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domenica 11 dicembre 2016

Escher ed Eschermania



Vale la pena di recarsi a vedere a Palazzo Reale a Milano la mostra di Mauritz Cornelis Escher prima che abbia termine il 22 gennaio 2017. E le vacanze natalizie sono l'ideale per farlo.  Molto successo ha ottenuto  questa esposizione aperta a scolaresche d'ogni ordine e grado che possono fruire nel percorso espositivo, di una singolare esperienza percettiva.  Oltre 200 opere suddivise in sei sezioni. La mostra è promossa dal Comune di MI e prodotta da Arthemisia Group e Gruppo 24 ore in collaborazione con la M.C. Escher Foundation. 
Si tratta in prevalenza di xilografie, litografie e mezzetinte che tendono a presentare costruzioni impossibili, esplorazioni dell'infinito, tassellature del piano e dello spazio e motivi a geometrie interconnesse che cambiano gradualmente in forme via via differenti. Siamo agli inganni visivi del concavo che sembra convesso e del convesso che sembra concavo. Dei pesci che sembrano sagome di uccelli e viceversa.  L'artista seguì infatti i dettami della Psicologia della Gestalt ed era molto attento all'ambiguità delle forme e delle strutture.  Le opere di Escher sono molto amate dagli scienziati, logici, matematici e fisici che apprezzano il suo uso razionale di poliedri, distorsioni geometriche ed interpretazioni originali di concetti appartenenti alla scienza, sovente per ottenere effetti paradossali. In tutte le sue opere non vi è solo la fredda logica delle scienze esatte, ma mondi naturali con panorami, scorci, piante ed animali reali o immaginari intervengono ad arricchire i suoi lavori in un'ottica straordinariamente globale. Il mondo di Escher è sospeso  in bilico fra l'onirico- visionario, e il logico e geometrico. Per questo risulta ancor oggi che siamo smaliziati agli "effetti speciali", così originale e singolare. Anche nella natura e nel paesaggio sembra cogliere simmetria, geometria (è stato grande appassionato in cristallografia), prospettive ingannevoli, sfide alla legge di gravità, stratificazioni minerarie stupefacenti.



Escher  nacque a Leeuwarden, in Olanda il 17 giugno 1898 e sempre in Olanda morì nel 1972. Nel 1903 la famiglia si trasferì a Arnhem, dove il giovane Maurits ricevette la prima educazione nelle scuole elementari locali; «Mauk» (come era affettuosamente soprannominato in famiglia), sebbene eccellesse nel disegno, prendeva voti generalmente bassi, tanto che dovette ripetere il secondo anno. Sempre ad Arnhem, inoltre, prese lezioni di carpenteria e pianoforte fino all'età di tredici anni.

Nel 1918, Escher passò all'università tecnica di Delft, che abbandonò nel 1919 in favore della Scuola di Architettura e Arti Decorative di Haarlem, dove apprese i rudimenti dell'intaglio. Intuendone il talento artistico, il padre incanalò le inclinazioni del figlio nello studio di architettura. Ma nello Lo stesso anno, infatti, egli incontrò il grafico Samuel Jessurun de Mesquita, che lo persuase ad iscriversi presso i suoi corsi di disegno; l'entusiastico sostegno di quest'ultimo fu fondamentale per il suo sviluppo come artista grafico, tanto che anche terminati gli studi Escher sarà legato al suo maestro - che egli riterrà l'unico - da un saldo vincolo d'affetto.

Fondamentali furono i suoi viaggi di formazione in Italia. Così gli occhi del grande artista si posarono tanto sulle meraviglie dell'arte offerte dal nostro paese (è il caso di "Tetti di Siena" del 1922) e "Notturno Romano: il Colosseo" del '34) quanto  il suo paesaggio naturale con puntigliosa attenzione per le architetture marinaresche raggruppate sui promontori come le incisioni dedicate a Scilla, Morano, Santa Severina e Tropea in Calabria. Poi c'è il ciclo abruzzese ispirato al suo viaggio in Abruzzi e Molise.  Si avverte in alcune incisioni sui paesaggi italiani, anche la lezione del nostro grande incisore Piranesi.
Scilla 

E ancora di più Escher fissa la sua attenzione sulle piccole cose trattati da architetture naturali "Soffione" (1943), "Scarabei" (1935) e Cavalletto (1935).

Nei suoi viaggi in Spagna Madrid, Toledo e Granada fu proprio l'Alhambra di Granada (famoso palazzo moresco del Trecento) colpirono nel profondo il giovane artista. Furono soprattutto i particolari arabeschi  (come quello sottostante) ed i motivi grafici ricorsivi e ricorrenti che adornano gli interni del complesso residenziale spagnolo a lasciare un'impronta profonda sulla fantasia di Escher, che avrà modo di rielaborarli nelle sue memorabili tassellazioni.




Snodo centrale della mostra è il momento della maturità artistica coi temi della tassellatura, delle superfici riflettenti. e degli oggetti che grazie al suo speciale soggettivismo diventano impossibili come la celebre "Mano con la sfera riflettente" (1935), quasi un'immagine simbolo del suo mondo geometrico-visionario dove spicca un suo autoritratto all'interno della sfera che riflette anche la sua stanza-studio (immagine in alto) mentre la sua mano all'interno risulta deformata "Altro mondo II" (1947) una xilografia costruita in tre blocchi ispirata al tema della relatività einsteiniana, della funzione di un piano che svolge contemporaneamente tre ruoli diversi. In una struttura cubica sono riuniti infatti tre differenti punti di vista su un mondo fantastico: quello orizzontale, quello dall'alto verso il basso e quello dal basso verso l'alto, in modo che l'orizzonte, il nadir, il punto di fuga delle verticali in basso, e lo zenit, il punto di fuga delle verticali in alto, coincidano.


Casa di scale

Magica, inquietante e  visivamente paradossale è "Relatività o Casa di scale" (1953) dove l'artista sembra quasi sfidare la legge di gravità, "Belvedere"  (1958), "Pozzanghera" (1952) riprende il tema delle superfici riflettenti: gli alberi  capovolti e riflessi in una pozzanghera, sono quasi più suggestivi di quelli veri.

Tre mondi


L'opera che prediligo (ma è opinione del tutto soggettiva e scegliere in mezzo a tanti capolavori è  del tutto arduo)  è  forse "Tre mondi" dove  l'acqua tremolante di uno stagno in autunno connette in maniera naturale tre componenti diverse: la prima sono le foglie cadute da un faggio che galleggiano verso un orizzonte ignoto e suggeriscono la superficie dell'acqua; la seconda, il riflesso di tre alberi in lontananza; quindi la terza, un pesce in primo piano, sotto il pelo dell'acqua. L'acqua ha la triplice funzione di superficie, profondità e riflesso del mondo soprastante presentando un intreccio di mondi reali e mondi riflessi, in cui il pesce e le foglie, rappresentati come oggetti "reali", si confondono con gli alberi riflessi, fino a indurci a chiedere che cosa è reale e cosa riflesso.

La Pozzanghera


La Metamorfosi I” e la "Metamorfosi II", e  "Metamorfosi III" realizzate dal 1940 al 1968 rappresentano una sorta di grande sintesi riassuntiva delle sue opere. Nel lungo pannello posto alla fine del percorso espositivo, le figure cambiano e interagiscono con le altre e a volte addirittura si liberano e abbandonano il piano in cui giacciono, in una lunga sciarada visiva dai molteplici significati.




In epoca di riproducibilità tecnica dell'arte, si è sviluppata in seguito una vera e proprio Eschermania di culto, ripresa nel cinema, nel fumetto, nelle copertine dei dischi, nella pop-art,  nella pubblicità e nei videoclip musicali.

David Bowie in "Labyrinth" con fondale ispirato a "La casa delle scale " di  Escher


I Rolling Stones chiesero di poter adottare i suoi disegni nelle copertine dei loro dischi, ma non fu loro consentito. Tuttavia molti degli effetti speciali cinematografici hanno ripreso  numerosi suoi motivi prospettici deformanti e distorcenti (è il caso del  film fantasy "Labyrinth" interpretato da David Bowie con fondale ispirato a "La casa delle scale"). 
Immancabile pertanto, una sezione speciale dedicata a quanto Escher è stato (e continua ad essere) influente nella modernità e postmodernità.




domenica 27 ottobre 2013

Estinti, sepolcri e memorie






"Ah Signora mia, che brutta ruota la morte!", mi ha detto un fioraio di Le Grazie, piccola borgata marinara del levante ligure,  nota per aver dato i natali al poeta Giovanni Giudici e per avere una villa romana dove era eretto un tempio dedicato alle tre Grazie. Nel mentre,  mi confezionava i due vasi di ciclamini rosa che avevo acquistato per mettere sulle tombe dei miei genitori. Ho guardato l'anziano fioraio con spesse borse sotto gli occhi e senza bisogno di fargli domande mi disse che era appena morto suo fratello, ma che non aveva una tomba su cui piangere e portargli un fiore. Gli chiesi se  il fratello fosse andato disperso e mi rispose di no, che aveva preferito la cremazione.
Già, la cremazione, che viene spinta e reclamizzata dai comuni d'Italia e a cui anche la chiesa si è adattata. Un giorno mi soffermai a leggere un manifesto pubblicitario  pro-cremazione messo da holdings e franchising di detto servizio,  dove appariva a caratteri cubitali lo slogan "La purezza del ricordo".
"Mia cognata", continuò il fioraio, "mi dice di andare su al promontorio del Pezzino a lanciare un mazzo di fiori in mare dove sono disperse le sue ceneri, ma io queste scemenze non le faccio. Avrei preferito una tomba su cui piangere. Io voglio essere interrato qua,  nella mia terra, dove i miei mi possono vedere e mettere un cero o un fiore".
Il fioraio mi aveva dato una lezione di vita: la purezza del ricordo esiste se c'è qualcosa  di tangibile da ricordare. Tant'è vero che i congiunti degli estinti cremati tengono una loro fotografia accanto all'urna. E cioè un ricordo concreto. I fiori che fluttuano nell'acqua marina o le ceneri in un'urna, non possono essere una consolazione per chi resta e creano uno sostanziale  spartiacque fra il nomade senza fissa dimora che si rassegna alla corrente della vita  e lo stanziale  che organizza il suo mondo consolidando le sue certezze, nella vita come nella morte che ne è il suo naturale epilogo.
Non ci sono più spazi nei nostri cimiteri (sia di piccoli centri che di grandi città) ed è questa la vera ragione che sospinge ad adottare la cremazione, pratica già in uso in alcune civiltà pagane prevalentemente nomadi.  Curiosamente, però i cimiteri delle coste in cui sbarcano gli stranieri clandestini, sono pieni di tombe vere, magari senza nome o con nomi fittizi. In questi giorni il ministro dell'Interno, a proposito dei morti di Lampedusa ha parlato di "degna sepoltura". Perché non di "degna cremazione"? E perché i forni crematori sono invece consigliati agli autoctoni? Sarebbe interessante saperlo...

La storia della nostra civiltà trae origini dall'arte funeraria. Il culto dei morti si perde nella notte dei tempi e posso solo fare riferimenti episodici di una materia che richiederebbe molto più tempo e spazio di questo post. In Egitto  oltre all'architettura funebre regale, si diffonde anche un'architettura funebre privata con la realizzazione di tombe, da semplici mastabe a riproduzioni in miniatura delle piramide reali, per i nobili, i dignitari, i funzionari di corte, gli artigiani più agiati e le loro famiglie. La vita oltre la morte, inizialmente prerogativa della sola famiglia reale, viene assicurata a chiunque abbia abbastanza denaro per erigersi una tomba, per poterla decorare con dipinti e rilievi indicanti le istruzioni per raggiungere il mondo dei morti e per poter imbalsamare il proprio corpo.

Le dimensioni di questi grandiosi monumenti funerari, costruiti per conservare per l'eternità i corpi dei faraoni morti, ci continuano a trasmettere un senso di eternità e immutabilità.
Anche l'arte etrusca è un'arte prevalentemente funeraria. Gli ambienti sepolcrali  tutt'oggi visitabili a Tarquinia e a Cerveteri non erano gli unici luoghi affrescati in Etruria, ma sono quelli meglio conservati. Dalle prime esperienze del VII secolo a.C. ci fu l'uso di dipingere le pareti delle tombe con scene legate agli ideali della vita aristocratica, ai cicli dell'agricoltura, ai riti funerari e alla vita ultraterrena.

Dalle attestazioni epigrafiche rinvenute sul territorio di Roma, di notevole importanza e valore ai fini della ricerca, è certa l'esistenza dell'istituto sociale della sepoltura presente nel diritto romano. Mantenendosi alquanto inalterato lungo i periodi della storia romana, esso aveva sancito le due possibilita': inumazione e cremazione. Su questo punto non mancano esplicite dichiarazioni provenienti da diverse fonti e dall'ambiente in cui il rito dell'inumazione o della cremazione trovava applicazione, si colgono profonde differenziazioni religiose ed ideologiche. Non si puo' separare la concezione romana dell'al di la' da quella greca, che esprimeva nelle diverse consuetudini e riti il culto dei morti, destinato ad onorare la memoria di coloro che ci hanno preceduti sulla terra....
I Greci riservarono al  dialogo con i defunti il memorabile canto XI dell'Odissea di Omero. Dopo essersi fermato un anno da Circe, Ulisse - su indicazione della stessa maga - si accinge a una nuova prova, la catabasi, cioè la discesa di una persona viva nell’Ade, regno dei morti, un grande motivo topico della letteratura.
Là riesce a entrare in contatto con le figure dei compagni perduti durante la guerra di Troia, con la madre e con l'indovino Tiresia, che gli presagirà un ritorno luttuoso e difficile, invitandolo a guardarsi dal toccare le vacche del Sole iperionide. Tra i miti greci riservati al mondo degli Inferi spicca quello di Orfeo ed Euridice, laddove la musica della lira di Orfeo riesce a placare l'ira di Cerbero (il cane a tre teste)  e delle fiere  e a varcare il Regno dei Morti da vivo. Detto mito, fu ripreso poi da Ovidio. Non si può fare a meno di citare anche il mito di Sisifo che appena deceduto,  riesce a ingannare gli dèi con mille astuzie e a ritornare sulla Terra, poiché troppo innamorato della Vita, per rassegnarsi al regno delle Ombre. Gli dei infuriati per tanta sfrontatezza, lo condannarono a sospingere un pesante masso che rotolava giù per il Tartaro e che poi a fine fatica gli ritornava per essere ancora sospinto. Questa inutile fatica venne  poi chiamata "la fatica di Sisifo".

All'Oltretomba l'amico Josh ha già dedicato un post esaustivo dal titolo  Aldilà Nekyia Inferno.
Nekyia, dal greco νέκυια, (da νέκυς, arc. di νεκρός «morto») era presso i Greci antichi il rito (necromatico appunto) con cui si evocavano i morti a scopo divinatorio.
Non starò a sintetizzare la concezione dantesca dell'aldilà, già analiticamente enucleata in detto post a proposito della Divina Commedia,  nella cantica dell'Inferno nella quale Dante raccoglie in parte l'eredità di Virgilio nel libro VI dell'Eneide e dello stesso  Omero in "Odissea", alla luce della cristianità medievale. Saltando parecchi secoli dopo, arriviamo ai Sepolcri di Ugo Foscolo, un carme  che trasse ispirazione dall'estensione all'Italia, avvenuta il 5 settembre del 1806, dell'editto napoleonico di Saint-Cloud (1804). Napoleone aveva imposto di seppellire i morti al di fuori delle mura cittadine  per motivi di igiene, e aveva inoltre regolamentato, per ragioni democratiche, che le lapidi dovessero essere tutte della stessa grandezza e le iscrizioni controllate da una commissione apposita. L'editto napoleonico offre al poeta l'occasione per svolgere una densa meditazione filosofica sulla morte e sul significato dell'agire umano. I Sepolcri si richiamano alla letteratura sepolcrale inglese in auge in quel periodo e in quello successivo, tra cui si ricordano le Notti di Edward Young, le Meditazioni sulle tombe di James Hervey e la celebre Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray.

Foscolo, benché figlio dei Lumi e seguace di Napoleone,  si sofferma sul significato e la funzione che la tomba viene ad assumere per i vivi impostando il carme come una celebrazione di quei valori e di quegli ideali che possono dare un significato alla vita umana, stabilendo tra i vivi e i morti, una sorta di trascendente corrispondenza.
L'argomento come anticipato è vastissimo e ogni Paese ha la sua letteratura e arte sepolcrale. Si pensi alla  più moderna e fortunata "Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters.  Si tratta di una raccolta di poesie che questo poeta americano pubblicò tra il 1914 e il 1915 sul Mirror di St. Louis. Ogni poesia racconta, in forma di epitaffio, la vita di una delle persone sepolte nel cimitero di un piccolo paesino immaginario della provincia americana. Ecco un esempio:


FRANCIS TURNER (Un malato di cuore)

Non potevo correre o giocare
da ragazzo.
Da uomo potevo solo sorseggiare dalla coppa,
non bere -
perchè la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Ora giaccio qui
confortato da un segreto che nessuno tranne Mary conosce:
c'è un giardino di acacie,
di catalpe, e di pergole dolci di viti -
là quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary -
baciandola con l'anima sulle labbra
all'improvviso questa prese il volo


Il pittoresco cimitero di Sète (nella foto) , in Languedoc, ha ispirato al poeta simbolista Paul Valéry la sua lunga ode dal titolo"Il cimitero marino". (Quel tetto quieto, corso da colombe/In mezzo ai pini palpita, alle tombe/Mezzodì il giusto in fuochi vi ricrea/II mare, il mare, sempre rinnovato!)

 In  Liguria e in Provenza è consuetudine inumare i morti in cimiteri fuori borgo su spianate o colline prospicienti il mare. Qui i defunti sprofondati nel regno delle Ombre, godono per paradosso, la luce del sole che nasce e  che muore al crepuscolo, incendiando l'orizzonte. Sono esposti ai venti e al fragore delle onde.  Un'antica leggenda marinara narra che le ossa dei defunti lambite dai flutti, si trasformano poi in conchiglie e stelle marine che il mare accoglie nel suo grembo e incessantemente rigenera. E questo ciclo rassicurante delle metamorfosi mi fa optare senz'altro per l'inumazione. Anche perché la cremazione è figlia di quell'iconoclastia furiosa dei nostri catastrofici tempi. Termino con questa poesia di Cardarelli che è posta come epigrafe davanti al piccolo cimitero di Manarola, una delle 5 Terre, che consiglio vivamente di visitare. Da lassù, si spalanca un panorama mozzafiato. Ma non è l'unico. Anche a Porto Venere (foto in alto al centro del post), Lord Byron rimase sedotto dal suo singolare cimitero a picco sulla rupe della Grotta chiamata in seguito, Grotta Byron, poiché da qui il Poeta partì a nuoto per la sua memorabile traversata del Golfo, fino a Lerici , situato sulla riviera opposta :

O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai venti e all'onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore 


Vincenzo Cardarelli



Uno scorcio del cimitero di Manarola



Hesperia

mercoledì 25 settembre 2013

"Stanze", e....


Blaise Pascal, nei "Pensieri" affermava:

« [...] ho scoperto che tutta l'infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera. [...]
Ho voluto scoprirne la ragione, ho scoperto che ce n'è una effettiva, che consiste nella infelicità naturale della nostra condizione, debole, mortale e così miserabile che nulla ci può consolare quando la consideriamo seriamente. » (Blaise Pascal, Pensieri, 139)

Concordo,
con un'aggiunta ("nulla ci può consolare,"....tranne la fede, come capirà poi Pascal stesso). Frattanto, si fa strada nella mente questa immagine carica di valenze della camera, quindi della "stanza".


(San Girolamo nell'eremo, visitato dagli Angeli, di Bartolomeo Cavarozzi, inizi XVII)


Un'idea della stanza come luogo...in cui possono accadere molte cose, anche salvifiche, è antica, la proponeva Gesù Cristo stesso nei Vangeli, cfr. S. Matteo 6, 6
"Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà."

Spesso il mistico (nella cella, per es. nel caso del monachesimo), e diversamente anche il poeta, non ha alcun timore di incontrare l'Assoluto, o anche solamente se stesso nella stanza.

In alcuni casi gli artisti in genere, ed i poeti in special modo, avevano una parte di sè assolutamente connaturata alla stanza, che implica studio, meditazione, ma anche vivere appartati, a volte anche separati dal mondo,
ma vivi e creatori, se pure all'interno di una stanza, che è un mondo chiuso solo in apparenza.

Allo stesso tempo i codici espressivi si accavallano,
e "stanza" in poesia oltre al luogo che tutti conosciamo, è anche una forma del comporre che si intende nella sua accezione metrica, come strofa (in tempi recenti), mentre in passato s'intendeva un'ampia parte di un poema; così come il termine s'incontra ancora per designare sezioni di musica sacra e inni.


(Camera di S.Paolo o Camera della Badessa, per Giovanna Piacenza, affreschi di Correggio, Monastero di S. Paolo, 1519, Parma)

Con Dante si comincia a intendere, per "stanza", anche una strofa di otto versi che rappresenta l'unità ritmica della rima finale. Anche i sonetti, pur unitari, possono essere suddivisi in stanze.
In metrica, si definisce "stanza" sia la strofa di una canzone (cioè una struttura di più versi cui è associato un determinato schema di rime), sia un testo poetico di una sola strofa.

Dante nella "Vita Nuova" (cap. XIII) presenta un esempio:

"Misimi ne la mia camera, là ov'io potea lamentarmi sanza essere udito;" 
"e anzi ch'io uscisse di questa camera propuosi di fare una ballata"; 
"mi ritornai nella camera delle lagrime" 
"E in questo pianto stando, propuosi di dire parole, ne le quali, parlando di lei, significasse la cagione del mio trasfiguramento". 

La stanza per il poeta è un luogo in cui raccogliersi, riflettere, e reperire i vocaboli per le poesie. E' un topos outopos, spazio-non spazio, dove il poeta si isola per trovare una condizione in grado di farlo interagire con il mondo delle idee.
Luogo di solitudine, ma anche luogo di creazione, di elaborazione.

Per Giorgio Agamben la stanza in questi casi contiene tre dimensioni: l'ambiente in cui il poeta si ritira per creare, lo spazio della dinamica interiore da cui la parola poetica scaturisce, e la forma che essa assume traducendosi in scrittura.
Quindi nella 'stanza' si possono cogliere l'unità di un'esperienza che si presenta come esistenziale, visionaria e verbale, come reciproca implicazione e reversibilità di realtà, fantasma e parola nell'atto creativo.


(Wunderkammer siciliana, XVII sec.)

Diversamente, la stanza ha anche la valenza di specola del mondo, o diversamente di Wunderkammer o Cabinet of curiosities.
La specola altro non era/è che un osservatorio astronomico: famosa quella Vaticana
ma anche quelle di Brera o di  Capodimonte. L'idea di stanza come specola del mondo (in senso lato, osservatorio non solo astronomico) è sottile, perchè implica un luogo circoscritto e chiuso (la stanza) ma anche strategicamente aperto, che rende possibile la contemplazione da un punto di vista privilegiato.

Per quanto riguarda la Wunderkammer, invece, va intesa come camera delle meraviglie, (anche Kunstkammer, camera dell’arte) un'idea d'ambiente ove i collezionisti, specie tra il XVI e il XVIII secolo, conservavano oggetti ritenuti straordinari. 
Il fenomeno caratterizza il 1500, ma manifesta radici precedenti: l'idea della raccolta, degli exempla, della prima catalogazione delle stranezze o meraviglie, della collezione e dell'enciclopedismo in cui tentare di razionalizzare il mondo, nasce in evo ancora medievale.

Nel Seicento vi si aggiunge la grandeur barocca e un altro tipo d'amore per il bizzarro, nel Settecento si declina secondo criteri più razionali e scientifici.
La Wunderkammer diviene come la prima idea di museo privato, pur senza la metodologia di raccolta e selezione del vero museo.
(Tra i primi iniziatori del museo/musaeum come lo intendiamo oggi, invece vedere anche qui)

L’origine di questa stanza corrisponde anche allo studiolo di origine italiana ed umanistica, utilizzato dal signore come luogo di studio e meditazione. Gli esempi più antichi di questi spazi sono lo studiolo del duca Federico da Montefeltro a Urbino, tra il 1473 e il 1476, quello di Isabella d’Este al Palazzo Ducale di Mantova (1497-1523) e pochi altri.


(Antonello da Messina, San Girolamo nello Studio, olio su tavola di tiglio 1474-1475)

L’intellettuale, sprofondato nella solitudine del suo studiolo, circondato da oggetti simbolici e intento a risolvere l'enigma del mondo, studia la realtà e quasi preferisce alla vita reale la sua rappresentazione cartacea.

Lo studioso è quindi visto come Homo Melancholicus (alcuni addentellati a questa condizione sono nel post: "Iperico, Male Oscuro e Spleen") che contempla gli oggetti terreni comprendendone la loro vanità.
La sua collezione è destinata al fallimento perché non potrà racchiudere in una camera la varietà delle specie del mondo, o peggio l'infinito nel finito. La wunderkammer è quindi anche espressione del senso del limite, un memento mori poiché ogni oggetto ricorda la finitudine.


(Albrecht Dürer, San Girolamo, 1521)

Gli oggetti presenti in queste stanze erano divisi in
naturalia (animali rari o sconosciuti, ortaggi o frutti insoliti) e artificialia (creati dall'uomo) particolari per tecniche complicate o segrete.
Tutti questi reperti erano considerati  mirabilia.

Gli oggetti erano disposti sulle pareti in scansie lignee: barattoli di vetro con parti del corpo umano immerse in un liquido che avrebbe dovuto favorirne la conservazione, animali deformi, rocce o pietre rare, coralli, piante rare essiccate.
Agli scaffali si alternavano armadi e stipi, con cassetti di ogni misura, in cui erano raccolti gli oggetti più piccoli come perle, semi di frutti.

La wunderkammer si sviluppa in seguito in particolare in area nordica, da cui il termine tedesco. Il re o il signore attraverso la collezione di oggetti rari e preziosi, allestiti e ordinati secondo criteri variabili, esibiva sapere, ricchezza e potere.
La camera delle meraviglie come collezione di ogni tipo di oggetto assumeva lo scopo della rappresentazione totale del Theatrum Mundi attraverso suoi frammenti, quasi suoi reperti.
La wunderkammer è quindi anche il tentativo di ricreare in piccolo un microcosmo un’immagine del mondo/macrocosmo, cercando di enuclearne la sua varietà.

Il Granduca di Toscana Francesco I de' Medici, appassionato di conoscenze, studioso della pietra filosofale, voleva trasformare lo studiolo in una wunderkammer.
Nella foto sottostante è il famoso studiolo, a Palazzo Poggi: in origine era frutto  dell'interazione tra vari artisti manieristi come Vincenzo Borghini sotto la direzione di Giorgio Vasari.


Francesco I amava ritirarvisi in solitudine coltivando i propri interessi scientifici e magico-alchemici. Lo studiolo doveva essere un luogo dove catalogare i materiali collezionati da Francesco, ma gli esperimenti si svolgevano nel laboratorio del Casino di San Marco. Lo stato comunque splendido in cui lo vediamo oggi è frutto di una risistemazione successiva.

Va ricordata ancora la wunderkammer nel castello di Ambras ad Innsbruck di Ferdinando II d’Asburgo e quella dell’imperatore Rodolfo II d'Asburgo, tra i maggiori collezionisti europei.

A Bologna si può ricordare lo studio (più che mera stanza o wunderkammer) del medico e naturalista Ulisse Aldrovandi (1522-1605) fondatore della moderna Storia Naturale (la cui collezione è visibile al Museo di Palazzo Poggi)
o quella del fisico gesuita Athanasius Kircher (1602 -1680) a Roma.
Gli studiosi che realizzarono queste raccolte avevano obiettivi scientifici, tentavano una classificazione, un ordine, frutto di una mentalità sistematica.



Lasciate le camere delle meraviglie e le collezioni,
tornando alla "stanza del poeta",
in età recente, per la sua importanza, non si può non segnalare la stanza di Giovanni Pascoli con le 3 scrivanie (sopra): 
una per il greco, una per il latino e una per l'italiano, nella sua dimora a Castelvecchio,
segno delle nostre radici simboliche e culturali, nonchè linguistiche.

Josh

mercoledì 30 gennaio 2013

Alfredo Protti e il Novecento sensuale



Figura fin troppo negletta nella memoria recente della nostra pittura,

Alfredo Protti (Bologna, 1882-1949) inizia nella sua città, all'Accademia delle Belle Arti, come allievo di Domenico Ferri, e compagno dei pittori Cesarini e Valeri.
L'artista dichiarerà in seguito di esser divenuto pittore di fama, all'epoca, grazie al lavoro intenso presso le gallerie italiane ed estere, e non tanto sotto l'egida dei suoi maestri.


Fin da principio, il Nostro aderisce a vari movimenti di rinnovamento culturale e pittorico, dalla costante antiaccademica e scapigliata fino ad assorbire l'humus delle avanguardie europee, Secessione compresa.
Ma è anche vero che ne fu parte, senza spingersi mai all'estremo sperimentale di queste correnti, e senza infrangere mai il paradigma della visione godibile.
Fu con i secessionisti bolognesi, con Corsi, Pizzirani, Fioresi, Romagnoli. Pur all'interno dei modi secessionisti, si rinvengono in Protti reminiscenze pittoriche ancora da Sargent, Whistler, Klimt, Renoir, Matisse.


Se si è soliti datare l'esordio al 1905, con il dipinto "Ritratto di fattorino", presto Protti si dedica ad approfondire il tema prediletto:
la figura femminile, solitamente colta in interni dall'ambientazione intima, in un alone di luce e particolari domestici, con la costante di una sensualità accesa.
La pennellata è agile e sfumata, l'atmosfera curata e controllata tra sapienti luminismi, c'è talvolta un velo di malinconia, ma manca l'idealizzazione della figura femminile grazie a un tocco di realismo che contribuisce ad avvicinare la donna allo spettatore, in tutta la sua fisicità.


Le donne di Protti sono diverse dalle donne allegoriche del Simbolismo e del Divisionismo, e simboleggiano piuttosto il nuovo femminile che vuole conquistare la società moderna.


La sua pittura riscosse successo,
risultando un insieme di tradizione e innovazione, nonostante il tema erotico affrontato quasi spudoratamente:
la maestria, oltre alla tecnica, oltre alla scelta della tipologia particolare di visione, risiedeva anche nel non infrangere il buon gusto, pur nella proposizione piuttosto diretta, per l'epoca, dei soggetti.

Lo sguardo è erotico, a volte sognante, a volte semplicemente sensuale. A volte la sensualità è più suggerita, a volte palese.







Un erotismo, quello di Protti, più pervaso dalla gioia dei sensi tipica della gaudente Bologna, senza però arrivare alla teorizzazione e ipostatizzazione della "part maudite", per dirla alla Georges Bataille, non particolarmente fosco nè decadente.



Per Ragghianti, Protti era una delle figure chiave della Bologna del Novecento, che contribuirono ad aggiornare la sensibilità del nostro paese.
Contemporaneo di Boccioni, Severini e Morandi, Protti seguì una carriera indipendente dai movimenti d'avanguardia più di rottura del suo tempo, mantenendosi lontano dal Futurismo, e dalla pittura Metafisica.


Dai primi anni del Novecento espone frequentemente, ed è premiato alle mostre dell'Associazione Francesco Francia e al Premio Curlandese delle Belle Arti. Prende parte a mostre italiane ed internazionali: dal 1908 è a Milano all'Esposizione Nazionale di Belle Arti della Permanente (e di nuovo, nel 1910 e nel 1912), alla Biennale di Venezia (1909-1926), dal 1913 al 1915  alle Esposizioni Internazionali della Secessione a Roma, e ancora a Napoli e alla Quadriennale di Torino.

La fama nella sua epoca gli arride tanto che le sue opere sono note a Parigi, a Buenos Aires, a San Francisco, a Monaco, a Pittsburgh, a Barcellona e Zurigo. Vincerà anche la Cattedra di Pittura dell'Accademia a Ravenna nel 1920, e a Bologna nel 1931 per l'Accademia di Belle Arti, poi la Cattedra di Figura del Liceo Artistico nel 1940.
Col tempo, verso la fine degli anni 20, inizia un calo di popolarità, ma anche un suo distaccarsi dell'incipiente arte di regime, che sarà distante dal suo modo di sentire.


Nel corso degli anni, Protti rimane comunque fedele allo stile 'emiliano', è compreso dalla borghesia internazionale, che vi trova, accanto a suggerimenti della Secessione, anche che la rottura con il passato non giunge mai nel suo caso all'inconciliabilità con la tradizione, dal momento che permangono nei suoi dipinti elementi di evidente Naturalismo e Post-Impressionismo, ma anche influssi del 1700, di temi e spunti della pittura francese, una sorta di eredità aggiornata anche da Fragonard e Boucher.


Solo tra gli anni 30 e 40 Protti abbandona il nudo femminile, per optare per paesaggi, nature morte, e temi questa volta più vicini alla raffigurazione di una vita familiare come vista dall'interno, mentre la costante rimane l'accentuarsi della sua interpretazione intimista del reale.

(sotto, Autoritratto con la moglie)



70 opere di Protti sono l'argomento della mostra a lui dedicata a Bologna, Palazzo d'Accursio, curata da Alessandra Sandrolini, in collaborazione col MAMbo (Museo Arte Moderna Bologna).
Aperta al pubblico con ingresso libero dal 20 dicembre 2012 al 4 febbraio 2013.
associazione bologna per le arti
Catalogo: Grafiche dell’Artiere

(sotto, la targa presso il palazzo in cui visse, in Via Mazzini 2/3)



Palazzo D’Accursio
Sala d’Ercole, Manica Lunga, Sala Farnese
Piazza Maggiore 6, Bologna
Ingresso libero

nello stesso periodo, accadeva a Bologna...Artefiera

Josh

martedì 11 dicembre 2012

L'Abbazia di Pomposa e Guido d'Arezzo



Il luogo è semplicemente magico, per ciò che semplicemente si vede e per i significati riposti che gli si annodano intorno.
L'Abbazia in questione è una delle più importanti d'Italia e presenta alcune particolarità. Situata a Codigoro (Ferrara), è datata intorno al IX secolo, o per lo meno risulta già nel IX secolo l'insediamento di un'abbazia benedettina più piccola del complesso successivo, mentre la comunità monastica era presente ancor prima, tra VI e VII secolo, quando i monaci di S. Colombano eressero un primo edificio religioso, probabilmente una cappella.


La presenza del cenobio è testimoniata da un documento datato 874 in cui Papa Giovanni VII arrogava al papato la giurisdizione sul complesso, in contrasto con la diocesi di Ravenna.


Dedicata a Santa Maria è la parte più antica, del VII-IX secolo, allungata in seguito con due campate e atrio nell'XI; le particolarità dell'atrio sono gli ornamenti in cotto e la presenza di elementi di maiolica.
L'interno della Chiesa è a tre navate, ripartito in una successione di colonne bizantine e romane. Il pavimento in marmo (antichissimo, risalente al VII secolo) presenta una lavorazione in opus sectile di grande pregio. La tecnica antica di decorazione è citata anche in Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, libro XXXVI, VI_IX, a proposito del Mausoleo di Alicarnasso (IV a.C.).


Ancora la Chiesa presenta sulle pareti affreschi di scuola bolognese trecentesca di storie dell'AT, NT e Apocalisse, mentre sulla controfacciata spicca un Giudizio Universale.


Sull'abside, affreschi di Vitale da Bologna, con Cristo con Angeli e Santi, Dottori della Chiesa, e gli Evangelisti.
Il campanile risale al 1063 e misura 48 metri. Ancora parte del complesso il Monastero, con la Sala Capitolare affrescata nel trecento, il Refettorio preziosamente affrescato, e il Palazzo della Ragione in cui l'abate esercitava potere amministrativo e giuridico.


In origine, primo elemento di bellezza naturale e architettonica, era circondata dal Po di Goro e di Volano e dal mare stesso, che isolavano il complesso nella "insula pomposiana", era cioè completamente circondata e lambita dall'acqua, immagine di fiabesco e mistico locus amoenus medievale.
L'abbazia che vediamo oggi fu consacrata nel 1026, ma si tratta comunque di un complesso attivo da parecchio tempo addietro, come risulta dalle numerose tracce precedenti.
L'abbazia raggiunse il suo culmine nell'XI secolo, ebbe vita fiorente fino al XIV secolo circa, perchè godeva della proprietà di una salina a Comacchio, e in seguito a donazioni di varie proprietà terriere nei dintorni e per tutta Italia; seguì una fase di declino dovuta alla malaria prima, e all'impaludamento dell'area dovuto alla rottura degli argini del Po a Ficarolo nel 1152 che mutarono le condizioni climatiche, ambientali.


Il complesso è noto:
per la struttura, all'originaria Basilica, il magister Mazulo aggiunse un nartece con 3 arcate;
per l'opera dei monaci amanuensi, quindi per la diffusione e conservazione di testi e cultura;
per la presenza di figure storiche, come San Pier Damiani e Guido d'Arezzo, a cui è dovuta la moderna notazione musicale (fissò anche il sistema moderno delle note).


Nell'XI secolo l'abbazia contava la presenza di una comunità di oltre 100 monaci; ma nel 1423 è trasformata in commenda; già nel 1496 è annoverata tra i beni del Monastero di S. Benedetto a Ferrara (aveva cioè smarrito la sua autonomia).
Nel 1653 papa Innocenzo X soppresse il monastero, anche se gli ultimi monaci ne escono solo verso la fine del secolo. Gli edifici rimasti disabitati ed esposti all'incuria iniziano a danneggiarsi, tanto che quando il complesso viene acquistato nel 1802 dalla famiglia dei Marchesi Guiccioli di Ravenna, i locali vengono usati come magazzini, stalle e fienili annessi all'azienda agricola. Tra 1910 e 1914 lo Stato espropria gran parte del complesso, e viene dato inizio tra 1925 e 1930 ad un ciclo di restauro per restituire il complesso all'antico splendore.


Quanto vediamo oggi è comunque solo una parte del vasto convento benedettino, composto di altri edifici tra i quali la massiccia Torre dell’Abate, un secondo Chiostro dedicato a San Guido, la chiesetta di San Michele e la Biblioteca, famosa in età umanistica per la vastissima raccolta di manoscritti  classici e religiosi.


Guido d'Arezzo, altrimenti noto come Guido Monaco, o Guido Pomposiano, (992-1050), è famoso per esser stato monaco, letterato, teorico della musica, figura della cultura medievale. Non ci sono dati troppo certi sulla sua nascita, anche se più che sui manoscritti guidoniani, nelle sue epistole, dice di sè "Pomposiano Agro exhortus". Entrato in monastero a 22 anni, si formò sotto la direzione dell'abate Guido di Ravenna.


Come teorico musicale, Guido Monaco è noto come l'ideatore della moderna notazione, per l'adozione del tetragramma, che sostituisce la precedente notazione adiastematica. A quel tempo non si considerava un sistema scritto di notazione musicale, ed il canto era eseguito ad orecchio.
Il suo sistema scritto fu rivoluzionario, ma trovò resistenze all'interno del convento di Pomposa, che preferì abbandonare nel 1052; Guido comunque si propose di risolvere i problemi del memorizzare e fissare sistematicamente per iscritto il canto gregoriano.
Ad Arezzo (da cui il suo nome più noto) fu accolto benevolmente dal Vescovo Teodaldo, che lo autorizzò alla predicazione sacra e gli affidò il ruolo di maestro. Adottò il nuovo metodo scritto, e sotto impulso del vescovo illuminato scrisse il "Micrologus" , titolo del suo famoso Trattato musicale, una sorta di best seller o meglio, uno dei testi più diffusi del medioevo, dopo l'onnipresente "De Consolatione Philosophiae" e i trattati di Severino Boezio. Il trattato riscosse fama e Guido fu invitato da papa Giovanni XIX a Roma per illustragli la nuova sistemazione scritta delle note.

Come aiuto ai cantori, Guido scelse le sillabe iniziali dei versi dell'Inno a San Giovanni Battista di Paolo Diacono, per gli intervalli dell'esacordo.

« Ut queant laxis
Resonare fibris
Mira gestorum
Famuli tuorum
Solve polluti
Labii reatum
Sancte Iohannes »

(Affinché possano con libere
voci cantare
le meraviglie delle azioni
tue i (tuoi) servi,
cancella del contaminato
labbro il peccato,
o san Giovanni)

Da qui le basi della solmisazione (la forma in nuce del solfeggio). L'invenzione della notazione scritta di Guido rese possibile a cantori e a musicisti intonare ed eseguire a prima vista i canti e le melodie senza doverli imparare a memoria ascoltandoli dagli altri. La musica ed il canto teorizzati da Guido d'Arezzo sono in realtà l'unico linguaggio comune dell'umanità che non ha necessità di traduzioni per tutti i popoli del mondo.
In principio, il sistema guidoniano non era usato per indicare l'altezza dei suoni, denotati ancora dal sistema alfabetico, ma solo per collocare il semitono mi-fa nella melodia. Ut dunque non era un Do. Sarà nel 1600 che i nomi tratti dal sistema guidoniano saranno abbinati anche alle altezze assolute delle note, dopo che alla fine del XVI era stato aggiunto il Si (da Sancte Iohannes), mentre Ut diverrà definitivamente Do grazie a Giovanni Battista Doni.
Guido codificò anche la posizione e i significati delle note sulle righe e negli spazi del rigo musicale, proponendo un codice unificato per la loro scrittura ed interpretazione.
Nella modernità si usa il pentagramma (dopo l'aggiunta del Si), Guido introdusse il tetragramma, e anche un sistema mnemonico facilitato (la "mano guidoniana")


per l'esatta intonazione dei gradi della scala.
Sue anche l'epistola "ad Michelem de ignoto cantu", "Prologus in Antiphonarium" e "Regulae Rithmicae"
Pare che dal 1040 al 1050 Guido fu priore di nuovo a Pomposa nel suo vecchio monastero, e volle con sè l'amico San Pier Damiani.

E' annoverato tra i Beati, qui una sua breve monografia sacra.

 

(parte delle informazioni sono estratte da Wikipedia, altre dal portale Beni Culturali su linkato)

Josh

martedì 20 novembre 2012

Da Guercino a Caravaggio con Sir Denis Mahon


(Guercino, Saul contro Davide, 1646)

A Milano, a Palazzo Reale, si tiene la Mostra, una delle più importanti della stagione (dal 18 Settembre fino al 20 gennaio 2013), che spazia appunto da Guercino (nativo di Cento, Fe) a Caravaggio, con la presenza di altri Artisti, dando un'immagine potente del nostro 1600.
Sir Denis Mahon aveva ideato questa iniziativa per il suo centesimo compleanno. Si augurava di festeggiarlo presentando i suoi amati dipinti, in ossequio ad un senso del mecenatismo e della cura per la diffusione del bello, con un'etica che sembra appartenere ad altri tempi.


(Sir Denis Mahon)

Considerava l'Italia la culla del Barocco, ed era interessato principalmente al primo periodo di questo stile, già da quando nei decenni scorsi la critica ufficiale osteggiava le produzioni del periodo.
La sua azione, oltre a studi svolti in prima persona per una riscoperta, ha previsto anche un importante lascito (stimato del valore di oltre 50 milioni di euro) alla Pinacoteca Nazionale di Bologna.



(Caravaggio, i Bari,1594)

In effetti Sir Denis già dagli anni '50 organizzò la sua prima importante Mostra sui Carracci proprio a Bologna, e in pratica per 50 anni ha collaborato con Francesco Arcangeli e Andrea Emiliani, in un continuo andirivieni tra Londra e il capoluogo emiliano, contribuendo alla rinascita dell'interesse per questa fase della nostra arte. Sir Denis dedicò ricerche anche al grande Guido Reni.


(Guido Reni, Il Ratto d'Europa, 1630-1640)

"La sua era la collezione privata più pubblica che esista" affermava Nicholas Penny, Direttore della National Gallery di Londra. Tutte le opere di proprietà di Sir Denis sono infatti state donate da lui ad istituzioni pubbliche affinchè tutti potessero usufruirne.
Oltre ai generosi lasciti fatti a noi, parte della collezione privata è stata acquisita dal Regno Unito, ma il mecenate ha vincolato il lascito delle tele in madrepatria esclusivamente ai musei gratuiti.
Radicalmente di classe fino all'ultimo.


(Guercino, Madonna del Passero, 1615-16)

Scomparso Sir Denis l'anno scorso, la Mostra milanese ha luogo ugualmente secondo i piani, ad opera della società gestita da Roberto Celli, a cui Sir Denis aveva affidato la realizzazione delle mostre degli ultimi anni, in collaborazione con la Fondazione Mahon, e naturalmente con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e del Ministero degli Affari Esteri.


(Guido Reni, Una Sibilla, 1635-36)

La rassegna è ubicata al piano nobile di Palazzo Reale, curata da Mina Gregori e Daniele Benati, stesso luogo della mostra su Guercino di Sir Denis del 2003. Se la predilezione di Sir Denis andava a Guercino, lo considerò un punto di partenza per le ricerche intorno all'opera di Caravaggio, fino a Poussin, nell'intento di mettere in evidenze percorsi, scoperte, notazioni.
Alla Mostra sono presenti anche i Guercino e Caravaggio provenienti da San Pietroburgo, che sono stati oggetto di studio ed analisi da parte di Sir Denis.
Il tutto in una seconda fase si trasferirà a San Pietroburgo sotto la direzione del Prof. Piotrovsky, direttore dell'Hermitage.

Qui una biografia più approfondita di Sir John Denis Mahon.
Un articolo dal Times.
Su Rai Arte una lezione di Sir Denis su Caravaggio.

Per info sulla Mostra:
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12 e presso Comune di Milano

Josh