martedì 28 settembre 2010

Che cos'è la letteratura?

Per J.P. Sartre, la letteratura è sempre un appello che l'autore rivolge alla libertà  del lettore. Nessuno scrive per se stesso: si scrive sempre perché qualcun altro legga. La lettura non è un momento accessorio, esterno all'opera letteraria, ma ne è anzi un elemento essenziale e necessario. Solo il lettore può far "vivere" nella sua immaginazione l'opera, che senza di lui rimarrebbe un insieme inerte di segni neri stampati su carta. "Lo scrittore si appella alla libertà del lettore perché collabori alla produzione della sua opera" . In questo senso, il piacere estetico consiste nel godimento della propria libertà creativa, sia da parte dell'autore che del lettore.

Difatti, il fine della libertà può essere solo la libertà stessa. L'atto di libertà, che costituisce l'opera letteraria, non è in alcun modo compatibile con l'oppressione. "Non è concepibile (...) che il lettore gioisca della
propria libertà leggendo un'opera che approvi, o accetti, o semplicemente si astenga dal condannare l'asservimento dell'uomo da parte. Anche la letteratura cosiddetta realista non può mai limitarsi a fotografare una realtà esterna, ma, in virtù della collaborazione fra autore e lettore implicita in ogni opera d'arte, rende autore e lettore corresponsabili del mondo che è racchiuso nell'opera; se la realtà che appare nell'opera è una realtà ingiusta, il lettore non potrà limitarsi a contemplarla passivamente, ma la sua libertà lo impegna a superare e ad abolire l'ingiustizia. La visione sartriana è dunque una visione di letteratura engagée.


L'insensato gioco di scrivere, secondo Maurice Blanchot è l'essenza stessa della letteratura intesa come Infinito intrattenimento. Una storia ne inanella un'altra, e un'altra ancora,  in un gioco di incastri incessante. Amare la letteratura significa avere una forte dipendenza da racconti, da trame e  narrazioni. Quale è il senso di questo gioco? Il semplice piacere di sottomettervisi.

Ogni scrittore  - ricorda Borges- crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato perché ci permette di leggere i testi precedenti a essa come se fossero sue anticipazioni e quindi in
maniera completamente diversa da come erano stati concepiti. I labirinti dello spirito sono l'essenza della sua letteratura. In questo senso la sua scrittura è simile alle simmetrie metafisiche e alle cristallografie di Escher.

Italo Calvino, è stato il primo scrittore italiano ad essere invitato all'Università di Harvard alle Norton Lectures in Usa. Ogni lezione prende spunto da un valore della letteratura che Calvino considerava importante. Ecco dunque alcuni valori letterari da conservare nel prossimo millennio:
  • leggerezza
  • rapidità
  • esattezza
  • visibilità
  • molteplicità
Leggerezza

Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti di diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso”.

Rapidità
“Mi limiterò a dirvi che sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nella dimensione di un’epigramma”.

“Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. ‘Ho bisogno di altri cinque anni’ disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto”.


Esattezza
“Come Hofmannsthal ha detto: ‘La profondità va nascosta. Dove? Alla superfice’. E Wittgenstein andava ancora più in là di Hofmannsthal, quando diceva: ‘Ciò che è nascosto, non ci interessa’.

Visibilità
“C’è un verso di Dante nel Purgatorio (XVII, 25) che dice: ‘Poi piovve dentro a l’alta fantasia’. La mia conferenza di stasera partirà da questa constatazione: la fantasia è un posto dove ci piove dentro”.

Molteplicità
“Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere contiunuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.

Ma alla fine  - e questa è un po' la visione della sottoscritta - tutti quegli orizzonti che mai riescono a essere del tutto sfiorati e raggiunti, offrono materiale allo scrittore per fare la sua scrittura e letteratura. In questo senso, la letteratura non è, né può essere, una disciplina basata sulla riconciliazione con il mondo.


Hesperia




















lunedì 20 settembre 2010

Musso e il Medeghino

In primo piano, il Sasso di Musso (foto di Angela A.)

Premessa: per ragioni di brevità dovrò tagliare in molti degli argomenti trattati, specie in quello accennante al grossolano accostamento che vi ho scorto con Cesare Borgia, il Valentino. Per coloro che volessero approfondire l'argomento "storia del Medeghino", consiglio intanto la lettura di due capitoli di una Storia della Valsassina, qui trascritti integralmente (cliccare qui). Sono scritti nel simpatico italiano di allora, di 170 anni fa. Probabilmente è la stessa forma linguistica usata dal Manzoni nella prima versione dei Promessi Sposi, che tra l'altro è citato in questa storia della Valsassina, per essere l'autore di un romanzo, ancora poco conosciuto, ambientato nel lecchese. La lettura dei due capitoli sarà occasione per un modo simpatico di scoprire l'evoluzione apportata alla nostra lingua nel frattempo. Sullo sfondo: Musso, Stazzona, Dongo (foto di Angela A.)

Musso è un comune di appena 1067 abitanti, dislocati in sei frazioni che in tutto occupano 4 kmq. E' situato sulla costa occidentale del lago di Como, tra Dongo e Pianello, ovvero tra Colico e Menaggio, appollaiato ai piedi di un lembo di terra rocciosa che s'insinua come un sasso dentro il lago. Quella roccia, che fin dal tempo dei Romani ha ospitato cave di pregiato marmo bianco, ha assunto l'emblematico appellativo di "Sasso di Musso". Questo minuscolo paese, strategicamente molto importante per l'Impero Romano, ha vissuto un momento di gloria nel primo quarantennio del XVI secolo. La storia che vorrei dipanare, su quanto accaduto a Musso in quel periodo, sembra uscire dalla mente fantasiosa di uno scrittore, e invece è storia vera e documentata. Dubbi potrebbero venire dal fatto che del personaggio non ho trovato la benchè minima traccia nè nei testi scolastici delle scuole di grado superiore del mio periodo, nè dalle più documentate enciclopedie uscite negli anni '60-'70 (esclusa la Treccani, si suppone). E questo sarà forse stato perchè il personaggio in questione è più ricordato come un personaggio piratesco e banditesco, che non un personaggio principesco.

Per dar corso al progetto che forse aveva in animo, il ventiquattrenne milanese Gian Giacomo De Medici nel 1522 prese di mira il Sasso di Musso, riuscì a battere furbescamente l'impenetrabilità della fortezza e vi si insediò divenendone il signore assoluto.

Quel Sasso, o monte è facile da ammirare; porta infatti impresso nel suo fianco una vistosa lacerazione, come uno squasso, ricordo delle antiche cave di marmo bianco sfruttate fin dall'epoca romana. Il turista che lo volesse individuare non ha che da percorrere la strada panoramica, la provinciale 72 Lecco-Colico, nel tratto Dervio-Dorio, e volgere lo sguardo verso la riva opposta; vedrà quel lungo squarcio bianco sul fianco di una montagna: là sotto c'è Musso.
Gli avvenimenti del periodo del Medeghino ebbero dello straordinario, non solo per la piccola comunità mussese, ma per tutti gli abitanti del lago e della Brianza. Lo afferma anche lo scrittore della Storia della Valsassina all'inizio del VII capitolo del III libro: ...I fatti che io vo in questo e nel successivo capitolo a narrare sono di un’importanza comparabilmente maggiore degli altri esposti nel presente libro. Imperciocchè racchiudono essi un nuovo periodo di indipendenza dei Valsassinesi e le ultime prove del valore e della gloria loro....

Per inquadrare il personaggio Medeghino basterebbero le parole profferite da Polidoro Boldoni, personalità di Bellano, in risposta all'offerta fattagli dal Medici per la mano di una sua sorella ancor nubile: "Non voglio in vita mia contrarre affinità ed amicizia con ribelli e con ladri". Ma sarebbe stata troppo dispregiativa, e il Medici, che non se ne lasciava scappare una, appena potette si vendicò di quella risposta.

Un altro storico del suo tempo aveva scritto di lui: “Nato in un secolo in cui unica virtù degli ambiziosi era l’accortezza e la fortuna, unica lode il riuscire, ed abilità chiamavasi ogni mezzo inonesto, tristo, immorale e scandaloso; sulle orme del troppo famigerato Duca Valentino, sentivasi atto a tutto osare per arrivare al suo scopo che era il dominio”. Dall'analisi di tale passaggio avrei riscontrato un sia pur grossolano accostamento col Valentino, ma tralascio di parlarne per ragioni di spazio. Però, al contrario che nel Valentino, nelle vene del Medeghino doveva scorrere anche sangue gentile, dal momento che una sua sorella, andata in sposa al conte Giberto Borromeo, generò San Carlo Borromeo.

Preso possesso della rocca di Musso, il Medeghino operò una completa trasformazione del borgo, insediandovi le più disparate attività "industriali". E' un altro storico che ne parla: Oltre che per terra, il Medeghino si era reso forte e temuto per tutto il lago, con la creazione di una potente flotta munita di ottime artiglierie, fatta allestire in loco da artefici genovesi. Con essa corseggiava, da vero pirata, tutto il lago, tenendolo in soggezione.
Trasformò pertanto la Terra di Musso, ai piedi della sua fortezza militare, in un autentico centro industriale, dove accanto alle fornaci ed ai cantieri navali veri e propri, sorsero officine, laboratori e manifatture complementari.
E un altro ancora, il Bazzoni, scrive:
“Fece esso erigere arsenali in vari siti, e chiamovvi uomini periti nelle arti marinaresche per dirigerne le opere. Il più vasto però e il più d’artefici e d’attrezzi provveduto era quello di Musso, siccome prossimo al castello, e perciò con maggior facilità difeso e guardato.
Maestro Onallo, il Genovese, che n’era capitato, lo aveva conformato a perfetta somiglianza degli arsenali di mare. Era quello un edificio di non molta larghezza, alquanto lungo, e in varii scompartimenti diviso, ciascun dei quali conteneva un’officina d’arte diversa, spettante all’armeria od alla nautica.
Quivi erano macchine a sega per le travi, telai per le vele, attorcigliatoi per le gomene e il cordame minore pei fabbri: quivi scortecciavansi gli olmi ed i pini per l’alberatura, e bollivasi la pece e il catrame per calata fare e rimpalmare i legni.
Trovavasi in quell’arsenale il quartiere degli spadai, dei fabbricanti delle alabarde, degli archibugi e di altre simili armi da bra

C'eran quindi tutte le premesse affinchè il De Medici potesse aspirare a crearsi un suo regno. La capitale iniziale, come in tutte le favole a lieto fine, poteva anche essere il minuto borgo di Musso, per poi aspirare a Milano, visto che era già diventato marchese di Lecco per nomina imperiale. La già avvenuta conquista di Monguzzo col suo castello, nell'Alta Brianza, avrebbe potuto spianargli la strada verso Milano, dato che si era anche impadronito del sito preistorico del Buco del Piombo, presso Altavilla, adatto rifugio dopo le sue rapide incursioni nel Milanese. E da Milano eventualmente poi?...
...Ma qui andiamo nel campo delle ipotesi più irrealistiche, ma forse neanche tanto. Avrebbe forse potuto far giungere all'unità d'Italia con trecento anni d'anticipo? Due i fatti importanti che potrebbero avvalorare tale ipotesi. Il Medeghino, estromesso da Musso, sopravviverà ancora 23 anni, continuando a combattere alacremente nel frattempo. Dopo i tentativi andati a male al Valentino e al Medeghino l'Italia continuerà a rimanere frazionata in un rivolo di stati, per lo più in mano straniera. Pensate solo a Milano, che dopo l'epoca del Medeghino era passata agli spagnoli, quindi agli austriaci, poi a Napoleone e quindi ancora agli austriaci. E solo nel 1861, con l'unità nazionale, giungerà la liberazione definitiva da essi, per quasi tutti.

Tornando un'attimo indietro, alla bella favola che fu la rocca di Musso, essa era talmente inespugnabile da dar fastidio alle maggiori potenze del momento, intente a spartirsi o a disputarsi l'Italia: la Spagna di Carlo V, la Francia di Francesco I, la Serenissima dei potenti dogi, i Grigioni svizzeri, la Milano degli ultimi Sforza. Fu così che per levare di scena l'incomoda fortezza del Medeghino, offrirono a lui un'enorme dote in denaro (35.000 ducati d'oro) e il marchesato di Melegnano col suo castello. Ai contendenti non parve vero di essersene liberati. Tant'è che via lui provvidero a cancellare dalla faccia della terra l'antica imprendibile fortezza, le cui origini potrebbero anche risalire alla notte dei tempi, quindi prim'ancora dell'arrivo dei Celti. Della fortezza del Medeghino, contenente sicuramente reperti dell'epoca Gallo-Romana ed oltre, pare non sia rimasto più nulla, neanche una traccia, fuorchè l'oratorio, luogo sacro entro le mura dell'antica fortezza, abbattuto in seguito per erigere la chiesa di Santa Eufemia sopra le sue fondamenta.

E ad ogni buon conto, come già detto, delle imprese del Medeghino non ho trovato la benchè minima traccia in testi scolastici ufficiali della mia epoca: totalmente ignorato dagli storici. Eppure gli andrebbero sicuramente attribuiti almeno due meriti. Come il Valentino tentò nel centro-nord Italia, così quello del Medeghino potrebbe anche essere interpretato come un tentativo simile di creare uno stato unitario e forte, qui al nord, escludendovi ingerenze straniere. Inoltre al Medeghino, avendo bloccato i Grigioni al di là delle alpi, va comunque e in ogni caso attribuito il merito di aver fermato il protestantesimo fuori dalle porte d'Italia, lasciandolo relegato in territorio svizzero.

E il Medeghino fu bandito o principe? nella prima ipotesi è giusto ricordare che tra le sue imprese banditesche si annoverano anche rapimenti a scopo di estorsione (per ricavare mezzi necessari a pagare la soldataglia). Nella seconda è utile ricordare un episodio storico legato alle monete di sua coniazione (l'episodio è ricordato anche dall'Arrigoni). Durante uno dei tanti assedi subiti fu costretto a coniare monete (ne aveva avuta l'autorizzazione da parte di Carlo V) perfino col cuoio, o comunque con metalli di scarso valore, ma coniati con un alto valore facciale. Obbligò la gente ad accettarle, sotto pena di punizioni assai severe, finanche la morte, con l'impegno però di redimerle ad assedio concluso. Terminato il quale, il Medeghino, come promesso, si era accinto a cambiare quelle monete con quelle "giuste", ma nessuno le volle riconsegnare, tenendole e tesaurizzandole a ricordo di quel periodo. Quelle monete fanno ora ancora parte di intensa ricerca da parte di collezionisti professionisti.

Principe o bandito che sia stato, il corpo del Medeghino riposa all'interno del Duomo di Milano, dove suo fratello, Giovanni Angelo, divenuto papa Pio IV, gli aveva fatto erigere la seguente magnifica tomba monumentale.

domenica 12 settembre 2010

"Andrea o i ricongiunti", specchio di Hofmannsthal



Certe letture ti colpiscono al punto che, nel corso della vita, continui a tornarvi più volte perché ti avvincono e incantano come al primo incontro; senza dubbio perché le senti particolarmente affini al tuo gusto e alla tua sensibilità, ma forse anche perché vi scopri qualcosa di nuovo ad ogni accostamento. Per me, una di queste letture è Andrea o i ricongiunti del viennese Hugo von Hofmannsthal (1874 - 1929), un piccolo gioiello letterario di quella cultura mitteleuropea che diede frutti doviziosi per tutta la durata del suo percorso storico. Ed è curioso che questa lettura resti tra le mie più care e preziose perché si tratta d’un romanzo non finito, d’un frammento d’opera che non arriva al compimento della sua parabola e che rimase per Hofmannsthal una bellissima Incompiuta al modo di certe sinfonie di alcuni grandi musicisti (come quella di Franz Schubert, la N. 8 in B minore, tanto per fare un esempio), ma che proprio in questa incompiutezza, e nell’impossibilità intuita di pervenire a quella finitezza o se si vuole maturazione che la complessità della vita raramente concede agli uomini, trovano, paradossalmente, un non secondario motivo del loro fascino, del loro inesausto potere d’attrazione.
Resoconto d’un viaggio d’istruzione in Italia ma in particolare a Venezia d’un giovane austriaco avvenuto nel 1778, un itinerario che appare, più che un movimento nello spazio, un percorso umano e spirituale corrispondente al tentativo di conoscere il specchiandosi nell’altro, l’Andrea sembra inserirsi nel genere del romanzo di formazione o di educazione sentimentale di cui nella letteratura tedesca si hanno esempi illustri, come il Vilhelm Meister di Goethe e L’Enrico di Ofterdingen di Novalis, due autori, peraltro, a cui Hofmannsthal non smise mai di far riferimento perché entrambi interpreti di due tendenze ch’egli sentiva egualmente forti in sé: Goethe quale campione di un’arte tutta rivolta al mondo sensibile e improntata a grande saggezza ed equilibrio, Novalis quale esponente d’una emotività piuttosto incline al mondo soprasensibile, al notturno e all’irrazionale. Due tendenze contrastanti che, probabilmente, Hofmannsthal non riuscì mai a ricomporre in una superiore unità e che ci aiutano a capire il perché delle crisi ricorrenti, umane e artistiche, a cui egli andò incontro nel suo percorso d’autore, un percorso che trovò espressione, certo per individuare la voce più adeguata al mutare degli stati d’animo, nelle forme più varie, dal verso al teatro drammatico, dalla narrativa alla saggistica e dalla commedia semiseria o buffa all’opera lirica, quest’ultima estrinsecatasi in una lunga collaborazione come librettista col compositore Richard Strauss. Ma il motivo di fondo di tali crisi rimase sempre lo stesso: la responsabilità dell’artista nei confronti del mondo, la necessità che l’opera, oltre a prefiggersi la forma più alta d’espressione, rappresenti un modo di porgersi all’altro per intendersi sul senso dell’esistenza, per comunicare insieme in nome d’una produttiva unità d’intenti volta al raggiungimento d’una superiore armonia del vivere – scopo che forse Hofmannsthal non fu mai sicuro di ottenere.
Poiché egli si era presentato fin da ragazzo alla società letteraria viennese come un poeta precocemente maturo, capace di sedurre e incantare con la raffinata eleganza dei suoi versi, restando per questo intrappolato in una torre d’avorio d’estetismo aristocratico ancor prima d’aver fatta la sua esperienza del mondo, dovette, per tutta la vita, lottare per liberarsi dall’etichetta di artefice di un’arte per l’arte fine a se stessa, che gli negava la possibilità d’un fertile rapporto con gli uomini. La sua opera narrativa, indubbiamente la voce sua più sincera, testimonia il sofferto processo della sua liberazione dalla solitudine paralizzante imposta al genio assiso suo malgrado sul piedistallo per la ricerca d’un contatto autentico con gli altri. Basterà citare il primo racconto e l’ultimo ch’egli portò a compimento quali tappe miliari di questo processo, vale a dire il suo punto di partenza e quello d’arrivo. Nel primo, scritto a soli 21 anni, La Novella della 672a notte, dove nel giovane figlio del mercante che abbandona controvoglia la sua dorata solitudine circondata da cose belle e preziose per conoscere la realtà d’un mondo sordido e crudele, nel quale incontrerà una morte miserevole, viene descritto proprio il disagio che nasce dal contrasto tra la necessità di rompere l’isolamento e il timore e la repulsione verso un mondo ancora ritenuto insidioso, colmo di sollecitazioni nebulose e di minacce indecifrabili. Invece nell’ultimo, La donna senz’ombra, sorta di fiaba o meglio racconto mitico dove la luminosa figlia degli spiriti che per l’acquisto dell’ombra (ossia la conquista della dimensione umana, la sola che, per la donna, può consentire la maternità) deve lasciare il palazzo nel quale l’amore dell’imperatore la tiene segregata e recarsi tra gli umani per servirli, vincendo la ripugnanza verso le loro brutture e deformazioni, si rappresenta la necessità di porsi al servizio dell’umanità per votarsi a un’opera di creazione feconda ma anche il raggiungimento di tale obiettivo, simboleggiato dall’ottenimento della condizione umana da parte della creatura celeste grazie alla quale ella potrà generare un figlio alla tenerezza dello sposo. In mezzo a queste due opere, superbi esempi, per inciso, di perfetta fusione tra sublimità dello stile e pregnanza del contenuto, e ad altre minori e occasionali, si colloca l’Andrea o i ricongiunti, non fiaba o racconto mitico come le due appena descritte, ma opera realistica che vorrebbe documentare appunto un processo di superamento di imperfezioni e insufficienze umane per il raggiungimento d’una dimensione di piena e matura consapevolezza. Anche nello stile l’Andrea appare un’altra cosa. Qui la narrazione non è contrassegnata dalla raffinata écriture artiste (come si definiva a quel tempo il bello scrivere) d’uno stilista che già a vent’anni e tanto più in età matura sapeva usare la scrittura con consumata maestria, ma appare più spontanea, appunto più realistica, improntata com’è a un piglio veloce, quasi stendhaliano nel rapido affastellarsi e sovrapporsi degli avvenimenti. Così assistiamo all’approdo di Andrea nella Venezia che fuoriesce dalle brume notturne e all’apparizione del gentiluomo con maschera sul viso ma seminudo sotto il mantello in cui è avvolto (una stranezza dovuta, come si saprà più tardi, a un’inveterata passione dell’uomo per il gioco che lo riduce spesso alla perdita degli abiti), il quale si mostra pronto ad accompagnare il giovane straniero presso un alloggio in casa d’una famiglia nobile disposta ad ospitare viaggiatori per mercede perché languente in cattive condizioni. Per la stessa ragione la giovanissima e bella Zustina, figlia dei padroni, si è posta – come apprenderà con turbato stupore il giovane viennese – quale posta d’una lotteria a cui parteciperanno solo scelti gentiluomini. Poi c’è il ricordo mortificante del soggiorno di Andrea nella casa dei Finazzer, avvenuto prima dell’arrivo a Venezia. Là si è svolto il breve idillio con Romana Finazzer, la ragazza dall’animo candido di bimba che gli ha svelato senza reticenze l’attrazione che prova per lui, un idillio che abortisce prim’ancora di svilupparsi in qualcos’altro a causa del comportamento di Gotthilft, il servo ribaldo presentatosi ad Andrea per offrirgli i suoi servigi ma che lo porta ad acquistare un cavallo rubato alla stessa famiglia presso cui ha trovato ospitalità e che fuggirà dopo aver picchiato e legato una serva che ha indotto a farsi sua complice nel rubare altre cose. A quel gaglioffo che l’ha messo in cattiva luce presso i Finazzer, i genitori di Romana buoni nonostante tutto con lui e pronti ad aiutarlo per riprendere il viaggio verso Venezia, Andrea è costretto suo malgrado a sentirsi affine per quel che di malvagio sente in sé e che l’ha portato (com’egli rammenta con contrizione) a infierire crudelmente e perfino a uccidere due cani che ha avuto nella sua adolescenza. Poi, nella scena successiva, trovandosi a vagare nelle calli di Venezia, il giovane andrà incontro a quella straordinaria e surreale sequenza dell’apparizione di due donne apparentemente uguali d’aspetto e abbigliamento, forse due facce d’una stessa femminilità ambigua e inafferrabile, che gli compaiono e gli sfuggono davanti agli occhi un momento prima quale una penitente straordinariamente dolorosa all’interno d’una chiesa e immediatamente dopo quale una demoniaca furia che si spenzola appesa per i piedi a una pergola per spaventarlo e irriderlo a quel modo selvaggio, per poi sparire entrambe misteriosamente così come gli erano apparse. Quindi si succedono gli incontri con altri personaggi, ciascuno col suo mistero e il suo fascino, come il Cavalier Sacramozo e il Cavaliere di Malta, entrambi portatori di esperienze e saggezze a cui il giovane viennese vorrebbe attingere nel suo desiderio di conoscere se stesso attraverso il rapporto con coloro che la sorte gli fa incontrare ad ogni passo. Assistiamo insomma, sia nella parte stesa del racconto, sia in quella che s’intuisce dagli appunti per il seguito rimasto solo in abbozzo o meglio in intenzione irrisolta, a un crescendo di situazioni che percorrono un’ampia gamma dei misteri della psiche, dell’eros, del corpo e dello spirito umano nei loro risvolti di bene e di male o di luci e di ombre.
Dunque un’opera, quest’Andrea o i ricongiunti che, come La Donna senz’ombra, aspirerebbe alla ricongiunzione delle componenti, se vogliamo chiamarle così, chiare e oscure dell’essere per il conseguimento di quella compiutezza umana che può scaturire solo dal porre la propria opera al servizio dell’umanità, ma che, più realisticamente della fiaba (e forse perché più legata alla condizione personale di Hofmannsthal, alla sua insoddisfazione di sé), non riesce a definirsi, resta solo nelle intenzioni, come testimonia il fatto che l’autore la lasci incompiuta.

Dionisio

lunedì 6 settembre 2010

Settembre, Chardin e la poesia delle piccole cose



E' Settembre,
e riapre il Giardino, con un Benvenuto a lettori vecchi e nuovi.
Mese simbolico del raccolto, della cernita, della razionalizzazione e dell'equilibrio di ciò che l'Estate trascorsa ha offerto, è tempo anche della vendemmia, dei vini, dei frutti carnosi e concentrati dal sapore intenso.
Ci si avvia lentamente all'Autunno, con i suoi incredibili colori, essenze, giochi di luce.



E' in questa atmosfera che si aprirà tra breve la Mostra dedicata a Jean-Baptiste-Siméon Chardin.

Chi era Costui?
Certamente non il paleontologo e teologo modernista Pierre Teilhard de Chardin!

J.B.S. Chardin (Parigi, e quasi sempre Parigi, 1699-1779) è stato un enorme Pittore, un Autore di forme sui generis, importante per le sue scelte, spesso in opposizione al gusto coevo, noto per la sua tecnica sopraffina, famoso in parte per le sue nature morte, immagini di piccole cose, quadri dedicati al microcosmo infantile, alcuni ritratti.




Visse nella stessa epoca di Boucher, fu per poco maestro di Fragonard,
ma differente da entrambi: quel che prevale in Chardin è un nuovo naturalismo-realismo, che si può ritenere lontano derivato dalla pittura olandese del XVII secolo, ben diverso dal Rococò francese del XVIII secolo. Un naturalismo in cui sono presenti comunque sentimento, atmosfera sospesa e un invito all'introspezione.



Qualcosa di persistente nella sua produzione, l'attenzione al microcosmo quotidiano, la suggestione delle piccole cose, ci consente di prendere a prestito l'espressione della IV Egloga di Virgilio "Arbusta iuvant humilesque Myricae", nella stessa accezione in cui la volle intendere Pascoli per la sua 1ma raccolta di poesie.

La sensibilità di Chardin lo riportava sempre all'indagine visiva del quotidiano:
raffigurava composizioni di piccoli oggetti, frutta, con acuto senso di osservazione, eleganza, e un uso della luce magistrale, progressivamente più leggero, accurato e trasparente, e con valenze emotive.

Rifiuta la formazione didattica-accademica usuale dei colleghi contemporanei, preferisce lavorare direttamente a bottega con P. J. Cazes e N. Coypel (pittori di soggetti storici, da cui non mutuò molto) fino al restauro degli affreschi di Primaticcio a Fontainebleau.
Non è interessato al rito del Grand Tour, di gran moda per conoscere dal vero le bellezze del Viaggio in Italia.
Ugualmente si discosta dai generi obbligati della pittura dell'epoca, che consigliavano di specializzarsi in dipinti magniloquenti a soggetto storico, antico o mitologico. La sua è in questo senso una scelta d'arte volutamente antiretorica.



La notorietà arrivò comunque nel 1728, con i dipinti "La razza" e "Il buffet", e ottenne l'ammissione all'Accademia, cui seguirono diverse cariche e riconoscimenti, fino al permesso di soggiornare al Louvre nel 1757, dopo che Luigi XV gli concesse dal 1752 uno stipendio annuale.




Approdò anche al ritratto della figura umana, pur sempre inserita in interni,
per lo più umili, con ambientazione quotidiana-domestica.
L'ultima parte della sua vita si affidò ai pastelli.
Rimane nella storia tra i maggiori creatori di nature morte, ma soprattutto per l'inedita poetica degli oggetti, e per piccole composizioni d'autore.

La Mostra si tiene a Ferrara, presso il Palazzo dei Diamanti,
avrà titolo "Chardin, il Pittore del Silenzio",
dal 17 Ottobre 2010 al 23 Gennaio 2011.




Aggiungo un brano, pur cronologicamente successivo, che non si distanzia dalle categorie estetiche sopra descritte, la poesia colta nelle sfumature infinitesimali e nelle microvariazioni:
Arturo Benedetti Michelangeli interpreta l'Adagio dal Concerto in Sol di Maurice Ravel.

Josh