In questi giorni, in molti si sono occupati dell'abdicazione del Papa. Qui non lo facciamo.
In quanto blog dedicato a culture e aspetti collaterali, osserviamo appena più da vicino un passo letterario controverso spesso estrapolato. Personalmente non ero d'accordo con l'opinione (supposta) di Dante su San Pietro da Morrone/Celestino V (e nemmeno la Chiesa Cattolica, che venera Celestino V come Santo, con festa liturgica il 19 Maggio, Patrono di Isernia, compatrono dell'Aquila, Urbino e Molise).
« Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto. » (Inf., III, 58-60) |
Il tema d'avvio è tipicamente medievale, quasi rituale nella minacciosa scritta all'ingresso (l'anafora Per me si va.../per me/per me) e cristiano almeno nel concetto dell'eternità delle pene.
Dante ha appena varcato la porta dell'Inferno con Virgilio, è nell'AntiInferno, dove sono le anime degli ignavi, che visser "sanza infamia e sanza lodo" (Inf. III, 36), non operando il male ma neanche il bene, così che la misericordia divina, in ottica dantesca, li sottrae all'inferno, ma pure la giustizia li escluderebbe dal paradiso.
Dante giunge al primo gruppo di anime, gli "ignavi" (22-69) e scorge nella massa una figura paurosa che non nomina. Ne sottolinea subito la viltà.
Se la critica letteraria si è interrogata sulla figura anonima con esiti discordi, è stata costretta a convergere a volte con le tradizioni dei commentari coevi o quasi: si poteva trattare di papa Celestino V,
di Esaù (figura biblica, che per un piatto di lenticchie vendette il diritto alla primogenitura, cfr. Genesi 25-27, 36; ripreso nel NT in Ebr. 12:16,17; Rom. 9:10-13 ) o Ponzio Pilato.
(nell'immagine, rappresentazione tradizionale dell'eremita Pietro da Morrone futuro S.Celestino V)
Dante, con la Commedia, oltre la nota polisemia testuale, ha di fatto costruito un poema immaginario dell'aldilà, basandosi su più fonti d'ispirazione, anche per castigare a modo suo l'aldiqua, e portare a termine qualche vendicativa invettiva personale (non va dimenticata la sua concezione di Chiesa e Impero, intesi come entrambi dotati di potere temporale e di chiamata sacra, mescolata alle sue vicende personali).
In linea di massima, in più casi, nell'interpretazione del passo, si tende ad escludere le altre figure, e si concorda col fatto che Dante mise all'Inferno Celestino V, che invece la Chiesa Cattolica onora.
Dante, come in altre parti della Commedia però, abbandona più volte ogni concetto canonico, dal momento che sia Bibbia sia Eneide ignorano gli ignavi,
mentre i Vangeli esaltano gli umili e i "poveri di spirito" (si vedano per es. le sole Beatitudini).
Un concetto forte in ambito biblico, cui si pensava si fosse ispirato Dante, diversamente si trova in Apocalisse cap. 3:14, ma se si sa approfondire il testo sacro, non si parla certo di "ignavi" (nè di San Celestino V, che la tiepidezza non sapeva manco cosa fosse, schietto e radicale com'era nelle sue scelte) ma di apostasia:
14 All'angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi:
Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: 15 Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! 16 Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. 17 Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. 18 Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. 19 Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti. 20 Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. 21 Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. 22 Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.
(Laodicea era situata in un crocevia in Asia Minore: ricco centro amministrativo, vi si producevano lane, medicinali anche per gli occhi, era ricca di acque curative, distrutta però da un terremoto nel 60 d.C.; la Chiesa del luogo non fu fondata o visitata da S.Paolo -Col. 2:2- ma da Epafra -Col. 4:12-13- ; solitamente l'esegesi riferisce questo passo non tanto alla chiesa del posto d'allora, ma a una condizione della Chiesa; c'è chi lo legge in termini solo storici, -molto comodo....- , ma da un punto di vista etico e mistico è valido sempre e comunque per l'autoanalisi e come monito sacro a chiunque legge)
Il concettismo di Dante sugli ignavi allora va rintracciato sulla scorta di tutt'altri esempi, già presenti nella propria opera:
dal momento che amava grandi impetuosi caratteri "solari" o conquistatori della vita, come Cicerone (Inf. IV) e San Tommaso (collocato dal poeta nel IV cielo, tra gli spiriti sapienti, Par. X, XI, XIII, XIV), allora l'accostamento simbolico va inteso nel poeta come contrapposizione tra magnanimi - ignavi, quando per Dante ignavia andava intesa come pusillanimità dinanzi a una responsabilità etica, politica, civile e/o religiosa pubblica.
In questo caso comunque, mancando la categoria "ignavi" sia nella Bibbia (la vicenda di Esaù è più sottile, il suo non fu un "peccato" d'ignavia, ma un esempio d'uomo "naturale" e istintuale, abile cacciatore, pieno di mogli, forte fisicamente, ma sprovvisto di fede, di senso e interesse spirituale) sia nell'Eneide, Dante trae l'immaginaria categoria degli ignavi dal senso comune, ed escogita per gli ignavi una pena/contrappasso per opposizione.
Chi in vita non prese mai posizione, non seguì mai una bandiera, non si schierò, è ora costretto ad inseguire in eterno, assurdamente, un'insegna.
Chi non sentì mai l'orgoglio (da Dante inteso come un valore dei magnanimi, e non un peccato, come invece è, pur nella molteplicità d'interpretazione del vocabolo), ora è sobillato in eterno da insetti repellenti.
La condanna, tutta dantesca quindi, degli ignavi, intesi come vili, ha la sua motivazione principale probabilmente nella fierezza del carattere di Dante, nella sua tempra incline a prendere posizione senza mezze misure, a non (saper) astrarre mai da sè, e a schierarsi sempre con i grandi caratteri, con le "tempre" volitive, conquistatrici e inflessibili (anche in senso mundano), che stima spesso nel bene e anche nel male.
Se i Libri Sapienziali (Proverbi, Qohèlet in part.) già affermavano che era infinito il numero degli stolti (intendendo però con 'stolti' non i semplici, i miti, gli umili, ma chi tiene il cuore ostinatamente lontano da Dio),
Dante non sviluppa il concetto di pregio dell'umiltà (miti, puri, umili, ultimi, poveri in spirito favoriti da Dio) dei Vangeli, e lascia intendere che per lui gran parte dell'umanità è stolta, nell'accezione dantesca di -senza nerbo-, e non vede in questo una caratteristica su cui possa rivolgersi la reale Misericordia divina, che in realtà dichiara proprio nei testi sacri di "far grazia agli umili" (altro caso ancora, Luca 1:52)
Per cui, anche in questo tratto d'Inferno, possiamo notare versi divenuti proverbiali, che riteniamo appartenenti alla tradizione e alla memoria collettiva,
ma in cui i significati sono dal poeta intesi in un'ottica differente dai testi originali
da cui sono ispirati.
Bibbia ed Eneide rimangono i modelli letterari e gli antecedenti di Dante anche in questa parte, ma rimane ugualmente vero che proprio Bibbia ed Eneide (così "medievale" l'accostarli, e l'appaiarli, dal momento che per i credenti la Bibbia è la Parola di Dio, l'Eneide un'opera capitale, ma solo umana di Virgilio) non parlano di questo tratto d'umanità in questi termini.
Un indizio, che Dante si riferisse a Celestino V, è da alcuni considerato anche l'uso di citare personaggi senza nominarli direttamente, quando si tratta di casi famosi alla sua epoca, in cui bastava un'allusione a delinearne l'identità; alcuni commentatori suoi contemporanei convergono nell'indicare Celestino V come artefice del "gran rifiuto" e alcuni miniaturisti dipingevano di solito una figura con la tiara nella schiera degli ignavi. Se Dante davvero non avesse voluto indicare Celestino, il resto fece l'opinione popolare e alcuni commentari,
che cristallizzarono nei secoli un'accusa piuttosto sciagurata a un pover'uomo, usato senza scrupoli come capro espiatorio dai potenti del tempo.
Petrarca diede uno spaccato in parte differente di Pietro da Morrone nel "De Vita Solitaria" (il 1313 è la data della canonizzazione di San Celestino V). Per Boccaccio invece, Dante nel verso si riferiva ad Esaù.
Comunque il Petrarca lo considerò a suo modo vile (De vita solitaria, III, 27), ma ritenne la rinuncia "utile a lui e al mondo per l'inesperienza degli affari, perché era uomo di assidua contemplazione, per l'amore alla solitudine", anche se intendeva il gesto coerente con la sua vita di eremita, col suo senso di libertà e del sacro, che fuggiva la corruzione del mondo e della Chiesa.
Il realtà Petrarca e Dante, anche se da posizioni diverse, non misero mai in discussione il fatto che anche il papato dovesse avere un ruolo politico pieno tra le potenze del mondo.
Dante voleva un pontefice disposto a collaborare, alla pari, con l'Imperatore. La sua delusione fu la vista, dopo Celestino, di Bonifacio VIII papa:
sarà infatti Bonifacio VIII causa dell'esilio di Dante da Firenze e per il poeta causa della rovina della città. L'interesse personale diretto non è mai alieno del tutto dalla Commedia.
Petrarca, non così coinvolto in prima persona nella vicenda e nell'aspettativa politica quanto Dante, si limitava ad auspicare un pontefice "capace", "affidabile", tipico nella tradizione della Chiesa Cattolica, e di Celestino capiva la scelta nei termini della volontà individuale del suo spirito, ma non nei fatti di necessità del ruolo della sua carica nel mondo.
Nessuno dei due poeti seppe penetrare fino in fondo il caso dell'eremita Celestino V.
Dante era ancora in vita al momento della canonizzazione del Santo, c'è chi pensa che non avrebbe messo all'Inferno un Santo appena elevato agli onori, e che il passo infernale si riferisca ad altro,
così come c'è chi, conoscendo appunto il vigore del poeta, e che la Commedia è stata ritoccata fino alla morte di Dante, pensa che il poeta potrebbe aver voluto esprimere proprio il suo disappunto sia contro San Pietro/Celestino V sia contro papa Clemente V (il papa autore della beatificazione di Celestino, che però sospese anche l'Ordine dei Templari e spostò la sede del papato in Francia, che Dante colloca proprio all'Inferno tra i simoniaci), sia contro l'abdicazione di Celestino V perchè pur tra i tranelli subiti, il lasciare, diede via libera al cardinale Caetani futuro Bonifacio VIII, noto bersaglio dantesco.
Pier (Pietro) da Morrone (nato Angeleri, nel 1209 o 1215) era un eremita, che espresse una notevole vocazione all'ascetismo, ritirandosi nel 1239 in una caverna sopra il Monte Morrone, sopra Sulmona. Prese i voti sacerdotali a Roma, ma nel 1241 ritornò al Monte, in un'altra grotta ancora più separata dal mondo a vivere in semplicità. Si allontanò dall'eremitaggio per fondare una Congregazione ecclesiastica riconosciuta da papa Urbano IV e confermata poi da Papa Gregorio X (al Concilio di Lione, cui si recò a piedi nel timore della soppressione dell'ordine) come ramo dei Benedettini eremiti, che ebbe la sede nell'Eremo di Sant'Onofrio al Morrone, nota come Fratelli dello Spirito Santo o Celestini.
Il 5 luglio del 1294, dopo ben 27 mesi di conclave dopo la scomparsa di Niccolo IV, 11 cardinali (in lotta tra Orsini, Colonna, Carlo II d'Angiò) lo elessero papa a Perugia, col nome di Celestino V.
Incoronato il 29 agosto, all'età di 79 anni, rinunciò al papato il 13 dicembre 1294, pressato da forze intestine e lotte di potere della curia romana dell'epoca, e morì nel 1296 forse assassinato (le perizie mostrano un buco nel cranio probabilmente risultante da un chiodo infisso nel suo capo, non si sa se causa della morte o successivo) dopo arresto e durissima detenzione in circostanze discusse, imprigionato nella torre del Castello di Fumone ad Anagni; fu catturato mentre stava riparando nelle sue grotte dopo esser stato portato a Napoli in rivolta, poi in procinto di salpare per la Grecia, tra pressioni di Carlo d'Angiò, dei cardinali filofrancesi, degli intrighi di Bonifacio VIII.
La canonizzazione avvenne sia per sollecitazione del re di Francia Filippo il Bello, sia per desiderio popolare (si narra che nel giorno della sua morte, una figura comparve nel luogo della sua prigionia, di visioni simboliche e altre figure di luce), accelerando il procedimento avviato dallo stesso Bonifacio, che nonostante tutto portò a lungo il lutto per Celestino. Tuttavia Clemente V non lo canonizzò come Martire, come richiesto dal sovrano (riconoscendo le circostanze di oppressione che lo avevano portato alla tragica fine), ma come Confessore della Fede. Filippo il Bello in seguito prese parti del corpo di San Celestino da esibire come reliquie, e ancora, in età contemporanea nel 1988 furono trafugate, poi ritrovate, le spoglie del Santo dal Mausoleo della Basilica di Collemaggio.
Qui una biografia più dettagliata .
Tornando al passo dantesco, la critica rimane divisa sul passo anche in pieno Novecento, tanto che Natalino Sapegno teorizza che Dante non pensasse nemmeno a un personaggio concreto per "l'ignavo", ma volesse creare un typos astratto.
Per chiudere un argomento che è un campo di tensioni che ha attraversato i secoli, incontenibile in un banale post, anche il libro "L'avventura di un povero cristiano" di Ignazio Silone è dedicato alla vita di Celestino V.
Josh