giovedì 26 aprile 2012

La fiaba nera del Love and Hate



Metti una sera un film. Un classico è un libro che non ha mai smesso di suggerirci e di comunicarci qualcosa quando lo riprendiamo in mano . Nel caso del film, quando lo rivediamo. Il cinema è arte più recente della letteratura, ma tra i messaggi istantanei ed effimeri della tv  dai quali siamo bombardati e di cui nulla resta, e un buon film, ce ne corre. E parecchio.  Per fortuna quando voglio salvarmi dalle porcherie televisive, guardo qualche "classico" in dvd. E non importa se magari l'ho visto tante volte. Suggerisco pertanto di guardare (o riguardare) "La  morte corre sul fiume" (The night of hunter) di Charles Laughton, grande attore inglese di cinema e teatro (soprattutto shakespeariano) qui in veste di regista. Rimase il suo primo e unico film, e fu ...capolavoro.

Un racconto nero e orrorifico coi topics   tipici delle fiabe:
  •  i bambini innocenti sono testimoni oculari di fatti delittuosi più grandi di loro
  •  i loro genitori non sono in gradi di proteggerli
  •  una sorta di Orco moderno cattivo  li spaventa e li terrorizza pretendendo far loro da patrigno
  • il viaggio-fuga-iniziazione alla vita e alla libertà dei due piccoli protagonisti
  •  la Fata burbera ma buona  li trae in salvo dal loro peregrinare e  insegna loro che libertà significa anche responsabilità
  • il Malvagio  alla fine viene punito e assicurato alla giustizia
Una fiaba filmica a  carattere fortemente simbolico, girata in uno stile sfolgorante con particolare attenzione alle luci taglienti e alla pellicola in un bianco e nero fortemente contrastata. La logica narrativa del film avanza più per associazioni di immagini e di metafore che per rigorosa consequenzialità.


La trama è nota: Harry Powell, pastore protestante, un puritano sessuofobico, uccide alcune vedove per denaro. Uccide anche la vedova Willa Harper dopo averla sposata senza consumare le nozze, ma i suoi due figlioletti John e Pearl gli danno del filo da torcere. Riescono a fuggire da lui allontanandosi sul fiume con una barca, portando con  loro il denaro lasciato in eredità dal loro padre e che nascondono in una bambola di pezza. In soccorso giunge alla fine, Rachel  un'anziana signora, che dà rifugio ai bambini abbandonati. Grande fiaba orrorifica, più per atmosfere noir che per scene violente, resa convincente da una regia secca e originale. Harry  Powell come orco, Rachel come fata e i due fratelli come sperduti Hansel e Gretel. La fotografia in bianco e nero di Stanley Cortez è una  vera festa per gli occhi. Le inquadrature grazie alle luci maniacalmente posizionate sono una rilettura dell'espressionismo mitteleuropeo. Stupenda la sequenza in cui il vecchio scopre sott'acqua il cadavere di Willa (la madre dei bambini che si innamora del suo carnefice), interpretata da Shelley Winters. La donna uccisa è legata alla guida di una vecchia auto sul fondo del fiume e i suoi capelli lunghi fluttuanti si confondono con le alghe.
Prima e unica regia dell'attore Charles Laughton che, con grande misoginia, mostra quasi tutte le figure femminili  da lui viste, come ingenue e stupide. Si salva solo Rachel, interpretata da una grande attrice del muto Lillian Gish.
Atto d'accusa contro il fanatismo e il fondamentalismo di certi gruppi cristiani americani, falsi profeti che mietono proseliti nei villaggi  con riferimento agli stati del  sud degli Stati Uniti. Grottesco "il pastore" Mitchum con le sue mani tatuate con la scritta "Odio" sulla mano sinistra "Amore" in quella destra (Love - Hate) da molti imitato e su cui poi vennero fatti anche disegni, fumetti e caricature.
Oggi, sentir ripetere la sua battuta "Io e il Signore abbiamo fatto un patto personale" per poi constatare che era in realtà un serial killer di ricche vedovelle che derubava di ogni avere,  ci fa pensare ai toni  manichei, apocalittici e apodittici tipici di certi leader politici americani quando predicano "le forze del Bene sconfiggeranno le forze del Male", quando lanciano invettive contro i "rogue states" (gli stati canaglia), convinti per l'appunto di aver stipulato "un patto personale con l'Altissimo", ciò  che li autorizza a compiere ogni sorta di abuso e di  misfatto.



Del resto la figura del "maniaco religioso" fa parte di una consolidata letteratura cinematografica americana già incontrata in altri film. Ricordiamo il predicatore con un occhio di vetro ne "Gli Inesorabili" di John Huston che prometteva sfracelli con la sciabola sguainata a cavallo per le praterie del Far West. E come dimenticare Telly Savalas (il famoso Kojak) nel film di Aldrich "Una sporca dozzina", quando stava per far fallire una missione militare dei suoi commilitoni, preoccupato solo di fare pulizia di prostitute  nel nome della "lotta a Sodoma e Gomorra"?
 Forse la più grande e intensa interpretazione di Robert Mitchum, che sette anni dopo, ne Il promontorio della paura, si calerà in un  altro personaggio di psicopatico del tutto simile. Tratto dal romanzo di Davis Grubb "The night of hunter" e girato in poco più di un mese. Laughton, a causa dell'insuccesso commerciale, non poté realizzare la sua trasposizione de Il nudo e il morto di Mailer.  Ma Laughton non poté rendersi conto che il suo film divenne oggetto di culto di molti cinefili, tant' è che è citato apertamente da Neil Jordan nel suo film   In compagnia dei lupi.

E a proposito di film che non finiscono mai di parlarci anche un po'  di noi, la storia di John e Pearl, i due bambini in fuga dal Malvagio e avido pastore in cerca della refurtiva (un tesoretto in banconote di dollari che i fanciulli nascondono in una bambola di pezza),  fa correre alla mente, l'attuale crisi economica che ci rende "indifesi" come i due piccoli protagonisti che cercano di sottrarsi alla cattiveria e all'avidità del patrigno. Nel film, dopo tante peripezie angosciose (il loro spossante viaggio sul fiume col bestiario sulla palude dove l'inquietante si fonde al meraviglioso), il lieto fine è assicurato. Speriamo che avvenga altrettanto anche per tutti noi.
De te fabula narratur.

Hesperia  

giovedì 19 aprile 2012

Tommaso Landolfi, scrittore per pochi


Tommaso Landolfi occupa nella letteratura italiana del Novecento una posizione particolare, quella d’un grande stilista in grado di creare artifici narrativi capaci di inoltrarsi nelle zone di frontiera tra sogno e veglia per restituire il carattere sfuggente e polivalente della vita, cogliendone volentieri le risonanze sinistre, ma in una cifra ambigua che oscilla tra l’ironia e lo scetticismo e che spesso fa pensare a un senso d’insignificanza, a un non voler prendere troppo sul serio la materia stessa del narrare così come non va presa troppo sul serio la vita, dove la sorte dell’uomo non è che una condanna senza scampo e di fronte alla quale, per conseguenza, ogni atto, compreso quello di volerla rappresentare, diventa un gesto futile e quasi inutile. Una frase del diario dello scrittore, intitolato, vedi caso, Rien va, svela con chiarezza il suo atteggiamento verso l’esistenza: “Di vero non v’è se non che lo spirito giace eternamente in catene, poco importa da chi forgiate”. Questo senso di inutilità o d’impotenza si traduce, va da sé, in angoscia, ma un’angoscia di fronte alla quale conviene reagire facendo spallucce e fingendo noncuranza, magari anche una certa dose d’irrisione. Un atteggiamento, questo di Landolfi, che ha avuto una duplice conseguenza sulla sua produzione, riverberandosi sia nel modo particolare di raccontare ch’egli ha sviluppato, sia nel suo rifiuto d’impegnarsi in un’opera di grande respiro come il romanzo. Egli ha infatti scritto solo racconti e prose varie; anche dove il numero delle pagine supera il centinaio (come in Racconto d’autunno), l’ispira-zione e il tono restano pur sempre confinati nella dimensione del racconto. Ma è soprattutto nello stile che vien fuori quel tono particolare di distacco che denota il suo scetticismo e, si sarebbe tentati di pensare, quella sorta d’insicurezza verso il proprio scrivere, se non fosse per il virtuosismo della scrittura, derivante da una conoscenza della lingua italiana talmente ampia da poterne disporre con abilità e creatività inesauribili. Ma si tratta d’uno stile che sembra voglia ricalcare quello d’un altro, come se l’autore non si fidasse della propria voce e avesse bisogno, per esprimersi, di affidarsi (più esattamente, di fingere d’affidarsi) a quella d’un altro. Non siamo quindi sul terreno della parodia d’altri autori, ma su quello della finzione della parodia di autori, che solo vagamente ci rimandano, di volta in volta, a Gogol, a Puskin, a Dostojevskij, a Hofmannsthal, a Edgar Allan Poe, a Kafka e a Stevenson (tutti autori che Landolfi conosceva bene e dei quali spesso tradusse l’opera in italiano). In altre parole, Landolfi, per vincere il suo scetticismo nei confronti della letteratura, ha bisogno, per esercitarla, d’indossare una maschera. Da autore pienamente immerso nella modernità, soffre, insomma, di quella perdita di fiducia nei confronti della narrazione tradizionale come strumento adatto ad esprimere la complessità (o meglio, nel suo caso, l’ambiguità, l’inafferrabilità) dell’esistenza; un po’ come fa Borges, altro narratore caratterizzato da scetticismo verso il proprio strumento e che, nei suoi racconti, s’inventa addirittura l’artificio di far recensire libri immaginari da autori inesistenti.
Scrittore originale e anomalo, dunque, che proprio nella patina d’antico di cui riveste spesso la sua prosa, e nell’uso insistito di vocaboli inattuali, sempre però in chiave ironica e, qui sì, parodistica, e attraverso cui denuncia proprio la diffidenza nei confronti della lingua ormai logorata dall’uso e ricoperta dalla polvere del tempo (cosa che ha indotto taluni critici del passato a definirlo erroneamente, e superficialmente, un “eccentrico ottocentista”) dimostra la sua modernità e attualità. Ma scrittore anomalo soprattutto per il suo rifiuto di concedersi al grande pubblico. Come ha scritto il critico Carlo Bo, occorre, per capirlo, valutare “il dato della sua purezza, della sua impossibilità di confondersi nella storia o soltanto col suo tempo. Criterio che vale per le sue letture, per i suoi scrittori-modello, per la sua retorica che non si è mai accostata agli ismi del tempo, alle mode, alle leggi della tribù… E’ stato il vero solitario della letteratura del nostro Novecento, un solitario cosciente, un volontario dell’isolamento assoluto”. Moravia, suo contemporaneo e scrittore mondano per eccellenza, poteva dire di lui con sufficienza che non otteneva il successo perché conduceva vita troppo appartata. Ma oggi chi ha voglia di rileggere quello che ha scritto Moravia? Mentre la scrittura di Landolfi continua ad attrarre e affascinare chi, nella letteratura, cerca quel piacere insostituibile che ci introduce in un mondo insolito e sorprendente dove tuttavia riconosciamo quella parte di noi stessi che giace nelle fessure del nostro io meno esposto, senza contare il piacere di assaporare una prosa ricca e preziosa che ha il potere di inchiodarti alla pagina. Certo, questo volersene stare appartato, probabilmente per non confondersi con la schiera di scriventi ideologizzati che ha popolato il nostro Novecento, è costato caro a Landolfi, un grande scrittore che ha sempre avuto pochissimi lettori. Ci ha provato Italo Calvino a conquistargli un po’ di lettori curando e pubblicando per Rizzoli, nell’ormai lontano 1982 (Landolfi era morto nel 1979 e in vita aveva pubblicato solo presso Vallecchi, casa editrice marginale e ormai scomparsa), un’antologia dei suoi racconti, Le più belle pagine di Tommaso Landolfi. Ma, come rilevava qualche anno dopo ancora Carlo Bo, Calvino non era riuscito a rovesciare la condizione di scrittore senza lettori di Landolfi. Da qualche anno in qua ha ripreso a pubblicare le sue opere, per tappe successive, l’editore Adelphi, ma c’è da dubitare che questo lavoro encomiabile abbia conquistato a Landolfi un vasto pubblico di lettori; almeno in Italia, paese tuttora afflitto da troppi scriventi privi di talento e altrettanti critici ideologizzati, perché all’estero si sono accorti di lui e hanno cominciato a tradurlo. Perfino un critico esigente e dal palato fine come l’americano Harold Bloom, recentemente scomparso, lo inserisce, unico italiano insieme a Calvino, in una scelta compiuta tra Ottocento e Novecento di narratori d’ogni nazionalità per insegnare a Come si legge un libro (titolo d’un saggio pubblicato nel 2000).
Senza dubbio c’è il Landolfi meno ispirato, la cui produzione soffre talvolta eccessivamente della sua – come definirla? – non completa convinzione rispetto allo scrivere, inteso come gioco futile, sperpero di capacità preziose gettate troppo facilmente al vento e disperse come fumo. E’ questo che può indurre il lettore alla diffidenza e al rifiuto. Ma nei suoi momenti migliori egli è capace di scandagliare magistralmente il cono d'ombra sospeso tra il notturno e il diurno e, addentrandosi nei meandri occulti dell’essere umano, creare una sorta di specchio deformante del suo animo per meglio delinearne i guasti e mostrarci quindi l’uomo contemporaneo in tutta la sua patetica e ormai patologica insufficienza umana.

Dionisio

venerdì 13 aprile 2012

Divisionismo, la Luce del Moderno.

(Giuseppe Pellizza da Volpedo, "Prato Fiorito")

Tra i numerosi movimenti pittorici degni d'essere riscoperti, questo è un altro, peculiare, che incontra il mio entusiasmo. Alcune immagini dei divisionisti già avevo scelto negli anni nella storia del blog, e la Mostra di questo periodo offre un'occasione di approfondimento.

(Gaetano Previati "Pace, o Mattino nel Prato")

La Mostra si tiene a Rovigo, a Palazzo Roverella, fino al 24 Giugno 2012.
Il titolo per esteso: "Divisionismo, La Luce del Moderno" , con l'aggiunta di una sezione sulle ceramiche di Galileo Chini (quest'ultima a Villa Badoer, Fratta Polesine, Rovigo, che prelude all'Art Nouveau).
La scelta di opere si allarga tra il 1890 e la fine della I Guerra Mondiale.

(Gaetano Previati "Georgica")

Come per molti movimenti dell'Italia d'allora, c'è stata la tendenza da parte della critica ad interpretarli come patrimonio ideale nato all'estero, recepito poi in Italia in maniera personale.
Talvolta le cose sono andate in questo modo,
ma non sempre, ed è opportuno non generalizzare.

Si suole dire che in Francia abbiamo avuto il Pointillisme di Paul Signac e Georges Seurat, e in Italia il Divisionismo , principalmente con Giovanni Segantini e Giuseppe Pellizza da Volpedo, mossi anche dalle teorie di Gaetano Previati.

La data di nascita dello stile divisionista è considerato il 1891, in occasione della Triennale di Milano (Brera), in cui venne esposto "Le Due Madri" di Giovanni Segantini.

(Giovanni Segantini, qui invece "Le Cattive Madri")

Per approfondire e discutere il raffronto tra i 2 movimenti, va ricordato che il Pointillisme era una forma di tardo impressionismo o neoimpressionismo, che aveva portato all'estremo la parcellizzazione e scomposizione dell'immagine in punti, in cui il colore era usato puro, non mischiato, ma appunto costituito da micropennellate di colori primari in forma di puntini accostati. Si giunge principalmente con Seurat alla definizione di questo stile e tecnica, in obbedienza alle nuove scoperte scientifiche (Chevreul, Sutton, Road) sulla percezione retinica del colore. Il Pointillisme supponeva quindi di essere anche uno studio "scientifico" del fenomeno della visione, rivelando in questo la sua eredità dal clima Positivista e Scientista dell'epoca.

Il Divisionismo italiano diverge parecchio da questi aspetti.
Non si pone come derivato scientifico, nè come tecnica di visione e rappresentazione; non usa il puntinismo in senso proprio, ma una sorta di segmenti e filamenti mossi, sinuosi e curvilinei nel definire immagini e volumi, ma anche masse di colore, aloni; gli antecedenti del Divisionismo italiano sono invece Scapigliatura e Decadentismo, di lì infatti vengono mutuati sia l'antiaccademismo, l'intimismo, la forte valenza emotiva delle rappresentazioni che si fanno ora incandescenti ora intrise di psicologismo.

(Baldassarre Longoni, "Sola!")

Il Positivismo e la conseguente fiducia nelle scienze presto rivelava in tutta Europa, ma anche nella Francia stessa che l'aveva massimamente promosso, il suo scacco dinanzi ai problemi sociali ed esistenziali: la temperie della fine del secolo già abbandona certezze materialistiche e scientiste, si ritorna ad osservare l'uomo e la natura in maniera differente.
Riemerge Schopenauer, si sveglia lo Spiritualismo contro l'aridità materialistica a una sola dimensione delle scienze senza metafisica, quasi sembra provenire da questa reazione la nuova linea curva divisionista, da un vitalismo nascosto che pulsa, serpeggia, irriducibile.

Non si cerca più la rappresentazione "scientifica", ma l'evocazione, quindi anche il simbolo;
si insegue qui una luce vitalistica, e il primato del soggetto,
non più la "scienza" o la correttezza scientifica, o la proposta di una mera tecnica.
In questa chiave, Pointillisme e Divisionismo non potrebbero essere più distanti; più che la derivazione uno dall'altro, pare la reazione del secondo al primo.

(Gaetano Previati, "La Danza delle Ore")

Lo stesso Previati, pittore straordinario e dalla notevole visionarietà, approfondì temi spirituali e d'introspezione anche religiosa, così come negli altri divisionisti italiani si notano già scelte d'avanguardia assolutamente originali, che preludono ora al realismo magico, ora, in alcuni di loro, al dinamismo prefuturista.

(Plinio Nomellini, "Autunno in Versilia")

Tra gli Autori esposti: Vittore Grubicy de Dragon, Carlo Fornara, Baldassarre Longoni, Gaetano Previati, Ludovico Tommasi, Llewelyn Lloyd, Mario Puccini, Antonio Discovolo, Plinio Nomellini, Umberto Boccioni, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Carlo Carrà, Leonardo Dudreville...

(Angelo Morbelli "Le Parche")

Josh

mercoledì 4 aprile 2012

Il teatro in fieri di Testori


Il lavoro che mi ha  particolarmente colpito della stagione teatrale 2011-2012 per originalità e genialità è "I promessi sposi alla prova" di Giovanni Testori per la  sapiente regia di  Federico Tiezzi.

Su un palcoscenico di fortuna di un quartiere non proprio "per bene" della grande Milano, un Capocomico all'antica si affanna a fare interpretare il capolavoro di Manzoni ad una compagnia di guitti sgangherati.

"Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli..." così i commedianti iniziano "I promessi sposi alla prova", un testo con cui Giovanni Testori desidera fare del romanzo di Manzoni uno "specchio" su cui far riflettere i suoi anni tribolati, che poi sono anche i nostri., dato che siamo afflitti da non poche pesti! Il degrado ambientale, il cinismo, l'omologazione delle coscienze, il distacco dalla realtà, l'incapacità di intravvedere nuovi orizzonti. Queste e tante  altre pesti.

Così gli interventi di Testori  mirano a destrutturare i "nuclei narrativi" per poi ricomporli in parabole sceniche e morali, cercando di conservarne l'umorismo manzoniano e il suo occhio smagato. Teatro "di prova" e continuamente "alla prova", il suo. E il romanzo "classico" costituisce un formidabile canovaccio da  sospingere nel territorio impervio e continuamente in fieri del teatro-vita.

E' stata questa la vera novità di questa stagione teatrale, a mio avviso, che ha ottenuto successo per tutta Italia e nella Svizzera italofona. Con una compagnia di attori davvero formidabili: in primis Iaia Forte  (in alto nella foto ) , una vera e propria forza della natura (molti di voi la ricorderanno nei film di Pappi Corsicato)  che qui interpreta un'esilarante monaca di Monza,  e Sandro Lombardi, Francesco Colella, Debora Zuin, Marion D'Amburgo, Caterina Simonelli, Alessandro Schiavo, Massimo Verdastro. Su di un palcoscenico spoglio e disadorno  intorno al quale ruotano sei personaggi (citazione pirandelliana) si svolge la prova di una "commedia tutta da fare", dove ai temi del romanzo manzoniano, caro a Testori, si mescolano le riflessioni sul teatro, sui suoi metodi comunicativi, oltre beninteso ai motivi etici dell'umana pietas, al tema del Bene, del Male e della morte, della Provvidenza e della salvezza propri del romanzo manzoniano.  Don Abbondio, Renzo, Lucia, un fra Cristoforo, l'Innominato, don Rodrigo e naturalmente lei, Gertrude, la monaca di Monza,  tornano a noi  attraverso il corpo e la voce dei protagonisti contradaioli "alla prova" in un rimescolamento di voci, vernacoli, gerghi furfanteschi, di azioni e di ruoli, avventure e disavventure picaresche di grande vivacità teatrale.
Iaia Forte e Sandro Lombardi


E non dimentico di citare anche l' Ambleto (storpiatura del nome voluta)  dello stesso Testori, un altro memorabile lavoro teatrale da me visto a Milano qualche anno fa, vera e propria reinvenzione shakespeariana, sceneggiata in lombardo insubre è un dramma teatrale scritto da Giovanni Testori nel 1973. Composto in un lombardo misto a un grammelot nel quale si riconoscono influenze dei più disparati dialetti italiani e delle lingue straniere, è una riscrittura in chiave comica dell'Amleto di William Shakespeare. È parte integrante della Trilogia degli Scarrozzanti composta, oltre che dalla citata pièce, anche da Macbetto e dall'Edipus.
Anche qui, una compagnia di guitti scalcinati mette in scena in chiave comica il capolavoro shakespeariano e Iaia Forte nel doppio ruolo di Gertruda e di Lofelia (storpiatura di Ofelia) si cimenta, lei napoletana verace, in un alto lombardo davvero incredibile ed esilarante. Peccato che il cinema italiano in crisi più che mai, lasci Iaia alla "nicchia" del teatro. Bisognerà che prima o poi questo blog si occupi di fare un post sul ruolo dell'attore. L'attore non lascia segni come il pittore o il narratore, ma la sua azione è volta a dare anima e corpo al teatro e all'azione scenica. Senza contare che in teatro,  a differenza del cinema, l'attore quando è davvero  grande e carismatico, sa ricreare, improvvisare ed è artefice vivo della pièce, un vero deus ex machina.
Il teatro di Testori è scrittura che si fa pathos, comunicazione visiva, ricreazione e reinvenzione del logos. Ma anche piena libertà scenica ed espressiva degli attori. In particolare,  in questi tre testi lo scrittore sviluppa la propria sperimentazione linguistica, creando un linguaggio dal quale riemergono elementi arcaici e ricordi degli "originali" shakespeariani, con un forte espressionismo linguistico.
Qui sotto, nel filmato,  alcune scene dell'Ambleto per la regia di Lombardi e Tiezzi. Ovviamente la scrittura di Testori non si limita solo al teatro. Ricordo la famosa raccolta di racconti "Il Ponte della Ghisolfa" da cui Luchino Visconti che con questo scrittore milanese ebbe una fattiva collaborazione, basò il suo film "Rocco e i suoi fratelli",  financo alle poesie. Particolarmente toccante il suo poema interpretato da Léo Ferré. Qui il suggestivo  Video . Senza contare il suo ecclettismo nei confronti della pittura, delle arti figurative e la critica d'arte. Ma qui, è soprattutto del suo teatro che mi preme parlare. Un teatro che è insieme classico e moderno, sintesi difficile da raggiungere, di cui sono stata e sono entusiasta spettatrice.



Hesperia