha regalato ritratti indimenticabili in uno sgranato bianco e nero con tutta la sua incomparabile gamma de grigi di Albert Camus, Balthus, Truman Capote, Faulkner, Coco Chanel, Gandhi, Sartre, Giacometti.

Voglio soffermarmi su quest'ultimo per ricordare la sua scanzonata fotografia,  immortalato nei sobborghi di Parigi in una stravagante flanerie mentre si ripara dalla pioggia tirandosi l'impermeabile in testa (in alto al centro). O quella in cui diventa un'esile e minuta figurina tra le sue stilizzate silhouette in un gioco simbiotico fra l'artista e la sua opera. E ancora Giacometti, con la sua faccia scolpita e segnata che è già in un certo senso, scultura tra le sculture.

Le foto di Cartier-Bresson sono protette dai diritti d'autore nella fondazione che va a suo nome. Leggere la sua affascinante biografia dei suoi viaggi di lavoro, significa rendersi conto che fotografare e viaggiare era per lui un tutt'uno inscindibile. Ma ci ha altresì dimostrato che è forse più facile fare i bravi fotoreporter in lontane terre esotiche che eseguire uno scatto magico dietro casa propria. E vi assicuro che le foto scattate in patria, magari nei paraggi di casa sua, in fondo non hanno nulla da invidiare a quelle  dei paesi lontani.

                                                                                                                                               
Hesperia

giovedì 4 marzo 2010

Rosai

Ottone Rosai (1895-1957) è stato pittore importante, originale e parecchio controverso.



Via Toscanella

Mi occupo qui solo rapidamente e un po' controvoglia di questo Autore, quasi ignorato a lungo dal mondo dell'arte e della critica ufficiali (una buona mostra fu a Firenze, primavera 2008), onde evitare contrapposizioni varie; la rapida analisi avverrà così specie dal punto di vista visivo, dietro richiesta di Marshall & co., anche se alcuni elementi biografici sono inscindibili come ovvio dall'interpretazione della sua arte, e non possono entrare nello spazio breve di un post.
Per una biografia ragionata sul pittore rimando qui e qui . E, per chi non lo conoscesse già, anche dai link si capisce il perchè della controversia. Un omaggio pensoso qui.
Nato a Firenze, da giovanissimo è già in grado di realizzare incisioni di livello negli anni 10, nel 1913 è vicino ai Futuristi, conosce scrittori e pittori: Papini, Soffici, Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini. Partecipa con merito e decorazioni ufficiali alla I GM. Scrive lui stesso poesie e testi.
Attraverso la sperimentazione e lo studio dell'immagine fonde la passione per il Trecento e il Quattrocento, il Rinascimento fiorentino con la rivoluzione pittorica-prospettica portata da Cézanne: la rappresentazione della profondità di campo attraverso il tronco di piramide rovesciata della prospettiva classica si evolve nella visione "a sferoide" di Cézanne.
E' condizionato anche dalla pittura metafisica, le cui atmosfere sospese si ritrovano in alcune sue opere, così come si avverte l'influsso di Giorgio Morandi e di Carlo Carrà. La sua pittura è d'interesse e qualità anche per le materie adoperate: da una tradizionale tecnica quattrocentesca impiega spesso un impasto di tempera e lattice di fico, che dà una straordinaria dimensione tattile e pastosa alle sue realizzazioni. Questi elementi convergono nelle serie delle sue nature morte, paesaggi, figure.



Cupolone con Campanile

Aderì in seguito al fascismo: dal momento che in Italia la critica, anche la critica letteraria oltre che la critica d'arte, è sempre stata militante, fu inviso ai critici d'arte di sinistra per le sue idee politiche, e fu inviso anche ai critici di destra per la sua omosessualità. Fu considerato cioè una sorta di 'fuori norma' da qualunque parte lo si osservasse, una contraddizione vivente doppiamente sconfitta dalla storia.
Detto fascista di sinistra, prima futurista e interventista, come altri socialisti aderì in principio al fascismo rivoluzionario per l'idea della distribuzione delle terre ai contadini, ma se ne allontanò in parte quando si trasformava in dittatura, fino a ritornare il "ribelle" del popolo del quartiere di Santo Spirito.



Carabinieri

Dal 1920 al 1930 si assiste al periodo considerato il suo classico pittorico, dipinge strade di Firenze, paesaggi e uomini. Il marchio "Rosai" nell'accezione comune corrisponde a una lunga teoria di "vinti" non necessariamente intesi in senso verghiano ma ripresi nella sua pittura in una condizione di spoliazione, privazioni, umiltà e spesso immersi in un silenzio irreale,
su tele scarne e riempite di pochi elementi, in cui pare abbia volutamente lavorato per sottrazione, e per concentrazione.



Uomo sulla panchina

La Firenze rappresentata è quella di osterie, piccole vie, una Firenze dimessa e defilata, a volte magica e sospesa, a volte appena accennata o poco riconoscibile sotto un cielo pesante come lo spleen baudelairiano che mette in evidenza un'umanità intensa, ma non si troverà in lui la Firenze Rinascimentale nel senso della citazione classica dello splendore e dell'equilibrio.
E' questo ultimo stile dagli anni 30 in poi a dare la fama a Rosai, unitamente all'accusa, da parte dei detrattori, di provincialismo, bozzettismo, vedute ristrette e populismo toscano "dolente".



Giocatori di toppa

In realtà nonostante l'adesione al fascismo e i condizionamenti stilistici storici, da cui ci si sarebbe aspettati uno stile visivo molto differente, più rutilante, Rosai dà corpo a una pittura personale, antiretorica, attenta al microcosmo quotidiano, in grado di concentrarsi sull'essenzialità delle figure con una maestria forse superiore a Sironi, ma con un'umanità e una capacità d'introspezione nota solo al nostro.



Nudo

Non troviamo in Rosai una pittura magniloquente nè per temi nè per stile di rappresentazione, e anche in questo risiede la sua originalità.
Ancora, gran parte della pittura di Rosai meno nota ma esistente in quantità, si incentra sui nudi maschili, chiaramente ennesimo ostacolo al suo pieno riconoscimento d'artista presso il grande pubblico, e al dare via libera all'esposizione serena di alcune sue opere.