Avevo trascorso la giornata presso il grande raduno di allevatori nomadi transumanti nei territori desertici e i contadini insediati nelle savane coltivabili che si svolge nella regione del sahel situata nel nord del Niger all’inizio della primavera, in occasione della festa organizzata dai peuhl, pastori di grandi mandrie di buoi e cammelli, durante la quale i giovani eseguono danze prolungate per la conquista d’una moglie. Nella società peulh i ruoli appaiono invertiti: non sono le ragazze a dover sedurre i giovanotti col trucco e col gesto, ma i maschi, i quali, coi volti sontuosamente truccati, si esibiscono in danze cerimoniali per essere scelti dalle fanciulle. Ma il raduno era anche un’occasione di mercato dove ogni gruppo offriva in vendita la propria merce: ceste ricolme di miglio e di manioca; pile di patate dolci, di manghi e papaie; mucchi di datteri; ampi blocchi di sale, riportati dai tuareg in pericolosi viaggi compiuti fino alle lontanissime distese del deserto salato; stoffe, stuoie, gioielli e calebasses, i grandi recipienti ricavati da gusci di zucca seccati, quindi intagliati e dipinti per essere adibiti ad uso domestico. Avevo affrontato un interminabile viaggio in pulman per trasferirmi da Niamey, la capitale del Niger, in quell’arida regione a cavallo tra il Sahara e la savana, per osservare e fotografare quel coloratissimo e animatissimo spettacolo di folla impegnata nei commerci più diversi, vagando incessantemente tra i vari gruppi, sostando davanti alle scene – le danze, le conversazioni, le contrattazioni e gli approcci tra uomini e donne – che, dopo il calar del sole, il guizzare dei fuochi o delle luci a petrolio mi restituivano trasfigurate. A notte inoltrata mi ritrovai verso la periferia del grande assembramento, nei pressi di alcuni tendaggi tuareg. Mi sentivo troppo stanco per continuare a stare in piedi e mi guardavo intorno cercando un posto appartato dove stendere la mia stuoia per trascorrere la notte. Il luogo era tranquillo perché l’occasione era di quelle istituzionalmente pacifiche, ma, essendo l’unico esponente d’una cultura generalmente non presente in raduni di quel genere, avevo un certo ritegno a mettermi a dormire in mezzo agli altri; per cui mi guardavo in giro dubbioso, esitando sul da farsi. La mia incertezza doveva essere percepibile, perché una voce mi interpellò in tono incoraggiante: “Olà, ça va?” La domanda era formulata in un francese perfetto, ma lì per lì non mi sorpresi, giacché avevo incontrato molti africani capaci di parlare la lingua degli ex dominatori con proprietà e buon accento. Chi mi aveva rivolto la parola era un giovane tuareg sorridente, un bel ragazzo sui venticinque anni con una rada barbetta disordinata intorno al mento e gli occhiali a stanghetta sul naso, seduto fuori dalla sua tenda accanto a una bellissima donna dagli occhi a mandorla e a una bambina completamente nuda di due o tre anni col capo raso, salvo per un ciuffo di capelli alla sommità della nuca. “Oui, ça va” risposi, guardando senza grande interesse la famigliola tuareg intenta a godersi quel po’ di fresco portato dal buio dopo la giornata infuocata (a quelle latitudini la primavera corrisponde all’inizio della stagione torrida). Una teiera bolliva su uno strato di carbonella ardente. “Asseyez-vous (si accomodi)” disse il giovane indicando la teiera, gesto col quale ero invitato inequivocabilmente a prendere il tè con la sua famiglia. Non avrei mai rifiutato un invito di quel genere, non solo perché sarebbe stato inteso come una scortesia incomprensibile, ma perché esso mi svelava l’atteggiamento amichevole e ospitale dell’uomo, da cui ritenni di poter trascorrere senza timore la notte se non proprio dentro la sua tenda (cosa che invece più tardi mi fu offerta), almeno accanto ad essa. “Merci” dissi sorridendo con gratitudine e mi accosciai di fronte all’uomo. Per alcuni istanti restammo in silenzio, mentre la donna, col bellissimo volto atteggiato alla impenetrabilità serena e distaccata d’una sfinge, armeggiava intorno alla teiera, introducendovi quietamente alcune perle di zucchero, rimestando all’interno con un cucchiaio e richiudendo il coperchio di smalto con un piccolo scatto metallico. Presso i tuareg la conversazione non inizia fino a quando il tè non è pronto e l’ospite non ne ha sorseggiato almeno una tazza; ma nello sguardo rivoltomi dall’uomo, pur pacato e venato d’un filo di divertimento e d’ironia, indovinavo come un’intesa, una comprensione e una simpatia mischiati a un senso d’attesa, a qualcosa di allusivo tra me e lui che non riuscivo ad afferrare e che perciò mi spinse a rompere il silenzio: “D’ou venez-vous (da dove venite)?” Egli, rispondendo, fece con la mano un gesto vago verso il nord: “Du cotè de Taoudenni, pour approcher du sel ici”. Taoudenni è la località sahariana dove si trovano le miniere di sale a cielo aperto presso le quali i tuareg si recano a dorso di cammello ad estrarre il prezioso prodotto per venderlo nei luoghi di raduno come quello nel quale ci trovavamo in quel momento. Sapevo che solo dei grandi conoscitori del deserto come i tuareg osano avventurarsi sulle difficilissime piste dirette a Taoudenni attraverso un territorio conosciuto come “il deserto dei deserti”, vale a dire la parte più arida e temibile di tutto il Sahara, con pochissimi pozzi d’acqua salmastra lungo il cammino e dove le tempeste di sabbia si scatenano con una frequenza spaventosa e persecutoria (almeno, osavano quando realizzai quel viaggio, diversi anni fa; con l’evoluzione dei tempi e l’introduzione nel Sahara di moltissimi camion, non so se esistano ancora tuareg disposti ad effettuare quelle spedizioni preistoriche a dorso di cammello). Ma era l’uso raffinato della lingua francese da parte del mio interlocutore (aveva adoperato il verbo approcher, avvicinare, per indicare simultaneamente l’estrazione e il trasporto del sale fino al luogo dove metterlo in vendita), oltre alla sua dizione impeccabile, a stupirmi. “Ou avez vous appris le français (dove ha imparato il francese)?” gli domandai. “Oh, je suis français (Oh, io sono francese),” fu la risposta, apparentemente noncurante, ma con un leggero accento di canzonatura che valse a sconcertarmi più della risposta stessa. “Comment?” domandai, ancora incredulo. “Etes vous français?” Sporse in avanti il viso ridente, trasformato in una specie di maschera sardonica dalla luce baluginante delle braci. “Oui, je suis français, mais je suis meme touareg (sì, sono francese, ma sono anche tuareg)”. Rimasi a guardarlo interdetto, esaminando con diffidenza i suoi lineamenti, il naso diritto, le labbra sottili e i capelli e la barba color castano chiaro, in effetti più nordici che caucasoidi (talvolta i tuareg presentano anche qualche sfumatura negroide, ed era appunto il caso della moglie, che aveva labbra spesse e sporgenti, per quanto ben disegnate); finché, dopo aver assaporato con aria faceta il mio stupore, egli si decise a raccontarmi la sua storia.
“Mi chiamo Jean Philippe, o almeno così mi chiamavo quando vivevo in Francia coi miei genitori. Sono sette anni che vivo in Africa, dove ho scelto di diventare tuareg. Oggi mi chiamo Alahouda. Quando ho lasciato
Mentre il mio interlocutore parlava, continuavo ad esaminarne l’aspetto celtico, l’aria vagamente intellettuale conferitagli dagli occhiali a stanghetta, il suo linguaggio evoluto e quel qualcosa di indefinibile che ne svelava l’appartenenza al mondo occidentale con tutto il suo retroterra culturale, che portava addosso come un marchio indelebile. Eppure egli aveva deciso di rinnegare il suo mondo e di ridursi all’esistenza impervia e, almeno ai miei occhi, quasi disperata dei tuareg. Con l’immaginazione lo vidi arrancare per giorni e giorni in groppa al suo dromedario in territori infuocati, patendo atrocemente la sete e la fatica insieme ad altri sventurati come lui, per raggiungere località spaventose come Taoudenni dove raccogliere con sudore e sofferenza pesantissimi blocchi di sale, da vendere poi per una manciata di denari coi quali acquistare le provviste occorrenti appena a riprendere nuovamente il viaggio verso le miniere di sale, in un ciclo interminabile e sfiancante; e, dietro a questo andare e venire, non c’erano altro che pasti frugali composti da pane di semola di grano cosparso di burro rancido, miglio abbrustolito e latte di cammella; serate trascorse tutti insieme accanto al fuoco acceso con lo sterco delle bestie perchè nel deserto non v’è legna da ardere; e poi le chiacchiere indolenti, l’ascolto di qualche canzone per ingannare il silenzio incolmabile del Sahara, la promiscuità, la scarsa pulizia e il grave rischio delle infezioni e delle malattie senza farmaci adeguati per fronteggiarle. C’era ancora, naturalmente, l’amore sotto la tenda, ma era quello un compenso sufficiente a giustificare un’esistenza così aspra? Guardai la moglie, senza dubbio una giovane donna molto attraente, anche se con quell’alone vagamente selvatico conferitole da un sangue dedito da sempre, al contrario del marito, a un’esistenza estrema, condotta sul sentiero impervio e crudele della pura sopravvivenza. Certo l’amore con lei doveva essere piacevole, ma non c’erano mille altre donne altrettanto belle con cui intrattenere rapporti amorosi nel mondo che il mio ospite francese aveva voluto ripudiare?
“Perché ha deciso di scegliere questa vita?” non potei, a quel punto, trattenermi dal chiedergli, forse con un tono vagamente riprovatorio che non seppi nascondere.
“Ah, per la sensazione di libertà assoluta che mi dà!” mi rispose con un’enfasi che accolsi con scetticismo. “La giungla non è in Africa, ma a Parigi. Qui, se incontri qualcuno lo saluti; se arriva uno straniero lo sfami. A Parigi lasciano crepare per strada un uomo affamato o malato mentre nutrono con la carne e curano con grande impegno bestie come cani e gatti. Da quando vivo in Africa non mi ricordo una sola volta in cui mi sia stata negata l’ospitalità. E poi qui esiste una spiritualità naturale nei confronti della vita, un sentimento religioso che accomuna tutti gli esseri umani. In Francia non sapevo che cosa fosse la religione perché i miei genitori non mi hanno impartito un’educazione religiosa. Ho trovato nell’Islam la dimensione spirituale necessaria per una comprensione autentica della vita e per vivere in una comunanza fraterna coi miei simili”. Io continuavo a considerare senza entusiasmo le sue parole. Mi sembrava di ascoltare i soliti luoghi comuni espressi dagli europei infatuati dell’esistenza condotta dagli africani e della “spiritualità” ad essi attribuita, una spiritualità improntata a una sorta di religiosità della natura o misticismo panteista (appena venato di islamismo o di cristianesimo, a seconda delle influenze subìte); ma quegli altri europei esprimevano l’attrazione esercitata su di loro dall’Africa in modo blando, certo non con la radicalità del mio nuovo conoscente, che, invece, si era convertito totalmente alla vita tuareg, assumendola e facendola propria anche creandosi una famiglia in seno a quel popolo. Ero in presenza, evidentemente, di un caso di fuga dal proprio sé e di conversione all’altro da sé, un caso che accade forse più frequentemente di quanto si immagini. Ma è inevitabile domandarsi i motivi di scelte di questo genere, certo a causa della difficoltà di farcene una ragione. Per Jean Philippe la causa scatenante doveva essere stata, come possiamo intuire dalle sue stesse parole, il timore di non rivelarsi all’altezza di quella vita adulta e responsabile che presumibilmente i suoi genitori si aspettavano assumesse dopo la maturità; forse c’era anche un’insoddisfazione di sé e un senso di noia nei confronti dell’esistenza condotta fin lì. Più in generale, non v’è dubbio che scelte di vita drastiche come queste siano determinate da uno smarrimento di se stessi legato alla perdita dei propri valori di riferimento, morali, culturali o identitari che dir si voglia. Oggi, la diffusione in Occidente di quell’ideologia di derivazione rousseiana ispirata all’esaltazione della vita selvaggia ovvero della vita primitiva o “naturalistica” condotta in seno o più vicino alla natura, favorisce e moltiplica questo genere di fuga, ma forse l’impulso da cui nasce trova la propria collocazione più appropriata in quel grano di follia che l’uomo nasconde da sempre nelle regioni più oscure del suo intimo e che corrisponde a una sorta di istinto di negazione di sé o di stimolo ad affrancarsi dalla propria identità, vissuta, per una qualsiasi ragione, come una limitazione di libertà.
DIONISIO