domenica 28 dicembre 2014

Le poesie del Grande Freddo


Siamo entrati tra il 21 e il 22 nel solstizio di inverno. Tutti conoscono Sol Invictus ("Sole invitto") o in modo più completo Dies Natalis Soli Invicti , un appellativo religioso usato per diverse divinità nel tardo Impero romano: Helios, El-Gabal, Mitra che finirono per essere assimilate, nel periodo della dinastia dei Severi, all'interno di un monoteismo "solare".La terminologia relativa alla luce e alle sue fonti: lucerna, fuoco, stelle, luna e -primo fra tutti- sole, si riferisce innanzitutto alla loro realtà fisica. In seguito all'esperienza umana questi termini si caricarono di ulteriori significati mistici e divennero metafora o simbolo, assumendo  di volta in volta,
significati più ampi e complessi. Nella tradizione cristiana, il Natale celebra la nascita di Gesù a Betlemme da Maria. Il racconto ci è pervenuto attraverso i vangeli secondo Luca e Matteo, che narrano l'annuncio dell'angelo Gabriele, la deposizione nella mangiatoia, l'adorazione dei pastori.

Il solstizio d’inverno ricalca anche la simbologia della morte e della rinascita, incarna la morte del vecchio dio Sole e la nascita del Sole giovane e pieno di vitalità (il  citato “Dies Natalis Soli Invicti” – il giorno di rinascita del Sole Invitto), come anche la morte del seme nella terra, simbolo del grembo materno, che lo conserverà fino alla sua rinascita e germinazione. 

Il solstizio d’inverno veniva celebrato con grandi fuochi, candele, falò che servivano a radunare gli amici per festeggiare le giornate che si allungano man mano e la fine della lunga notte. Ovvero,  la rinascita del mondo. Oggi con le modificazioni climatiche in atto, le grandi brinate che finemente decorano erba, foglie e rami di piccoli aghi di ghiaccio, la galaverna coi suoi pittoreschi rivestimenti cristallini, le abbondanti nevicate sono un ricordo lontano. I primi fiocchi di neve e i primi veri freddi di questi giorni, sono pertanto una grande festa.  Restano però pagine bellissime, quadri, poesie a ricordarci le nostre orme  lontane nella neve.



Inverno a Milano
Vedete là nel cielo, in quel piccolo sole
d'inverno tra le nebbie, un ricordo del sole?
Come la luna guarda e si lascia guardare.
Milano a mezzogiorno è già crepuscolare.
E gli alberi anneriti in quel freddo d'argento
hanno rami gentili, a tratti passa il vento,
un vento senza voce, a poco a poco imbruna.
Solo il piccolo sole come una grande luna.
Così il Duomo fiorito di grigio e di lichne
Appare nelle nebbie delle notti serene

Alfonso Gatto







Dal cielo tutti gli Angeli
videro i campi brulli
senza fronde né fiori
e lessero nel cuore dei fanciulli
che amano le cose bianche.
Scossero le ali stanche di volare
e allora discese lieve lieve
la fiorita neve.

Umberto Saba

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Il testamento di un albero
Un albero d’un bosco
chiamò gli uccelli e fece testamento
“Lascio le foglie al vento,
i frutti al sole e poi,
tutti i semetti a voi,
a voi, poveri uccelli,
perché mi cantavate la canzone
nella bella stagione …
E voglio che gli stecchi
quando saranno secchi,

facciano fuoco per i poverelli.

Trilussa





Un Dolce Pomeriggio d’Inverno

Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce
perché la luce non era più che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là fuori del mondo.
Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavano via leggiere e belle
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre più in alto volavano mai stanche.
Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c’era più una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d’un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l’angelo che a Te mi conduce.
C. Betocchi

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Bacche e ruggine 
L'accendersi improvviso delle lampade
nella nebbia del ponte,
l'arcana luce dei tuoi capelli
neri riflessa dall'acqua che si muove.
E giorno d'inverno ha fiorito
di bacche le siepi deserte, di ruggine
vestito i cancelli, il silenzio
dura sino a notte.

Attilio Bertolucci

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Giorno d’inverno 
Nevica: l'aria brulica di bianco;
la terra è bianca, neve sopra neve;
gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco,
cade del bianco con un tonfo lieve.
E la ventata soffia di schianto
per le vie mulina la bufera;
passano bimbi; un balbettio di pianto;
passa una madre; passa una preghiera!

Giovanni Pascoli
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Paesaggio invernale 
Respirano lievi gli altissimi abeti
racchiusi nel manto di neve.
Più morbido e folto quel bianco splendore
riveste ogni ramo, via via.
Le candide strade si fanno più zitte:
le stanze raccolte più intente.
Rintoccano l'ore. Ne vibra
percosso ogni bimbo, tremando.
Di sopra gli alari, lo schianto d'un ciocco

che in lampi e faville rovina.

Rainer Maria Rilke





Auguri di Capodanno
Io credo all'uccellino batticoda:
che ci porti il buon anno.
Scorre liscio sull'umido tappeto
di bruni muschi, alla soglia del mare,
sosta un tratto a beccare, e poi di nuovo
scivola via come una spola, vola,
sparisce in cielo. Neppur ci ha guardati.
Ma è bello, affusolato, grigio e bianco:
porta, certo, il buon anno.



Diego Valeri




Ai lettori e internauti, un sentito Augurio di Buon Anno!


lunedì 17 novembre 2014

Pronto, chi legge? ovvero, la lettura dimenticata

Leggiamo ancora? E quanto leggiamo? Se si tratta della lettura dei giornali, posso anche capire che vi si rinunci: dicono il falso, omettono l'interessante, filtrano e fanno "velina" secondo occulti giochi di potere verso chi li finanzia. Poi oggi con l'informazione fai-da-te che proviene dal web, è più che  normale  che si preferisca ragionare con propria testa, andando a reperire personalmente le fonti. Ultimamente però i grandi abbandonati sono proprio i libri.  Si cerca, pertanto,  di correre ai ripari con iniziative per incentivare la lettura come ad esempio, l'omaggio di opuscoli che contengono classici, la nascita di associazioni culturali con relativo prestito di libri.  Ci sono perfino tratti ferroviari regionali come Trenord che danno in opzione un libro al viaggiatore affinché inganni il tempo con la lettura, da restituire quando il  viaggiatore-pendolare torna alla base. Tuttavia non si legge più, o si legge sempre meno:  inutile negarlo.  Qualcuno sostiene che la lettura si sia spostata sui tablet, su lavagnette luminose, su smartphone e sui display dei cellulari. In realtà potremmo dire che è esattamente il contrario: è a causa della rivoluzione high-tech che il mondo di Gutenberg è stato messo in dura precarietà.  Basta dare un'occhiata alla crisi attraversata dall'Editoria, alla chiusura di importanti librerie del centro delle città d'Italia. La visualizzazione luminosa del testo scritto con icone, immaginette, colori ecc. rende più invitante il leggere, che aprire un polveroso libro tutto fatto di caratteri uniformi. Non c'è nulla di più astratto e simbolico dei caratteri di stampa. Ma visualizzare non significa necessariamente leggere.  

Un tempo la scrittura-lettura aveva caratteri divini (la Bibbia - Il Libro), di rivelazione.
Gli scribi, nell'antico Egitto, appartenevano a una casta molto potente, ammirata e ben retribuita che si occupava dell'amministrazione del paese. Nel Regno Antico essi venivano scelti tra le famiglie nobili.

Il tempo per formare uno scriba era molto lungo: solo gli alunni più dotati, coloro che imparavano l'arte complicata del geroglifico monumentale, riuscivano ad arrivare a corte. Lo scriba, mantenendo il segreto della sua professione, tramandava le sue conoscenze di generazione in generazione. Agli scribi era assegnato come protettore Thot, il dio della scrittura e della saggezza, nonché mago e messaggero degli dei.

Gli scribi assunsero un ruolo di grande importanza, formando una classe intellettuale di alto calibro nella società egizia. Per una ragionata storia della scrittura (attività mai disgiunta dalla lettura) leggere qui:

http://www.funsci.com/fun3_it/scrittura/scrittura.htm

Per motivi di spazio, sono costretta a saltare la pratica della scrittura-lettura presso Greci e Latini, ma il mio pdf del Carboni, ovvia perfettamente alla bisogna.  Tra i metodi di conservazione dei testi, grande, paziente, minuziosa e laboriosa fu l'opera dei Monaci Amanuensi nelle certose e abbazie durante e dopo le invasioni barbariche. In primis S. Benedetto da Norcia, la sua Regola  e i suoi benedettini.
 

Johannes Gutenberg
Poi arrivò Gutenberg e con esso la rivoluzione della stampa a caratteri mobili. La stampa a caratteri Donatus pro puerolis (cioè una grammatica latina per i bambini, ora disperso), il De Oratore di Cicerone, il De Civitate Dei di Sant'Agostino  tutti con una tiratura di 275 copie. Una pressa come quella di Gutenberg venne costruita a Venezia nel 1469; nel 1500 la Serenissima contava ben 417 editori. Dopo l'invenzione della stampa a caratteri mobili, Venezia divenne la città più importante per il settore dell'editoria. Ciò fu possibile grazie ad alcuni fattori come la grande libertà di stampa che vigeva nel territorio della Serenissima, l'estesissima rete commerciale della repubblica, l'impiego della carta prodotta dalle cartiere di Piave Brenta e lago di Garda, l'alto tasso di alfabetizzazione della popolazione maschile veneziana e la grande disponibilità di capitali messi a disposizione da parte dei nobili veneziani. Da allora, ne cambiarono cose, nell'ambito della cultura, della scienza, della letteratura, della poesia, della musica, nella distribuzione dei volumi stampati. 


Ora però sembra di vivere nuovamente un'era barbarica: c'è più bulimia da informazione, ma meno cultura; c'è più abilità, ma meno formazione e costruzione dell'Individuo. Soprattutto si è costituito un esercito di "scriventi", ma pochi o nessun vero scrittore. Mentre scarseggia o o addirittura manca l'attento lettore.
E' del mio parere anche lo scrittore statunitense Nicholas Carr, autore del saggio "Google ci sta rendendo  stupidi?" in questa intervista concessa al Corriere  nel quale parla della pervasività della rete, dei suoi vantaggi, ma anche delle sue controindicazioni...


Basta prendere Internet e le tecnologie digitali a scatola chiusa. Offrono opportunità straordinarie di accesso a nuove informazioni, ma hanno un costo sociale e culturale troppo alto: insieme alla lettura, trasformano il nostro modo di analizzare le cose, i meccanismi dell’apprendimento. Passando dalla pagina di carta allo schermo perdiamo la capacità di concentrazione, sviluppiamo un modo di ragionare più superficiale, diventiamo dei pancake people, come dice il commediografo Richard Foreman: larghi e sottili come una frittella perché, saltando continuamente da un pezzo d’informazione all’altra grazie ai link, arriviamo ovunque vogliamo, ma al tempo stesso perdiamo spessore perché non abbiamo più tempo per riflettere, contemplare. Soffermarsi a sviluppare un’analisi profonda sta diventando una cosa innaturale».



Nicholas Carr è la bestia nera dei fan della Rete «senza se e senza ma» e dell’industria delle tecnologie digitali. Due anni fa un suo saggio, pubblicato dalla rivista «The Atlantic» col provocatorio titolo «Google ci sta rendendo stupidi?», fu il primo sasso gettato nello stagno della Internet culture. Carr, uno studioso che ha lavorato nella consulenza aziendale e ha diretto a lungo la «Harvard Business Review», fu bollato dal popolo del web come un nemico della tecnologia. 

In realtà — racconta oggi dalla sua casa in Colorado dove si è ritirato a scrivere libri—fin dagli anni Ottanta sono sempre stato un consumatore febbrile delle tecnologie digitali a cominciare dal Mac Plus, il mio primo personal computer. Sono sempre stato un tecnofilo, non un tecnofobo. Ma il mio entusiasmo si è man mano attenuato con la scoperta che, oltre ai vantaggi che sono sotto gli occhi di tutti, la Rete ci porta anche svantaggi assai meno evidenti e proprio per questo più pericolosi. Anche perché gli effetti saranno profondi e permanenti ».


Jaron Lanier, il genio dell’intelligenza artificiale che in un recente libro- manifesto ha messo in guardia dal «collettivismo» di Internet che uccide la creatività individuale, in Rete è stato bollato come un traditore. Sarà più difficile trattare nello stesso modo The Shallows («Superficialità: Quello che internet sta facendo alla nostra mente») il suo nuovo libro che già fa discutere quando mancano ancora più di due mesi alla pubblicazione negli Usa. Il perché lo spiega lo stesso Carr: «Quello sull’"Atlantic" era un saggio scritto sulla base della mia esperienza personale, una riflessione su come la cultura digitale ha cambiato il mio comportamento. Negli ultimi due anni mi sono sforzato di andare oltre il personale, esaminando le evidenze scientifiche e sociali di come Internet—e anche rivoluzioni precedenti come quella dell’alfabeto — hanno cambiato la storia intellettuale dell’umanità. E di come le nuove tecnologie influenzano la struttura del nostro cervello perfino a livello cellulare.


La scuola dovrebbe insegnare a usare con saggezza le nuove tecnologie. In realtà, però, gli educatori e perfino i bibliotecari si stanno abituando all’idea che tutta l’informazione e il materiale di studio possano essere distribuiti agli studenti in forma digitale. Dal punto di vista economico ha certamente senso: costa meno. Ma limitarsi a riempire le stanze di sistemi elettronici è miope. Come ci insegna McLuhan, il mezzo conta, e parecchio. Senza libri non solo è più difficile concentrarsi, ma si è spinti a cercare di volta in volta su Internet le nozioni fin qui apprese e archiviate nella nostra memoria profonda. La perdita della memoria di lungo periodo è il rischio più grosso: è un argomento al quale ho dedicato un intero capitolo». (...)




Oggi, poi, non c’è solo l’uomo più o meno capace di plasmare il suo futuro: pesano anche gli interessi delle grandi corporation delle tecnologie digitali. Riecco Google...

«A far fare soldi alle società della Rete è il nostro moto perpetuo da un sito all’altro, da una pagina web all’altra.  Sono i nostri clic compulsivi a far crescere gli incassi pubblicitari. L’ultima cosa che può desiderare una società come Google è che diventiamo più riflessivi, che ci soffermiamo di più su una singola fonte d’informazione ».

Curioso. A sostenere la tesi della libertà assoluta della Rete, senza regole né percorsi educativi, sono soprattutto i progressisti. Con argomenti che, almeno negli Stati Uniti, a volte ricordano quelli usati dai libertari conservatori sulle armi, contro i vincoli in campo ambientale o le regole di educazione alimentare che avrebbero potuto evitare le epidemie di obesità e diabete. Nemmeno Google suscita, per ora, grandi diffidenze. Perché?


«Perché la controcultura della sinistra Usa, contrarissima ai grandi calcolatori Ibm fino ai roghi di schede perforate degli anni ’60, ha poi scoperto nel personal computer — uno strumento individuale sottratto al controllo delle corporation e dei governi— uno strumento di libertà. Ed effettivamente era così, è stato così a lungo. Ma negli ultimi anni molto è cambiato: dal crowdsourcing che significa lavoro e idee gratuite per molte società che operano in Rete, alle reti sociali come Facebook che si comportano come latifondisti dell’Ottocento: affittano gratuitamente pezzetti di terra per poi guadagnare sulla sua coltivazione. È ora di cominciare a riflettere».


Qui l'intera intervista: http://www.corriere.it/cultura/10_marzo_27/gaggi_rete_e417c1d0-397a-11df-862c-00144f02aabe.shtml




Per finire, non sappiamo questo nuovo mondo virtuale, così collettivistico e fatto di "condivisioni" (termine abominevole) , ma anche di solitudini e di lunghi silenzi, dove ci porterà. Né sappiamo se il testo stampato continuerà ancora a lungo o sarà relegato a musei, biblioteche e operazioni nostalgia. Voglio mettere in guardia gli "ultramoderni" dalla facile obiezione secondo la quale si possono scaricare anche i "classici" da Internet. Vero, ma si possono anche manomettere, tagliare e perfino modificare parti ritenute poco adatte al pubblico, o addirittura politicamente scorrette e poco convenienti.

Nel frattempo, consiglio di non farvi prendere dalla furia iconoclasta o biblioclasta, di sbarazzarvi dei vostri libri per far largo a dischetti, chiavette, Cd e altre diavolerie, con la scusa che occupano spazio e che la casa è piccola. E' certo che li rimpiangerete.

lunedì 13 ottobre 2014

Tasse e opere d'arte: il Grande Sbaglio di Sgarbi



L'Angelico non si fe' con Usura
Leggo della legge applicata dal ministro Dario Franceschini sul pagare le tasse con opere d'arte. Soprattutto mi lascia assai perplessa la replica di Sgarbi sul Giornale nel quale plaude all'iniziativa sperticandosi in lodi su Franceschini, da lui giudicato "colto, sensibile, appassionato" nonché "curioso di letteratura e fine scrittore". E' troppo per un governo auto-insediatosi senza essere stato eletto. Ma soprattutto colpisce l'ingenuità di Vittorio Sgarbi nel credere che la confisca dei Beni culturali per chi non adempie al pagamento delle pesanti gabelle emesse dall'Agenzia delle Entrate, possa far crescere e incrementare  il nostro patrimonio artistico.

Ora, singoli quadri o collezioni costituiscono un arricchimento che è esattamente l'opposto del vandalismo distruttivo delle opere pubbliche. Garantirsi le tasse, nella percentuale certamente limitata, attraverso donazioni di opere d'arte è un'intuizione felice che, in passato, fu applicata alla grande Collezione Contini Bonacossi che ha potenziato i musei fiorentini.


Che film ha visto, Sgarbi!? Ma soprattutto, lui che ha avuto a che fare con la politica, in che mondo crede di vivere? Nel paese di Shangri-là? Lo Stato-Banco dei Pegni è un'aberrazione morale e sociale.

Pagare le tasse con donazioni d'arte è una furbata usuraia non dissimile alla confisca di una casa, di un terreno agricolo o di altro bene di prima necessità, poiché lo stato si fa collettore per conto di entità sovranazionali, il cui scopo è quello di renderci eternamente debitori. Ecco dunque che lo stato si trasforma per l'uopo in un grande Banco dei Pegni, ad uso confisca. L'utente porta un bel Carrà  o un Soffici all'Ageniza delle Entrate, e in cambio che gli tocca? Una cartella dove risulta con tanto di timbro  che il suo debito è stato quietanzato. Sai che soddisfazione! Si perde il Bene duraturo, in cambio di un pezzo di carta.

A parte il fatto che chi dispone di un dipinto di valore o di una scultura o di altro bene prezioso (si parla pure di vasellame)  sa a chi rivolgersi per un'eventuale vendita ben remunerata, con tanto di expertise. Quindi nel caso in cui,  il malcapitato, cadesse in disgrazia è assai meglio per lui,  vendere a privati intenditori e col ricavato pagarvi anche le tasse, che portare direttamente l'opera a Equitalia. Ma se così non dovesse essere, posso già preconizzare a chi andrebbe in mano questa eventuale collezione di pregio. Lo stato rastrella, raccoglie, confisca ma lungi dal  voler credere che tutto questo rappresenti Bellezza, caro vecchio Sgarbone, siamo alla Bruttezza usuraia  che trattiene in serbo per conto  delle banche. Un domani, costoro si ritrovano uno stato sgangherato, indebitato e deficitario che  però ha inventariato e  rastrellato su commissione, un patrimonio artistico privato. Questo sì, è un vero tesoretto inatteso!
Beni artistici che non potranno essere utilizzati per il pubblico, poiché  essi passeranno direttamente ai caveaux delle potente banche d'Affari, quelle stesse che hanno provocato la crisi. Saranno loro che decideranno se tenerlo nei loro forzieri o utilizzarli per battere asta da Christie's o Sotheby's. 


Se è vero come scrive Sgarbi nell'articolo che  "l'arte sia il bene più alto di qualunque civiltà e la inevitabile salvezza dell'Italia", non è certo questo il sistema per salvaguardarla. Semmai è il modo peggiore per alienarla a chi possiede artigli acuminati. E cioè a chi sa benissimo di aver emesso moneta fasulla (l'euro) provocando una crisi surrettizia avente lo scopo di ottenere in cambio di carta straccia, beni veri e duraturi
Nel mentre, si introduce il pericoloso stratagemma del "pagamento in natura" anziché in contanti, il che potrebbe tornare utile nei casi di "demonetizzazione provocata" per l'uopo. E allora siamo all'assalto al  "bottino", al "saccheggio" del tutto simile a  quello degli sciacalli e dei predoni durante le guerre. 

con usura
non v'è chiesa con affreschi di paradiso
harpes et luz
e l'Annunciazione dell'Angelo
con le aureole sbalzate,
con usura
nessuno vede dei Gonzaga eredi e concubine
non si dipinge per tenersi arte
in casa ma per vendere e vendere
presto e con profitto, peccato contro natura,


E ancora:

....Pietro Lombardo

non si fe' con usura
Duccio non si fe' con usura
né Piero della Francesca o Zuan Bellini
né fu "La Calunnia" dipinta con usura.
L'Angelico non si fe' con usura, né Ambrogio de Praedis,


Duccio di Buoninisegna  (Duccio non si fe' con usura )

né Piero della Francesca 

Faccia qualche presenza in meno in tv caro Sgarbi, e si legga questi versi di Ezra Pound, possibilmente, meditandoci sopra. Svendere ad uno stato in via di dismissione è insieme reato e "peccato contro natura", per dirla con le parole del grande Pound.  Ma soprattutto è grave che gli intellettuali come lei, non lo capiscano e non utilizzino la sua popolarità per farlo capire ai più sprovveduti. 


Un sospettuccio, però, ce l'avrei: che cosa gli ha promesso Franceschini in cambio di questo brutto articolo-peana?

venerdì 19 settembre 2014

Segantini a Milano: il ritorno



Giovanni Segantini è apparso già due volte su questo blog. Una volta per sole immagini nel 2008 e un'altra volta a proposito del divisionismo nel 2010. Ora Milano ci propone questo grande italiano, svizzero d'elezione, internazionale per fama,  in una bellissima mostra di 120 opere in otto sale di Palazzo Reale. E' la più grande esposizione in Italia dalla fine dell'Ottocento.

"L'arte è Amore rivestito di Bellezza" (G.Segantini)

Dalla sua formazione milanese alla vita in Svizzera dove venne un po' trattato come "montanaro di lusso". Distribuite in otto sale su una superficie di 1500 mq, le opere sono organizzate per temi, «Per meglio far comprendere l'evoluzione della narrativa segantiniana», come spiega la curatrice Annie-Paule Quinsac, che a Segantini ha dedicato quasi mezzo secolo di studi e otto mostre in tutto il mondo, coadiuvata nel suo lavoro per Milano da Diana Segantini, pronipote dell’artista e già curatrice della mostra tenutasi alla Fondazione Beyeler nel 2011.

L'Angelo della Vita



«Quello di Segantini è un simbolismo che vuole esprimere ciò che della natura non si vede con gli occhi - continua la Quinsac - Si tratta di un aspetto latente già nelle opere giovanili, che si sviluppa mano a mano che l'artista conosce un'evoluzione tecnica. In questo senso il divisionismo diventa per lui lo strumento ideale per tradurre in pittura ciò che intendeva esprimere».


Già Paola Capriolo, scrittrice germanista, amante di atmosfere metafisiche ebbe a scrivere su di lui uno splendido articolo dal titolo "In fuga dalla modernità". A Basilea nel 2011 visitò  le opere che raccontano una complessa esperienza pittorica e umana  e ne diede conto nell'articolo sul Corriere testé linkato.
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Un percorso per alcuni aspetti  vicino a Van Gogh, Cézanne e Rothko. A Sankt Moritz è aperto in pianta stabile il Museo Segantini dove, tra l’altro, è visibile il monumentale «Trittico della natura». Milano non è il primo luogo che viene in mente pensando a Giovanni Segantini (nato nel 1858 ad Arco, in Trentino, e morto improvvisamente, a soli 41 anni, nel 1899, a Pontresina, in Svizzera). Eppure è proprio qui che il pittore delle cime sublimi e dei pascoli alpini ha scoperto e coltivato il suo talento, prima tra i banchi dell’Accademia di Brera, poi sotto l’ala protettrice dei galleristi Grubicy. E proprio Milano è la protagonista dei suoi lavori giovanili: tra il 1879 e il 1881 i Navigli, le chiese e la borghesia illuminata dell’epoca animeranno tele e disegni.


A Milano arriva nel 1865 a sette anni e se ne andrà nel 1881 per trasferirsi prima in Brianza e poi in Svizzera, a Savognino e poi in Engadina. Resta dunque nel capoluogo lombardo diciassette anni, fondamentali per lo sviluppo della sua carriera artistica e per la sua fortuna di artista. Milano rimarrà il fulcro della parabola segantiniana, la perenne finestra sul mondo dell’arte.


Il percorso della mostra si apre con una sezione introduttiva di documenti, fotografie, lettere, libri, il busto di Segantini eseguito da Paolo Troubetzkoy e quello giovanile di Emilio Quadrelli, il ritratto di Segantini sul letto di morte, acquarello di Giovanni Giacometti, suo amico fraterno e padre del celebre scultore Alberto.

Segue una sezione preliminare con quasi tutti gli autoritratti di Segantini, che permettono di percepire l’evoluzione dall’immagine “realistica” che il pittore dà di se stesso nell’Autoritratto all’età di vent’anni (1879-1880), alla progressiva trasformazione simbolista in icona bizantina, nel carboncino su tela del 1895.

Milano è centrale nella vita e nell’opera del maestro, è il luogo dove Segantini preferisce esporre, dove ha sede la galleria Grubicy che, tramite Vittore prima e Alberto poi, lo sostiene e lo introduce alla borghesia illuminata lombarda, facendogli conoscere, attraverso pubblicazioni e riproduzioni, la maggiore arte contemporanea europea: da Millet, cui sarà spesso accostato, alla Scuola di Barbizon sino alla scuola olandese che ne deriva. A Milano assimila le nuove tendenze artistiche, dapprima la Scapigliatura, poi il Divisionismo, di cui sarà considerato il corifeo, sino al Simbolismo, che rielaborerà in modo personalissimo e visionario. Tuttavia, alla città stessa Segantini dedica pochi lavori, tutti presenti in mostra nella I sezione Gli esordi come Il coro di Sant’Antonio (1879) o gli scorci cittadini quali Il Naviglio sotto la neve (1879-1880), Ritratto di donna in Via San Marco (1880), Nevicata sul Naviglio (1880 circa), Il Naviglio a Ponte San Marco (1880), rimanendo estraneo alla rinascita di quella poetica urbana che genera una vera e propria iconografia della città in trasformazione. In questa sezione introduttiva della mostra viene presentato il dittico "I pittori di una volta"," I pittori di oggi", la cui prima parte, disgiunta da Vittore Grubicy dopo la mostra del 1883 e non più esposta, è stata ritrovata di recente. Segantini resta comunque dal 1886 un outsider rispetto alla cultura milanese, comunque determinante nelle sue scelte di artista e di uomo e della quale influenza gli sviluppi: “Una posizione in bilico – spiega la Quinsac nel suo saggio in catalogo – la cui peculiarità ha originato gli equivoci del Novecento, spiazzando la fortuna critica, comunque spezzettata tra tre paesi, Italia, Austria e Svizzera, che tuttora se lo contendono”.


Il Naviglio a Ponte S. Marco


Non è un caso, quindi, se proprio il ponte di San Marco, il coro di Sant’Antonio e una composta signora Torelli (che altri non è che la moglie del fondatore del «Corriere della Sera»), sono tra le prime opere ad accogliere il visitatore alla grande mostra «Segantini», dal 18 settembre a Palazzo Reale. Quest’opera appartiene a una famiglia che ne è proprietaria sin dal 1898. E poi L’ebanista Mentasti (1880), il Ritratto di Carlo Rotta (1897), pretesto per una meditazione sulla morte, o Petalo di rosa (1890), dipinto sopra il precedente Tisi galoppante del 1883, nel quale il volto della compagna Bice al risveglio è simbolo di sensualità: la scelta di opere effettuata intende illustrare l’evoluzione simbolista che l’artista impartisce al genere del ritratto.

La III sezione. Il vero ripensato ne lquale presenta una serie di straordinarie nature morte, genere obbligato alla fine dell’Ottocento, cui Segantini si dedica con eccellente maestria sia in pannelli decorativi, di cui sono esposti due bellissimi esempi con frutta e fiori, sia nella sua personalissima maniera di costruire il reale in quadri che paiono astratti come Funghi (1886), Pesci (1886), Anatra appesa (1886). 
La IV sezione Natura e vita dei campi raccoglie i capolavori sulla vita agreste caratterizzati dalla presenza femminile, come La raccolta dei bozzoli (1882-1883), Dopo il temporale (1883-1884), L’ultima fatica del giorno (1884) sia nella versione a olio che in quella a pastello che nell’ultima del 1891 a carboncino, Vacca bagnata (1890), mai esposto in Italia, Ritorno all’ovile (1888), Allo sciogliersi delle nevi (1891), Riposo all’ombra (1892), La raccolta delle patate (1886), La raccolta delle zucche (1884 circa), sino al primo paesaggio monumentale Alla stanga (1886). All’interno  di questa sezione troviamo una sottosezione Il disegno dal dipinto, a testimonianza del continuo rifacimento di Segantini dei propri lavori, che venivano modificati per arrivare a soluzioni diverse: sono qui esposti mirabili disegni tratti dal dipinto già realizzato, opere compiute e di altissima qualità stilistica.
Mezzogiorno sulle Alpi 

Segantini si riallaccia alla tradizione della pittura contadina derivata da Millet e dai pittori veristi francesi della metà dell’Ottocento, la supera e arriva poi al simbolismo di una natura incentrata sul paesaggio, dove il contadino è incidentale nella natura. Raffigura inoltre la religiosità degli umili, cui da voce in opere fondamentali presenti nella V sezione Natura e simbolo come Effetto di luna (1882), il celeberrimo Ave Maria a trasbordo (II versione 1886) presentato con i vari disegni precedenti e successivi alla tela, Ritorno dal bosco (1890), opere “dove Segantini già tocca, in embrione – afferma la  Quinsac – le tematiche chiave cardine del suo simbolismo: solitudine al cospetto della natura, armonia tra natura e destino, calore e tenerezza delle greggi, implicito parallelo tra maternità umana e animale”. Anche in questa sezione sono presenti importanti disegni tratti da dipinti come La raccolta del fieno (1889-1890), All’arcolaio (1892), Ave Maria sui monti (1890).

Con il trasferimento in Svizzera nel 1886, Segantini approda al suo personale divisionismo, spezzando la materia in lunghi filamenti di colore. Protagoniste saranno le Alpi, prese sempre di scorcio. Oltre alle donne compaiono gli uomini, anche se dopo il 1890 la natura dominerà sempre di più la scena in composizioni molto vaste dove la presenza umana sarà solo simbolica. Ai capolavori indiscussi del periodo di Savognino, Mezzogiorno sulle alpi (1891), il famosissimo  già citato Ritorno dal bosco (1890) che Milano ha usato quale logo della mostra stessa nel quale la donna sembra avviarsi  dal bosco ai piedi di un' altra montagna: il Duomo. Fanno seguito le monumentali opere in formato orizzontale, in un divisionismo atto a rendere la luce rarefatta delle Alpi, in cui il paesaggio è maggiormente protagonista e assurge a simbolo come L’ora mesta (1892), Donna alla fonte (1893), Primavera sulle Alpi (1897).
Donna alla fonte


La VI sezione Fonti letterarie e illustrazioni mostra l’evoluzione del modus operandi di Segantini attraverso importanti disegni ispirati a opere letterarie e religiose, la Bibbia e Così parlò Zarathustra di Nietzsche.

Nella VII sezione, dedicata al Trittico dell’Engadina, viene ricostruita attraverso disegni, studi preparatori e filmati la genesi di questa monumentale opera concepita tra il 1896 e il 1899 e considerata il testamento spirituale dell’artista.

Le  due madri
Nella sezione conclusiva La maternità sono presenti altri capolavori come lo splendido olio Le due madri (1889) della GAM di Milano, considerato manifesto del divisionismo italiano alla prima Triennale di Brera che vide la nascita ufficiale del movimento, e le opere simboliste in cui l’uso dell’oro e argento in polvere si abbina a una tecnica mista di derivazione divisionista, come le due versioni de L’Angelo della Vita (1894), quella della GAM e quella di Budapest, riprese anche in due disegni, e L’amore alla fonte della Vita (1896). A ulteriore approfondimento, i visitatori saranno qui accompagnati anche da un breve filmato che li aiuterà a comprendere nella sua totalità la riflessione segantiniana sul tema della maternità che, anche per via della sua vicenda familiare, si era trasformato per lui in un’ossessione e nel quale il suo simbolismo raggiunge gli esiti più alti.

Comune di Milano "Il ritorno di Segantini"

Orari: lunedì dalle 14.30 alle 19.30; da martedì a domenica dalle 9.30 alle 19.30. Giovedì e sabato apertura prolungata fino alle 22.30 (ultimo ingresso un'ora prima della chiusura).

domenica 20 luglio 2014

Aldo Grasso e il doppiaggio "fascista"

Ne leggo una buona dal critico televisivo Aldo Grasso,   su Sette, l'inserto settimanale del Corriere della Sera: il doppiaggio cinematografico sarebbe un retaggio fascista da eliminare, dato che ormai la generazione Erasmus è tutta anglofona. Suppongo che di questo passo, Grasso, sia favorevole anche a veicolare una lezione di cattedra universitaria in Inglese all'università Cattolica del Sacro cuore dove insegna Storia della radio e della televisione  Ecco mi piacerebbe  proprio vederlo all'opera quando toccherà  a lui.  Coraggio prof. Grasso: reciti la sua lezioncina di cattedra in Inglese. Ormai si spreca l'anglofilia invocata ovunque, per rendere il nostro paese più suddito di quanto non sia già: lezioni di Filosofia in Inglese, lezioni di discipline scientifiche in Inglese. Già che ci siamo, perché non rottamiamo l'Italiano e la sua Letteratura eliminandola dalle scuole di stato? Ecco dunque il testo dell'articolo di Grasso. Il corsivo evidenziato in colore è mio.

Dopo tre settimane è stato sospeso lo sciopero dei doppiatori. Si riapre, quindi, uno spiraglio sul rinnovo del contratto che è scaduto nel 2011. Lo sciopero è stato indetto dall'Anad (Associazione nazionale attori doppiatori) con il sostegno dei sindacati e dell'Associazione dialoghisti e adattatori. I doppiatori italiani sono circa un migliaio e prestano la loro voce al cinema ma soprattutto alla tv, a tutte le fiction straniere che hanno invaso i palinsesti delle reti, specie delle pay-tv.
Pur rispettando il lavoro dei doppiatori (hanno fama di essere i più bravi, siamo cresciuti con le magiche voci di Tina Lattanzi, Carlo Romano, Laura Gazzolo, Lidia Simoneschi, Emilio Cigoli..),  (ha dimenticato Alberto Sordi, caro Prof, il quale ha dato avvio alla  sua carriera cinematografica proprio grazie al fatto di essere stato il doppiatore di Oliver Hardy- Onllio. Più di recente anche il bravo Ferruccio Amendola, doppiatore di qualità di De Niro, Al Pacino e Dustin Hoffmann) è venuto il momento di chiedersi: ma ha ancora senso il doppiaggio? Non c'è ragazzo che non si scarichi una serie in lingua originale e la generazione Erasmus non tollera più di vedere film doppiati. Al massimo, sottotitolati. (e chissenefrega della generazione Erasmus!? Non mi dirà che tutta la  grande categoria degli spettatori si limita  e  si riduce a questa).
 
Ormai Sky e Mediaset, Premium mandano in onda le serie con sottotitoli e nessuno si è lamentato (tra l'altro, bisogna andare in onda quasi in contemporanea con gli Usa per tentare di prevenire operazioni di pirataggio) (chi le ha detto che nessuno si lamenta? Le sono venuti a scrivere personalmente per dirle: "Caro Grasso, io come spettatore non mi lamento di leggere i sottotitoli?" Le pare bello seguire un dialogo vivace di una commedia brillante, limitandosi a leggere i sottotitoli? ).

Il doppiaggio è una tecnica voluta fortemente dal fascismo. (anche le bonifiche della Maremma Toscana e dell'Agro Pontino furono volute dal fascismo. E' forse una buona ragione per tornare alla Malaria?) .
All'inizio poteva essere effettuato in due modi: nel Paese di origine, utilizzando persone che conoscessero altre lingue, o direttamente nei Paesi in cui il film doveva essere distribuito (è il caso della Mgm, che aprì i propri studi di doppiaggio a Roma già nel 1932). Il governo italiano, prendendo a pretesto la difesa della "purezza" della lingua incoraggiò il doppiaggio italiano, invocando la maggior professionalità dei nostri attori. Del resto, i film doppiati in America dagli italo-americani creavano effetti comici irresistibili. Il doppiaggio in Italia rappresentava inoltre un notevole vantaggio per la censura: maggior controllo e possibilità di modificare i dialoghi. Il pubblico italiano cominciò così ad abituarsi a una tecnica capace di dare una voce italiana, in un effetto di illusione e di riconoscimento voce-volto sempre più  affinato per ritmo e sincronismo delle labbra, alle performance delle star hollywoodiane. Nel 1933 il fascismo istituisce i "buoni di doppiaggio" a difesa della produzione nazionale. Il meccanismo prevede che per ogni film nazionale realizzato un produttore ottenga tre buoni che esonerano dal pagamento della tassa sull'importazione di film stranieri. Da allora, la pratica del doppiaggio è diventata una dei capisaldi della distribuzione.
 (mi sembra un modo corretto per incentivare la distribuzione cinematografica presso un pubblico a quei tempi ancora incolto, al quale almeno fu data l'opportunità di sentir parlare in "buon Italiano". Le fa proprio così schifo?).
 
Con tutto il rispetto per il lavoro dei doppiatori,il procedimento pare in lenta via d'estinzione. Nelle altre nazioni europee, i film doppiati stanno sempre più diminuendo (ah, già! ormai c'è l'armonizzazione obbligatoria con le altre nazioni). Non è un bel modo per imparare le lingue? 

 (Certo le lingue sono importanti. Ma si è mai chiesto perché gli Anglo-Americani sono i popoli più ignoranti, più ottusi e refrattari a imparare altre lingue che non siano la loro? Quando spesso non parlano bene nemmeno la loro... Io sì e mi sono data una risposta: i dominatori da sempre impongono i loro codici. In primis, quelli linguistici. Si può pertanto doppiare  i loro prodotti, che intanto, però,  circolano liberamente nel nostro Paese, grazie al per Lei esecrabile "doppiaggio fascista". Mentre quelli di altri paesi (doppiati o meno) spesso non entrano nemmeno nel loro mercato. Insomma, non sfondano la barriera).
 
 
Giannini in sala di doppiaggio
 
 
 
 Da ultimo, caro prof. Grasso oltre al citato Sordi,  ha dimenticato di menzionare il grande Giancarlo Giannini, la cui carriera si svolge ancor oggi in parallelo tra il buio anonimato della sala di doppiaggio e lo schermo luminoso.  Se lo ricorda in "Shining" di Kubrick col suo memorabile doppiaggio su Jack Nicholson? Doppiaggio e arte di recitare sono due aspetti del buon cinema. Strane omissioni e dimenticanze!


domenica 15 giugno 2014

Giugno vermiglio


Les coquelicots di Monet
L'estate è alle porte. Giugno è il mese della luce e del solstizio che ne rappresenta il suo culmine prima di decrescere gradualmente; è il mese dei colori, dei primi caldi che ci sorprendono e ai quali non sappiamo ancora abituarci.  Dei blu cobalto dei  suoi cieli tersi dopo i temporali. Dell'erba che appena rasata diventa quasi paglia e dei papaveri che scoppiettano allegramente sui bordi delle strade sorprendendo lo studente svogliato nei suoi ultimi giorni di scuola che a lui  sembrano interminabili. A volte mi chiedo quale è il colore dell'estate e in particolare di giugno. Il vermiglio forse, ovvero quella gradazione di rosso che vira all'arancio che anticamente chiamavano cinabro. "I rosolacci dal cuor vermiglio sono le fiamme di tutti i sorrisi" scriveva Giovanni Papini, uno scrittore e poeta, sparito inspiegabilmente dal panorama letterario. Non si trova quasi nemmeno in Internet se non in un brano dedicato alla nipotina dal titolo "La mia Ilaria", l'attrice Ilaria Occhini, la quale dichiara che suo nonno pagò lo scotto dell'essere stato uno scrittore considerato organico al ventennio fascista.  Ma fu grazie a Papini, che imparai che i "papaveri" dei poeti sono i "rosolacci".
Flaming June di Leighton
Vermiglio come il verde melograno dai bei vermiglio fior/ che rima con "e giugno lo ristora di luce e di calor",  fiori che, per l'appunto,  sbocciano proprio a giugno.


Bruciante e vermiglio come  l'abito della donna dormiente nell'ottomana, nell'arcinoto dipinto preraffaellita di Lord Frederic Leighton dal titolo "Flaming June" , dove June sta per il mese, ma è anche un nome di donna.  Un'ardente e fiammeggiante giugno-June che riposa  morbidamente durante la calura in un esotico meriggio. Purtroppo di questo dipinto ne hanno fatto numerosi poster e riproduzioni.




 
Nei colori dell'estate metto  anche il giallo, l'ocra, l'arancione che sono le tinte calde della terra matura di messi. E a proposito di giallo e luce, è sempre di grande suggestione la poesia di Montale

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce
 
Eugenio Montale da Ossi di seppia

Per Ungaretti, invece, l'azzurro e il rosso, non sono in antitesi. Giovanni Fattori associa invece nel suo dipinto l'azzurro del mare, al giallo e al bianco dei buoi. Mentre Pascoli è sempre attento ai microcosmi come steli e insetti.

L'azzurro e il rosso  

Ho atteso che vi alzaste,
Colori dell'amore,
E ora svelate un'infanzia di cielo.

Porge la rosa più bella sognata.

       Giuseppe Ungaretti

Giovanni Fattori - Bovi Bianchi

D'Estate
Le cavallette sole
sorridono in mezzo alla gramigna gialla.
I moscerini danzano al sole
trema uno stelo sotto una farfalla

Giovanni Pascoli

domenica 8 giugno 2014

Jean-Pierre Melville, l'americano di Francia

Chi si occupa di cinema e in particolare di noir conosce questo regista francese, che i cineasti della Nouvelle Vague salutarono come loro maestro. Ma Jean-Pierre Melville (JPM - foto a sinistra) dal carattere introverso e scontroso, non volle mai veramente far parte di scuole né conventicole registiche e cinematografiche. Già il  suo nome richiama il grande romanziere americano Herman Melville (all'anagrafe è Jean-Pierre Grumbach). Durante la seconda guerra mondiale combatte nelle file della Resistenza francese  e  se lo attribuì quale nome di battaglia, proprio in omaggio all'autore di Moby Dick. In seguito a ciò, resta JPM per sempre,  e  collabora all’Operazione Dragoon, lo sbarco delle truppe alleate nel sud della Francia. Dalle sue esperienze di guerra, ricaverà  poi il film L'armata degli eroi (L'Armée des ombres) (1969), ispirato al romanzo del 1943 di Joseph Kessel, dirigendo sul grande schermo interpreti come Lino Ventura, Paul Meurisse, Jean-Pierre Cassel (padre dell'attore Vincent) e Simone Signoret
Lino Ventura attore italo-francese

Uomo introverso, dotato di personalità complessa e scontrosa, appassionato sin dall'infanzia di cinema, matura una profonda ammirazione per la cultura statunitense tanto da assimilarne gli atteggiamenti feticisti per il resto della vita.
 Con JPM nasce il polar, genere cinematografico e letterario, neologismo francese nato dalla fusione dei termini poliziesco (policier) e noir.
Il polar identifica un genere di romanzi e film dalle note cupe ed introspettive caratteristiche del noir, i cui protagonisti però sono tipicamente appartenenti alle forze dell'ordine, spesso coinvolti in un percorso catartico o di mutamento della propria esistenza.
Una volta congedatosi  dalle armi,  Melville cerca di ottenere dal Sindacato dei Tecnici una tessera di assistente-tirocinante per diventare regista, ma gli viene rifiutata e da quel momento decide di autofinanziare i propri film.



Dopo un primo cortometraggio in 16 mm, l’esordio cinematografico avviene nel 1947 con "Il silenzio del mare" (Le silence de la mer) dal testo omonimo di Vercors. La ristrettezza dei mezzi e le riprese rocambolesche non minano il notevole esito della pellicola che gli dà subito fama di intellettuale esperto, specialista in trasposizioni letterarie sullo schermo.

Jean Cocteau lo richiede espressamente per adattare sullo schermo il suo delizioso romanzo "Les enfants terribles" nel 1950 e sarà un vero e proprio piccolo gioiello della cinematografia, oggi praticamente introvabile. Film tenero e crudele, sospeso tra levità poetica e dramma sentimentale di due fratelli (Paul e Elisabeth) somigliantissimi, che vivono praticamente in simbiosi,  e della loro sarabanda di amici del liceo Condorcet. Un film sui generis, lontano dai generi cinematografici prediletti da JPM che sono il poliziesco, il noir, la gangster story.

Bob il giocatore (1955) è il suo primo film “noir”, influenzato fortemente da alcuni capisaldi americani e francesi, quali Giungla d'asfalto ((1950) di John Huston, La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder, Rififi (1954) di Jules Dassin e Grisbì (1954) di Jacques Becker.

Nel cuore di Parigi JPM dà avvio ad  un piccolo ed anomalo caso di indipendenza produttiva, audace per l’epoca ma ben organizzato, suscitando l’ostilità corporativa delle istituzioni cinematografiche francesi. Viene invece considerato un precursore dai giovani emergenti della Nouvelle Vague come Truffaut, Godard e Chabrol, che in lui apprezzano anche lo stile registico scabro e  aderente alla realtà (molte riprese in esterni, budget ridotti, utilizzo di attori semisconosciuti, rifiuto del maquillage). Pertanto viene simbolicamente arruolato da Jean-Luc Godard ad interpretare il ruolo dello scrittore Parvulesco in Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) -1959. Dopotutto JPM ha una fisionomia di caratterista dark.

La successiva vocazione di Melville verso un cinema di genere, al tempo stesso classico ed astratto, ma sempre destinato ad un vasto pubblico e non a ristrette élites, lo allontanerà gradualmente dal movimento dei cineasti emergenti, finché nel 1968 sentendosi concettualmente sempre più estraneo, interromperà polemicamente i rapporti attirandosi un prolungato ostracismo da parte dei Cahiers du cinéma e della critica ad essi collegata.

Ritorna con successo alle gangster story dirigendo Lo spione (Le doulos) e Lo sciacallo (L’aîné des Ferchaux) tratto dall'omonimo romanzo di Georges Simenon, sviluppando ulteriormente alcune peculiarità, quali l’atmosfera priva di speranza (derivata dall'hard boiled, la scuola dei duri americani), la geometria dell’intreccio, l’espressione idealizzata della centralità maschile con annessa una certa misoginia.
Lo sciacallo  (1963)  da Simenon con la simpatica canaglia JP Belmondo è un noir  on
the road interamente costruito in Francia con un'America sognata e ricostruita che  è per il regista una sorta di lost paradise, di terrra promessa. Costretto a rinunciare a una carriera di pugile, il  giovane Michel Maudet  (Belmondo) è stato assunto come segretario di un vecchio banchiere, Dieudonné Ferchaux che lascia la Francia per sfuggire alla giustizia per questioni fiscali. A New York  e poi a New Orleans , i due uomini imparano a conoscersi meglio durante il gioco sottilmente perverso  del gatto col topo. Forse un rapporto filiale dell'anziano banchiere col suo segretario, o  forse un'omosessualità latente, mai palesemente espressa . Sapiente uso del colore in chiave fortemente simbolica.

Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide, titolo distribuito in Italia  dal francese  Le dexième souffle. Tre uomini, un’evasione nella notte. Tra questi Gustave Minda, detto Gu, che si reca a Parigi per rivedere la sua donna Manouche.  La trova che  sta con Jacques il Notaio, ma l’uomo viene ammazzato nel proprio locale davanti ai suoi occhi. La mala di Marsiglia si scontra violentemente con quella di Parigi per il dominio del contrabbando di sigarette. Gu medita l’esilio in Italia, ma qualcuno gli propone di assaltare un blindato carico di platino. L’ispettore Blot, della Omicidi, è sulle sue tracce.
Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide

La recensione: Nel 1967 esce questo film: un rito di fondazione del polar, la scrittura delle sue coordinate e insieme un’interpretazione in apoteosi tra le massime del genere. Nella scena d’apertura, giustamente leggendaria, Melville distribuisce le carte: nel buio tagliato da squarci di luce, si sviluppa una triplice fuga che porta alla morte di uno degli evasi. E’ un movimento fluido e silenzioso, come la pace prima del boato, che nell’assenza significativa del segnale umano razionale (il verbo) afferma già la possente influenza della mano fatale, subito capace di segnare la curva tragica degli eventi. Siamo al presagio, alla previsione potenziale di un’opera che cammina a fiammate (silenzio – moto – sangue); Le deuxième souffle prende di partenza lo stilema americano e lo ravviva, come sempre nell’autore, estenuandolo da una parte e dall’altra prosciugandolo all’estremo. Nel porre come traccia il mito favolistico dell’Uomo alla ricerca della Donna (la prospettiva – solo apparentemente verosimile – della fuga d’amore), cede così la meccanica razionale dell’intreccio; questa è trafitta obliquamente da riflussi di romanticismo che, proprio perché gelidamente arginato, diventa parossistico (Manouche sa che Gustave morirà; ce lo dice il volto, la  postura, le frasi sospensive, la posa sublimata nel finale). Nelle scene puramente criminose, caratterizzate da una costitutiva stesura degli archetipi (il poliziotto, il fuorilegge, la banda, l’amante), i dialoghi escono di bocca come incisioni lapidee, alla stregua di sentenze che iscrivono ogni figura al proprio ruolo inesorabile. Tali premesse, in mano a Melville, si piegano alla dialettica costante tra due momenti, sospensione e esplosione, dove l’uno non è meno ricamato dell’altro (una scena classica di raccordo, Gustave in macchina, grazie al primo piano di Lino Ventura viene bagnata di significato); la lieve galleria di simboli procede al montare peculiare della tensione. Se il colpo al furgone dei lingotti è notevole per marchiare l’antenato del film (la sfida americana all’autorità, con western connessi), risulta angolare la mirabile ripresa dell’attesa: notare il bandito che posa gli occhi sul formicaio e, senza motivo, si sofferma sul brulicare scomposto che presume schiettamente il momento della strage. La stima del futuro vive nei simboli, dunque, tra tutti la danza delle pistole: queste prolungano i protagonisti, vanno di mano in mano, scompaiono e raddoppiano, simulano impugnature come ipotesi carsica sullo scorrere degli eventi. Ancora costante poetica, su piano sostanziale il cacciatore e la preda si scambiano sguardi di profondo rispetto, risultando nettamente speculari, e intavolano una lotta archetipica dal profumo mitologico; il paramento morale impone l’ onore delle armi, che il vincitore concederà naturalmente al vinto, come atto prestabilito già segnato nell’ordine delle cose. Questo insistere sul manto fatale, il riflettersi geometrico delle pedine, si piega nella cinepresa melvilliana a una magnificazione stilistica: lo specchio funge da metonimia centrale dell’intreccio, che ospita la carezza di Gustave all’amata, prima della strage, e la caduta di uno dei complici freddato da un proiettile.
A margine: il titolo italiano, Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide, suona talmente fuori luogo e fieramente retrò da seminare perfino un fascino sottile.
Alain Delon in "Frank Costello faccia d'angelo"

Importante, la collaborazione  di JPM con Alain Delon  nell'indimenticabile interpretazione di Frank Costello faccia d'angelo, film nel quale Delon è praticamente silente quanto spietato.  Il film segna l'inizio della loro collaborazione  che sarebbe continuata con I senza nome (1970) e Notte sulla città (1972), sino alla morte del regista.

È forse uno dei punti più elevati del polar . In effetti, sin dalla frase che appare all'inizio ("Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla") e che spiega il titolo originale (Le Samouraï), è evidente l'ispirazione di Melville, da sempre ambasciatore del cinema americano in Francia a quel modello di "killer esistenziale", già individuato nel prototipo nel Philip Raven, interpretato da Alan Ladd, in Il fuorilegge di Frank Tuttle, ispirato al romanzo "Una pistola in vendita" di Graham Greene. ("...non il gangster come esponente della malavita organizzata o comunque come criminale immerso in un preciso quadro sociale, ma assassino solitario che si distacca anche dagli abituali connotati etnici per risolvere il suo tragitto in un personale confronto con la morte").
La tessitura del film è arricchita da riferimenti alla cultura giapponese. Così la sobria e perfezionistica ritualità dei gesti che introducono all'uccisione del gestore del night - ma che rimanda anche al Robert Bresson di "Diario di un ladro"  o di "Un condannato a morte "è fuggito - o i guanti bianchi indossati da un ineffabile Alain Delon, prima di simulare, con un'arma scarica, l'esecuzione della pianista jazz Valérie e di essere crivellato dai colpi della polizia.

Artista solitario e controverso, maniacale controllore di tutte le fasi della lavorazione (curava operativamente persino il montaggio alla moviola), Melville è stato largamente incompreso dalla critica specializzata.
In seguito ad alcuni omaggi  e studi inediti  postumi, è stato ampiamente rivalutato fino alla consacrazione come uno dei più importanti innovatori della settima arte.
Un contributo fondamentale alla  sua riscoperta è stato fornito negli anni '90 da alcuni registi delle nuove generazioni cimentatisi nel “polar” (soprattutto americani ed asiatici), debitori dichiarati del suo cinema singolare. Basti ricordare:  Michael Mann (Heat - La sfida, 1995), Quentin Tarantino (Le iene, 1992), Takeshi Kitano (Sonatine, 1993), John Woo (The Killer, 1989 e Jim Jarmusch (Ghost Dog, 1999).


Michel Costantin
E tuttavia, ad onta della sua influenza "americana", l'astratto distacco, le atmosfere sospese e l'ironia sottile nei dialoghi fanno   di lui un cineasta europeo made in France con la capacità di aver creato formidabili maschere  di duri alla francese altrettanto famose e credibili delle maschere americane; con personaggi interpretati da Jean-Paul Belmondo, le voyou dalla simpatica smorfia, Lino Ventura, il fuorilegge dal cuore tenero, munito di un suo codice d'onore, Alain Delon, il  tenebroso bello e fatale, Michel Costantin, con quella faccia sfregiata da serial killer, coriaceo caratterista e comprimario sempre sospeso fra i ruoli di  spietato sicario ma  anche di poveraccio perseguitato dalla malasorte, Paul Meurisse e tanti altri splendidi attori, resi indimenticabili dai suoi film.
Poi vennero le "prime donne"  ovvero "les intellos" della regia e gli attori persero aura; ma Melville pur nella sua ardita sperimentalità, resta un classico della modernità, dove gli attori sanno essere ancora i veri  deus ex machina di storie da lui sapientemente dirette.