domenica 12 settembre 2010

"Andrea o i ricongiunti", specchio di Hofmannsthal



Certe letture ti colpiscono al punto che, nel corso della vita, continui a tornarvi più volte perché ti avvincono e incantano come al primo incontro; senza dubbio perché le senti particolarmente affini al tuo gusto e alla tua sensibilità, ma forse anche perché vi scopri qualcosa di nuovo ad ogni accostamento. Per me, una di queste letture è Andrea o i ricongiunti del viennese Hugo von Hofmannsthal (1874 - 1929), un piccolo gioiello letterario di quella cultura mitteleuropea che diede frutti doviziosi per tutta la durata del suo percorso storico. Ed è curioso che questa lettura resti tra le mie più care e preziose perché si tratta d’un romanzo non finito, d’un frammento d’opera che non arriva al compimento della sua parabola e che rimase per Hofmannsthal una bellissima Incompiuta al modo di certe sinfonie di alcuni grandi musicisti (come quella di Franz Schubert, la N. 8 in B minore, tanto per fare un esempio), ma che proprio in questa incompiutezza, e nell’impossibilità intuita di pervenire a quella finitezza o se si vuole maturazione che la complessità della vita raramente concede agli uomini, trovano, paradossalmente, un non secondario motivo del loro fascino, del loro inesausto potere d’attrazione.
Resoconto d’un viaggio d’istruzione in Italia ma in particolare a Venezia d’un giovane austriaco avvenuto nel 1778, un itinerario che appare, più che un movimento nello spazio, un percorso umano e spirituale corrispondente al tentativo di conoscere il specchiandosi nell’altro, l’Andrea sembra inserirsi nel genere del romanzo di formazione o di educazione sentimentale di cui nella letteratura tedesca si hanno esempi illustri, come il Vilhelm Meister di Goethe e L’Enrico di Ofterdingen di Novalis, due autori, peraltro, a cui Hofmannsthal non smise mai di far riferimento perché entrambi interpreti di due tendenze ch’egli sentiva egualmente forti in sé: Goethe quale campione di un’arte tutta rivolta al mondo sensibile e improntata a grande saggezza ed equilibrio, Novalis quale esponente d’una emotività piuttosto incline al mondo soprasensibile, al notturno e all’irrazionale. Due tendenze contrastanti che, probabilmente, Hofmannsthal non riuscì mai a ricomporre in una superiore unità e che ci aiutano a capire il perché delle crisi ricorrenti, umane e artistiche, a cui egli andò incontro nel suo percorso d’autore, un percorso che trovò espressione, certo per individuare la voce più adeguata al mutare degli stati d’animo, nelle forme più varie, dal verso al teatro drammatico, dalla narrativa alla saggistica e dalla commedia semiseria o buffa all’opera lirica, quest’ultima estrinsecatasi in una lunga collaborazione come librettista col compositore Richard Strauss. Ma il motivo di fondo di tali crisi rimase sempre lo stesso: la responsabilità dell’artista nei confronti del mondo, la necessità che l’opera, oltre a prefiggersi la forma più alta d’espressione, rappresenti un modo di porgersi all’altro per intendersi sul senso dell’esistenza, per comunicare insieme in nome d’una produttiva unità d’intenti volta al raggiungimento d’una superiore armonia del vivere – scopo che forse Hofmannsthal non fu mai sicuro di ottenere.
Poiché egli si era presentato fin da ragazzo alla società letteraria viennese come un poeta precocemente maturo, capace di sedurre e incantare con la raffinata eleganza dei suoi versi, restando per questo intrappolato in una torre d’avorio d’estetismo aristocratico ancor prima d’aver fatta la sua esperienza del mondo, dovette, per tutta la vita, lottare per liberarsi dall’etichetta di artefice di un’arte per l’arte fine a se stessa, che gli negava la possibilità d’un fertile rapporto con gli uomini. La sua opera narrativa, indubbiamente la voce sua più sincera, testimonia il sofferto processo della sua liberazione dalla solitudine paralizzante imposta al genio assiso suo malgrado sul piedistallo per la ricerca d’un contatto autentico con gli altri. Basterà citare il primo racconto e l’ultimo ch’egli portò a compimento quali tappe miliari di questo processo, vale a dire il suo punto di partenza e quello d’arrivo. Nel primo, scritto a soli 21 anni, La Novella della 672a notte, dove nel giovane figlio del mercante che abbandona controvoglia la sua dorata solitudine circondata da cose belle e preziose per conoscere la realtà d’un mondo sordido e crudele, nel quale incontrerà una morte miserevole, viene descritto proprio il disagio che nasce dal contrasto tra la necessità di rompere l’isolamento e il timore e la repulsione verso un mondo ancora ritenuto insidioso, colmo di sollecitazioni nebulose e di minacce indecifrabili. Invece nell’ultimo, La donna senz’ombra, sorta di fiaba o meglio racconto mitico dove la luminosa figlia degli spiriti che per l’acquisto dell’ombra (ossia la conquista della dimensione umana, la sola che, per la donna, può consentire la maternità) deve lasciare il palazzo nel quale l’amore dell’imperatore la tiene segregata e recarsi tra gli umani per servirli, vincendo la ripugnanza verso le loro brutture e deformazioni, si rappresenta la necessità di porsi al servizio dell’umanità per votarsi a un’opera di creazione feconda ma anche il raggiungimento di tale obiettivo, simboleggiato dall’ottenimento della condizione umana da parte della creatura celeste grazie alla quale ella potrà generare un figlio alla tenerezza dello sposo. In mezzo a queste due opere, superbi esempi, per inciso, di perfetta fusione tra sublimità dello stile e pregnanza del contenuto, e ad altre minori e occasionali, si colloca l’Andrea o i ricongiunti, non fiaba o racconto mitico come le due appena descritte, ma opera realistica che vorrebbe documentare appunto un processo di superamento di imperfezioni e insufficienze umane per il raggiungimento d’una dimensione di piena e matura consapevolezza. Anche nello stile l’Andrea appare un’altra cosa. Qui la narrazione non è contrassegnata dalla raffinata écriture artiste (come si definiva a quel tempo il bello scrivere) d’uno stilista che già a vent’anni e tanto più in età matura sapeva usare la scrittura con consumata maestria, ma appare più spontanea, appunto più realistica, improntata com’è a un piglio veloce, quasi stendhaliano nel rapido affastellarsi e sovrapporsi degli avvenimenti. Così assistiamo all’approdo di Andrea nella Venezia che fuoriesce dalle brume notturne e all’apparizione del gentiluomo con maschera sul viso ma seminudo sotto il mantello in cui è avvolto (una stranezza dovuta, come si saprà più tardi, a un’inveterata passione dell’uomo per il gioco che lo riduce spesso alla perdita degli abiti), il quale si mostra pronto ad accompagnare il giovane straniero presso un alloggio in casa d’una famiglia nobile disposta ad ospitare viaggiatori per mercede perché languente in cattive condizioni. Per la stessa ragione la giovanissima e bella Zustina, figlia dei padroni, si è posta – come apprenderà con turbato stupore il giovane viennese – quale posta d’una lotteria a cui parteciperanno solo scelti gentiluomini. Poi c’è il ricordo mortificante del soggiorno di Andrea nella casa dei Finazzer, avvenuto prima dell’arrivo a Venezia. Là si è svolto il breve idillio con Romana Finazzer, la ragazza dall’animo candido di bimba che gli ha svelato senza reticenze l’attrazione che prova per lui, un idillio che abortisce prim’ancora di svilupparsi in qualcos’altro a causa del comportamento di Gotthilft, il servo ribaldo presentatosi ad Andrea per offrirgli i suoi servigi ma che lo porta ad acquistare un cavallo rubato alla stessa famiglia presso cui ha trovato ospitalità e che fuggirà dopo aver picchiato e legato una serva che ha indotto a farsi sua complice nel rubare altre cose. A quel gaglioffo che l’ha messo in cattiva luce presso i Finazzer, i genitori di Romana buoni nonostante tutto con lui e pronti ad aiutarlo per riprendere il viaggio verso Venezia, Andrea è costretto suo malgrado a sentirsi affine per quel che di malvagio sente in sé e che l’ha portato (com’egli rammenta con contrizione) a infierire crudelmente e perfino a uccidere due cani che ha avuto nella sua adolescenza. Poi, nella scena successiva, trovandosi a vagare nelle calli di Venezia, il giovane andrà incontro a quella straordinaria e surreale sequenza dell’apparizione di due donne apparentemente uguali d’aspetto e abbigliamento, forse due facce d’una stessa femminilità ambigua e inafferrabile, che gli compaiono e gli sfuggono davanti agli occhi un momento prima quale una penitente straordinariamente dolorosa all’interno d’una chiesa e immediatamente dopo quale una demoniaca furia che si spenzola appesa per i piedi a una pergola per spaventarlo e irriderlo a quel modo selvaggio, per poi sparire entrambe misteriosamente così come gli erano apparse. Quindi si succedono gli incontri con altri personaggi, ciascuno col suo mistero e il suo fascino, come il Cavalier Sacramozo e il Cavaliere di Malta, entrambi portatori di esperienze e saggezze a cui il giovane viennese vorrebbe attingere nel suo desiderio di conoscere se stesso attraverso il rapporto con coloro che la sorte gli fa incontrare ad ogni passo. Assistiamo insomma, sia nella parte stesa del racconto, sia in quella che s’intuisce dagli appunti per il seguito rimasto solo in abbozzo o meglio in intenzione irrisolta, a un crescendo di situazioni che percorrono un’ampia gamma dei misteri della psiche, dell’eros, del corpo e dello spirito umano nei loro risvolti di bene e di male o di luci e di ombre.
Dunque un’opera, quest’Andrea o i ricongiunti che, come La Donna senz’ombra, aspirerebbe alla ricongiunzione delle componenti, se vogliamo chiamarle così, chiare e oscure dell’essere per il conseguimento di quella compiutezza umana che può scaturire solo dal porre la propria opera al servizio dell’umanità, ma che, più realisticamente della fiaba (e forse perché più legata alla condizione personale di Hofmannsthal, alla sua insoddisfazione di sé), non riesce a definirsi, resta solo nelle intenzioni, come testimonia il fatto che l’autore la lasci incompiuta.

Dionisio

21 commenti:

Hesperia ha detto...

Post molto bello e raffinato, del tutto esaustivo nel delineare il complesso profilo di questo interessante autore che io conosco di più attraverso il teatro.

Non ho letto l'"Andrea" che citi, ma riconosco le stesse atmosfere riscontrate nelle opere teatrali.
Tra l'altro lui è stato anche librettista per Richard Strauss.
Anche come saggista, von Hofmanstahl risulta paradossale e intrigante. Senza contare la sua formidabile intuizione di "Rivoluzione conservatrice".
I suoi aforismi, sempre scintillanti e in grado di far riflettere.

Ne cito un paio che rimando a memoria: "Bisogna nascondere la profondità in superficie".

"La gioia esige maggior impegno del dolore".

Dionisio ha detto...

Grazie per l'apprezzamento, cara Hesperia. Questa è una bella palestra per cimentarmi in quei piccoli saggi su argomenti che amo e che ho sempre voluto fare ma non ho mai realizzato per mancanza di stimoli più che di tempo. Ti assicuro: nel Giardino delle Esperidi entro sempre volentieri e mi piace portare qualcosa di decente da offrire agli amici che a loro volta vi entrano.
Io conosco molto bene tutta l'opera narrativa di Hofmannsthal, ho letto qualche pezzo teatrale (l'Elektra è un vero capolavoro)e alcuni saggi. Non sono mai riuscito a trovare le sue poesie, non so nemmeno se l'abbiano mai tradotte in italiano (il tedesco, disgraziatamente, non lo conosco.

Nota di curiosità: Nel sito Tocqueville sono dei fulmini? Avevo appena postato il pezzo che già l'avevano riprodotto.
A presto

Hesperia ha detto...

Sì, l'Elektra è un capolavoro. Possiamo definire von Hofmannstahl il cantore della dissolvenza e di quella crisi della coscienza europea a cavallo tra le due guerre.

Curioso che Tocqueville abbia rapidamente aggregato il tuo post. Di solito ci ignora.

Josh ha detto...

Hugo von Hofmannsthal è stato un fine e ottimo autore, infatti.

Sì ci sono alcune letture su cui si ritorna spesso in più momenti della vita, e ci parlano sempre. Penso che per ognuno sia un'esperienza differente, ma una delle costanti è che si vogliono ritrovare delle parole che ci hanno parlato in maniera particolare, a volte in modo unico e anche forse 'curativo'.

Resto dell'idea (ma era la teoria di James Hillman in "le storie che curano") che ci sono delle 'parole che curano'. E spesso abbiamo bisogno di abbeverarcene.

Del resto a ben pensarci, anche il testo sacro funziona in maniera non differente.

A volte, su un altro piano del nostro io, anche la letteratura, la parola umana può svolgere un ruolo simile sulla parte archetipica di noi stessi.

Esistono parole, diverse nei casi per ciascuno, che raffigurano, specchiano o curano l'animo e spesso abbiamo di farci ricreare da quelle. Penso sia uno dei motivi per cui siamo continuamente attirati da tesi nostri 'mitici' personali, e non ci stancano, raffigurano o compensano forse qualcuno dei nostri misteri dell'interiorità, dell'indicibile.

Josh ha detto...

Aggiungi che la magia del frammento, del non finito, lascia aperta la soluzione alla nostra fantasia...ha un'idea vitale, aperta, e non 'conclusa' quindi non 'chiusa'.

Non ho letto L'Andrea, ma conosco Von Hofmannsthal e i romanzi di formazione che citi. Sempre interessante l'idea del viaggio fisico e al contempo viaggio di formazione, viaggio all'interno di sè...
In fondo è un mito fondante della letteratura, o un altro archetipo di cui l'Odissea è solo uno dei tanti prototipi: nostos effettivo e interiore.

Tra Goethe e Novalis la scelta ....non è possibile, anche se gli elementi che Novalis predilige fanno parte della mia personale 'mistica'.
Anche operarne una sintesi sarebbe stato arduo.

Mi è piaciuta molto, di V. H. "La Principessa Brambilla" da ragazzo.

Hesperia ha detto...

Josh, scusa la puntualizzazione, ma non è che nel secondo commento hai confuso Hugo von Hoffmanstahl con ETA Hoffman, autore romantico di un secolo prima?
"La principessa Brambilla" è di Hoffmann (autore degli Elixir del Diavolo e de Il piccolo Zaccheo) e non von Hoffmanstahl.

marshall ha detto...

Dionisio,
sarò banale, ma in questi ultimi anni m'è capitato assai spesso quello che descrivi all'inizio, colpendomi nel segno:

"Certe letture ti colpiscono al punto che, nel corso della vita, continui a tornarvi più volte perché ti avvincono e incantano come al primo incontro".

E per me gli esempi sono tanti. Quello che - banalmente - riprendo assai più spesso in mano è il grande capolavoro della letteratura italiana, e per me fonte di notizie "storiche": I Promessi Sposi.

Romanzi che invece non andrei più a rileggere - nonostante mi sian piaciute le descrizioni che spesso fa divinamente di luoghi e ambienti - soprattutto dei laghi di Como e il Maggiore, dove raggiunge vette poetiche forse ineguali - sono i due di Stendhal: La Certosa di Parma e Il Rosso e il Nero. Partiti assai bene, tanto da farmi spesso arridere al capolavoro, si sono poi "persi per strada" con episodi veramente inverosimili e quasi al limite del pacchiano.
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Proseguo nella lettura del post, che mi sembra accattivante.

Josh ha detto...

@Hesperia: OOppps
esatto mi sono proprio sbagliato andando a memoria e gli ho attribuito anche la Principessa.

Di von Hofmannsthal ho letto una raccolta di poesie, alcuni racconti e alcuni saggi su Austria ed Europa.

Dionisio ha detto...

E' vero, Josh, che si ritorna alle opere che ci hanno colpito in modo particolare in età giovanile. Di Hofmannsthal avevo letto intorno ai vent'anni "La donna senz'ombra", un esercizio di stile squisito, dove la scrittura era autentica musica in prosa e, in certi momenti, perfino i dialoghi tra i personaggi avevano i modi e i tempi del minuetto (allora non lo sapevo, ma, scoprendo poi che il nostro aveva lavorato con Strauss, divenendone il librettista,capii che quel gusto e quella sapienza musicale non potevano essere che frutto di quell'esperienza). Un gioiello, quindi, che mi aveva profondamente colpito per la sua tecnica sopraffina, oltre che per la profondità del suo contenuto. Ma poi, leggendo un anno dopo, "Andrea o i ricongiunti", pur tanto più spontaneo e tecnicamente meno "costruito" (ma non per questo meno efficace sul piano espressivo), rimasi sbalordito dalla suggestione di certi episodi, come quello dell'incontro di Andrea con Gotthilff, il servo ribaldo che con la sua sfrontatezza e le sue vanterie di facili conquiste femminili riesce a prevalere sull'arrendevole credulità del giovane senza esperienze ma pieno di sogni e aspettative, in modo da indurlo a certe scelte che lo metteranno in una situazione difficile e che finiranno per rovinargli quel momento magico trovato con la giovane Romana Finazzer, in cui gli aneliti e i brividi amorosi della giovinezza avevano trovato una loro perfetta e insuperabile armonia.
Altrettanto seducente e sbalorditiva per il suo mistero (e per l'originalità della trovata) mi era apparsa la scena svoltasi tra le calli di Venezia in cui Andrea viene irretito dalle due figure femminili che a lui sembrano la stessa personna, quella che all'inizio lo guarda fissamente e misteriosamente come se lo conoscesse e che in quel modo lo induce a seguirla dentro una chiesa dove gli si mostra in atteggiamento di penitente dolorosissima, per poi sparire e ricomparire in un altro punto della chiesa in atteggiamento completamente diverso, da donna audace che lo guarda in modo provocante e seducente, per poi sgusciare fuori dalla chiesa. Corsale dietro, il giovane la scorge un attimo ferma in una piazzetta come se lo aspettasse e quindi scompare nuovamente. Egli la insegue, la cerca, non riesce più a trovarla, poi se la vede piombare quasi sul capo mentre passa sotto una pergola alla quale la creatura si è appesa con i piedi per apparirgli e spaventarlo e irriderlo a quel modo diabolico e selvaggio, per poi sparire di nuovo.
Dagli appunti si capirà poi che le donne sono due, una religiosa e piissima, e l'altra una cocotte di lusso; ma la scena, in sé, ha qualcosa di stregonesco per quel suo andamento d'una concitazione surreale e sinistra simile a un sogno angoscioso ma anche fascinoso.
Insomma, questi due esempi per far capire come questo libro abbia continuato ad attirarmi; anche, certo, per il fascino che continua ad avere per non aver svelato i suoi misteri perché rimasto incompiuto. Ricordo che per un po' vagheggiai il sogno (ingenuamente letterario) di provare a concluderlo io, per vedere se riuscivo a mantenermi nel solco di quella creazione magica; cosa che, naturalmente, non ho mai provato a fare realmente.

Dionisio ha detto...

Quanto all'errore fatto tra Hofmannsthal e Hofmann, può succedere, perché anch'io, inizialmente, avendo letto per primo Hofmann, avevo creduto fossero lo stesso autore. Hofmann, ricordo, veniva tradotto e pubblicato dai principali editori italiani (Bur, Mondadori, Einaudi). Invece "La donna senz'ombra" la trovai per caso in un negozio di libri già considerati antichi (edizioni Cederna,Milano 1948), e solo aprendo il volume capii che gli autori erano diversi. Per procurarmi l'"Andrea", questa volta cercato sapendo cos'era, dovetti faticare di più, reperendolo però al mercatino delle pulci (che oggi a Genova non esiste più), volume pubblicato dallo stesso editore nel 1949.

Josh ha detto...

La donna senz'ombra è un ottimo racconto, perfettamente orchestrato. Sicuramente nella conoscenza perfetta dei tempi, della distribuzione del sapere..incide il rapporto così diretto di V.H. con la musica, quindi con le partiture, parole e matematica musicale.

Penso lo leggerò presto questo Andrea...tempo libero permettendo, visto che ultimamente sono sempre di corsa
(e si vede dagli strafalcioni che scrivo:-).
Mi interessano più cose di questo incompiuto Andrea, ma l'immagine che più mi piace è questa che citi ancora, di una Venezia magica con l'enigma delle 2 donne. E'...molto cinematografico ante litteram.
Ricordi...Anonimo Veneziano...Dimenticare Venezia...
ce ne sarebbero, di grandi ma anche piccoli film con qualche bella scena, specie nel passato.
Mi sembra che l'orchestrazione dell'episodio delle 2 donne sia reso ancora una volta con tempi molto precisi, lo leggerò dal vero.
Per essere credibile deve essere visionario-registico ma calibrato al millimetro, e sicuramente lo sarà vista la precisione della sua prosa, e quanto si è impresso nel tuo animo. Penso anche abbia una quantità di possibilità di lettura, una specie di polisemia.

Concludere il romanzo incompiuto potrebbe essere un bell'esercizio di stile! :-)
Beh certo, con anche un po' di rischio di transfert.

Hesperia ha detto...

Un'altra differenza tra i due è nel similnome: Hoffmanstahl si scrive con una "n", mentre Hoffmann ha due "n" finali e la sottoscritta ha sbagliato a metterne una nel commento sopra. Pur essendo diversissimi per epoche e stili (romantico e gotico il primo, decadente ed estetista il secondo) i due hanno in comune i più disparati ed eclettici percorsi artistici.
Anche Eta Hoffmann è stato musicista ed era cultore di Mozart. Non dimentichiamo poi che il suo racconto "LO schiaccianoci" servì a Tchaikovskij per la musica dell'omonimo balletto.

Curiosa analogia con il sodalizio di von Hoffmanstahl con il musicista Richard Strauss.

Marcello di Mammi ha detto...

Dionisio
“Andrea o i ricongiunti” è incompiuta e, non essendo l’ ultima opera di Hofmannsthal, significa che è stata volontariamente lasciata incompiuta. Il motivo? Ogni scrittore, anche inconsciamente, attribuisce ai suoi personaggi ”qualcosa di sé”: quello che vorrebbe essere o non vorrebbe essere, le sue paure o i suoi sogni.
A mio avviso, il fatto di essere incompiuta, sta a significare l’incertezza dell’autore stesso di non conoscere quale sia il suo “finale”. Venezia si presta bene a queste atmosfere sfumate nella nebbia, nelle luci tremolanti, apparizioni inquietanti come le figure delle due donne che, come sono apparse, svaniscono,le gondole che spuntano dalla nebbia per poi scomparire sotto i ponti nelle calli. Tutto questo non da certezze ma solo ambiguità,è un mondo particolare che ha commosso molti, un mondo che da sensazioni a volte di mistero e di paura.
ciao
Marcello
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Stavo sul ponte
poco tempo fa nella bruna notte.
Di lontano giungeva un canto:
gocce dorate scorrevano
sulla superficie tremante.
Gondole ,luci,musica…
ebbre si perdevano nel crepuscolo…
La mia anima,un suono di violino,
a sé cantava ,toccata da dita invisibili,
segretamente,un canto di gondolieri,
tremando felicità multicolore
- L’ha udita mai qualcuno?
Friedrich Wilhelm Nietzsche

Dionisio ha detto...

Marcello, hai espresso benissimo, con immagini belle e appropriate, quella che è la mia stessa convinzione. Venezia per i tedeschi(o autori dell'impero absburgico, nutriti di cultura tedesca) specie al tempo di Hofmannsthal, ma anche dopo (si pensi a Thomas Mann che ha voluto ambientarvi il suo "Morte a Venezia") era una sorta di luogo dell'altrove, a mezza strada tra il sogno e il reale, dove tutto poteva accadere, e dove si andava proprio per uscire da solito sé per meglio conoscere il vero sé. E il fatto che l'autore lasci incompiuto il racconto, che pure stava venendo così bene e che, da narratore, doveva amare molto, testimonia della sua non convinzione di poter perverire a quella "ricongiunzione" (auspicata nel titolo) delle componenti chiare e oscure del proprio essere.
Bella poi la poesia di Nietzche che citi (altro tedesco), appropriata anch'essa al tema.

Hesperia ha detto...

Anche il tema del "doppelgaenger" (Il doppio) è tipico della letteratura tedesca, diffusosi poi anche in area anglossassone e perfino nella letteratura russa (Gogol e Dostoevskij). Da Hofmannstahl a Schnitzler ("Il doppio sogno") e più indietro lo stesso Hoffmann e i suoi Elixir del diavolo così carico di sdoppiamenti di personalità. Furono infatti i tedeschi gli anticipatori della tematica. Una tematica che anticipa la psicoanalisi freudiana.
Ma spesso l'arte e la letteratura anticipano la scienza, se così può chiamarsi.

Josh ha detto...

@Marcello: Davvero bellissima citazione, e ...inquadramento esatto della questione, direi! :-)

@Hesperia: tutto vero. Specie Hillman e Jung, ma anche la Klein ammettevano che i primi psicologi, nei termini di conoscitori dell'inconscio, ritrattisti e indagatori di personalità, comportamenti, sdoppiamenti, visioni, transfert & co
sono sempre stati prima gli scrittori, oggettivamente.

Marcello di Mammi ha detto...

Dionisio e Josh
A Venezia ci ho abitato da piccolo,ci sono tornato molte volte da adulto e quella atmosfera notturna indecifrabile, la conosco abbastanza bene.
Così scrissi alcuni anni fa

I miei ricordi più belli. Venezia anni 60

Fuori dagli antichi caffè, i violini suonavano dolci melodie per innamorati.
Lo scivolare silenzioso delle gondole al chiaro di luna,spesso sfumato da
una nebbia iridescente,la riva degli Schiavoni, il fastoso Danieli, il canal
Grande,le piccole calli, il ponte dei Sospiri e di Rialto erano queste le
immagini che hanno commosso anche Nietzsche.
Come non dargli ragione.

grazie
ciao

Dionisio ha detto...

@ Hesperia. Hai ragione in pieno a sostenere che la l'arte anticipa spesso la scienza, ammesso che certe scoperte del pensiero moderno si possano definire scientifiche, come quelle di Freud, per esempio, che parte benissimo, scoprendo la forza dell'inconscio - peraltro intuita già, come detto, dalla letteratura, addirittura dai greci stessi - ma conclude malissimo facendone una sorta di Moloch di fronte al quale la coscienza e la morale dell'individuo non possono che sottomettersi.

Dionisio ha detto...

@ Josh. E' vero che l'episodio delle due donne misteriose ha qualcosa di cinematografico, tant'è vero che mi è venuto istintivo parlare di "sequenza" quando l'ho presentato nel post.
Certo che sarebbe bello trovare un regista che volesse tradurre in cinema un soggetto così bello. Un regista coi fiocchi, ovviamente, che ne avesse la capacità. Bisognerebbe però trovare anche uno sceneggiatore altrettanto bravo, capace - e qui sta il difficile - di procedere nella storia e arrivare alla sua conclusione (magari lasciando aperto il finale nell'ambiguità, suggerendo diverse soluzioni possibili), mantenendo, oltretutto, la stessa altezza di ispirazione.
Proposito quasi impossibile, specie oggi, col cinema che vediamo intorno a noi

Anonimo ha detto...

gnuranti si scrive Hofmannsthal! Ce ne fosse stato uno che l'avesse scritto correttamente!

Hesperia ha detto...

Cervellone, vai un po' a leggere come è scritto nel titolo. Da dove vieni dall'accademia della crusca?